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"I biocarburanti dell'Ue hanno causato la deforestazione di un'area grande come l'Olanda"

La stessa Commissione europea ha ammesso che il biodiesel derivato dagli oli vegetali di palma e soia inquina dalle due alle tre volte di più rispetto al diesel fossile





Negli ultimi dieci anni, i biocarburanti voluti dall’Ue per rimpiazzare i combustibili fossili hanno causato la scomparsa di un’area totale di foresta pari alla superficie dell’Olanda e hanno emesso fino a tre volte più CO2 rispetto al diesel che hanno sostituito. Queste le conclusioni poco incoraggianti dello studio condotto da Transport & Environment (T&E), un’organizzazione attiva sui temi della mobilità sostenibile. Il documento mette in evidenza, oltre alle scelte discutibili fatte da Bruxelles, quali sono i Paesi che hanno scommesso di più sui carburanti di nuova generazione. Nel 2020, l’Italia è stata la terza produttrice europea di biodiesel, alle spalle di Spagna e Paesi Bassi, e la quarta per consumi.

“Nel 2009 - si ricorda nello studio - è stata introdotta la direttiva Ue sulle energie rinnovabili (Red) per promuovere l’uso” delle fonti alternative a quelle fossili “nel settore dei trasporti”. La norma ha obbligato “gli Stati membri, entro il 2020, a rispettare una quota del 10% di energia rinnovabile nel consumo finale di energia dei trasporti”. Tuttavia, tali regole “hanno trascurato le salvaguardie della sostenibilità e non hanno tenuto conto dell'intero ciclo di vita delle emissioni legate alla catena di approvvigionamento del carburante e all'uso del suolo”. In altre parole, “il consumo della gran parte di biocarburanti” ha portato ad “emissioni complessive di gas serra superiori rispetto ai combustibili fossili”.



Ad esempio, la domanda di biodiesel dell’Ue ha richiesto la coltivazione di 1,1 milioni di ettari di palme nel sud-est asiatico e di 2,9 milioni di ettari di semi di soia in Sud America. Superfici strappate ai preziosi milioni di ettari di foresta, riconvertita alle monocolture necessarie per le produzione dei carburanti. Il documento di T&E ricorda che nel 2012 e nel 2016 la Commissione europea ha pubblicato due studi che hanno quantificato le emissioni di biocarburanti legate all'uso del suolo. In entrambe le occasioni, l’esecutivo Ue ha ammesso “che quando si prendono in considerazione le emissioni previste per il cambiamento indiretto della destinazione del suolo, tutti i biodiesel a base di olio vegetale comportano più emissioni del diesel fossile”. “Il rapporto più recente - si precisa - ha mostrato che le emissioni sono particolarmente elevate per l'olio di palma e di soia, che causano rispettivamente tre e due volte le emissioni del diesel fossile”.

“Una politica che avrebbe dovuto salvare il pianeta in realtà lo sta distruggendo”, è il commento di Laura Buffet, direttrice energetica di T&E. “Gli sforzi per sostituire i combustibili inquinanti come il diesel con i biocarburanti stanno paradossalmente aumentando le emissioni di anidride carbonica che riscaldano il pianeta”, ha concluso Buffet.




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fonte: europa.today.it/


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L’imbroglio dell’olio di palma nel biodiesel

Quasi la metà dell’olio di palma usato nell’Unione Europea finisce bruciato come biodiesel nei motori a gasolio, contribuendo alla distruzione delle foreste equatoriali e peggiorando la situazione climatica, il tutto con la benedizione, e i sussidi, degli Stati europei.
























Sono un consumatore cosciente dei danni ambientali e climatici che produciamo con le nostre scelte di acquisto.
Così, sapendo che l’olio di palma è prodotto in gran parte da terreni ottenuti distruggendo la foresta tropicale, quando vado al supermercato evito accuratamente i prodotti che lo contengono, aiutato in questo dal fatto che questo ingrediente è diventato una sorta di appestato (ma principalmente per effetti negativi sulla salute ancora da dimostrare). La sua assenza è annunciata sulle confezioni dei tanti prodotti, alimentari e cosmetici, che un tempo lo contenevano.
Poi, fatta la mia “spesa consapevole”, mi fermo al distributore e faccio il pieno alla mia utilitaria diesel. E, senza che me ne renda conto, con il gasolio da petrolio mi entrano nel serbatoio 2 o 3 litri di olio di palma, trasformato in biodiesel: molto di più che se avessi riempito le sporte di prodotti contenenti quest’olio tropicale!
Questa beffa è in atto già da molti anni, e la cosa paradossale è che l’uso di olio di palma per farne “gasolio verde” è così sussidiato nell’Unione Europea, nel quadro della sostituzione del 10% dei combustibili da petrolio con biodiesel e bioetanolo, che il 46% delle sette milioni di tonnellate di olio di palma che l’Europa importa ogni anno, finiscono bruciate nei motori diesel (e un altro 16% per produrre elettricità “verde”).
Si potrebbe sperare che, almeno, questo uso dell’olio di palma nei motori contribuisca ad abbattere le emissioni di CO2 del 50-60% rispetto al gasolio, come specificato dalle stesse regole che l’UE ha fissato. Ma è vero esattamente l’opposto.
Un rapporto del 2015, richiesto dalla Commissione Europea ad un consorzio di enti di ricerca coordinati dall’International Institute for Applied Systems Analysis, ha concluso che fra i vari tipi di biocombustibili per autotrazione (biodiesel e bioetanolo), l’olio di palma è quello che produce di gran lunga più emissioni: circa 230 grammi di CO2 per ogni MegaJoule di calore prodotto.
Il biodiesel da soia emette circa 150 grCO2/MJ, quelli da olio di colza e girasole circa 65 gr/MJ. 
Il biodiesel venduto in Europa, fatto con un mix di questi oli vegetali, in media è associato all’emissione di circa 100 grCO2/MJ.
E il gasolio da petrolio? Emette circa 60 gr di CO2/MJ: il che vuol dire che il “verde” biodiesel da olio di palma emette quasi 4 volte più CO2 del gasolio da petrolio, e che il biodiesel europeo attuale è peggio del gasolio in quanto a emissioni.
L’imbroglio delle bioenergie, come lo chiama la rivista New Scientist, deriva dal fatto che nel calcolo del loro effetto sul clima si considera solo la CO2 evitata sostituendo carbone e petrolio, e non quella emessa a causa del loro uso.
«Se si tagliasse l’intera Amazzonia per sostituire con legna il carbone usato in Europa, quello conterebbe come riduzione del 100% nelle emissioni di CO2», ironizza l’economista delle risorse Tim Searchinger della Princeton University.
La ragione per cui l’olio di palma è così “nefando” per il clima, non risiede però nella sua scarsa resa, al contrario: fra le piante da olio è senz’altro la regina, visto che produce 5 volte più olio per ettaro della colza e 9 volte più della soia.
Il problema è che la palma da olio cresce in aree equatoriali, normalmente occupate da foresta. Sotto quelle aree ci sono spesso terreni torbosi che, una volta deforestati e drenati, si decompongono rapidamente, o bruciano, liberando enormi quantità di CO2 in atmosfera.
Ma allora perché l’Europa continua a sostituire il 5% del gasolio con olio di palma?
Forse sperano che, almeno entro un prossimo futuro, tutto l’olio di palma usato sia “certificato sostenibile” dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo), ente finanziato dalle industrie che usano olio di palma che garantisce che l’olio non provenga da nuovi terreni deforestati.
Peccato che una recente ricerca apparsa su Pnas e coordinata dall’ecologa Kimberley Carlon dell’Università del Minnesota, abbia calcolato che solo il 20% dell’olio di palma sul mercato sia certificato Rspo e che questo proviene da terreni contenenti solo l’1% della foresta equatoriale rimanente.
Ciò vuol dire che sono piantagioni che ormai hanno già eliminato tutta la natura possibile dal loro interno, e possono anche permettersi di essere “certificate”, mentre le piantagioni che producono il restante 80%, avendo ancora molto da deforestare, se ne guardano bene dal “certificarsi”.
Inoltre, come nota l’associazione Transport & Environment, che fa campagna da tempo contro i biocombustibili nei trasporti, la crescente domanda di olio di palma per biodiesel induce i contadini a trasformare i campi per il cibo in piantagioni di palma da olio “certificata”, mentre nuova deforestazione servirà a produrre gli alimenti che sono venuti a mancare.
Ma c’è di peggio: la domanda di olio di palma, che è il più economico e versatile degli oli vegetali, continua a salire, e, grazie anche all’esempio europeo, sempre più parti del mondo contano di soddisfare i loro obblighi climatici usandolo per sostituire parte dei combustibili fossili: continuando così al 2030 il mondo userà più del doppio degli attuali 60 milioni di tonnellate di olio di palma, la metà dei quali come “combustibile verde”. E allora anche le foreste equatoriali africane e sudamericane, e non solo quelle malesi e indonesiane, che ne forniscono oggi l’85%, cederanno il posto a piantagioni di palma da olio. 
Di fronte a questo disastro annunciato, il Parlamento Europeo, nel gennaio scorso, ha in effetti votato per escludere l’olio di palma dai sussidi per il biodiesel entro il 2020.
Il problema è che il Parlamento Europeo non decide quasi nulla, e dovrà essere la Commissione a recepire il suo suggerimento, e questa, almeno per ora, non ha fiatato sul tema, dimostrandosi molto sensibile alle sirene dell’industria del biodiesel, che spesso coincide con quella del petrolio (vedi le bioraffinerie Eni in Italia, presentate come la risposta “verde” del nostro gigante energetico), felice di aver trovato una soluzione “sostenibile” che allunghi la sopravvivenza del motore a scoppio.
Ma le cifre sulle emissioni ricordate prima dicono che anche se l’Ue bandisse l’olio di palma dal biodiesel, cambierebbe poco: non solo il biodiesel fatto con altri oli vegetali comunque emetterebbe più CO2 che il gasolio da petrolio, ma bruciare più di quegli altri oli nei motori a scoppio richiederebbe l’estensione delle loro coltivazioni, provocando ulteriore deforestazione, mentre l’aumento del loro prezzo renderebbe più conveniente sostituirli con olio di palma negli altri usi, alimentando così comunque la crescita delle piantagioni di palma da olio.
Servirebbe quindi un “taglio netto” all’inestricabile imbroglio dei biocombustibili. In altre parole, si dovrebbe smettere di spendere denaro pubblico per mantenere in vita artificialmente il motore a scoppio, con pannicelli caldi che lo rendano “meno insostenibile” e che spesso si rivelano peggiori di quello che vanno a sostituire, puntando invece tutti i possibili sussidi e investimenti sull’elettrificazione dei trasporti.
In fondo i biocombustibili sono solo un modo, contorto e irto di rischi, per usare l’energia solare per i trasporti: peccato che la fotosintesi immagazzini solo l’1% circa dell’energia del sole che cade sulla pianta. I pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, con cui ricaricare i mezzi elettrici, sfruttano l’energia solare molte volte meglio, e senza mettere a rischio le foreste tropicali e le specie animali che ci vivono dentro.
fonte: www.qualenergia.it

Firma la petizione "Stop allo spot a favore dell'olio di palma" e fai girare questo post.



Vi siete chiesti perché molte importanti aziende italiane e internazionali – tra cui ‪#‎Plasmon‬, #Colussi, #Coop e tante altre - hanno scelto di eliminare l'olio di palma dai loro prodotti?
Perché l'olio di palma è un killer che distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino: la nostra salute, gli animali, le foreste, l'ambiente dove vivono intere popolazioni costrette ad emigrare. Ci sono però alcune grosse aziende a cui tutto questo non interessa.
Ma a qualcuno tutto ciò non interessa. Parliamo di Ferrero, Nestlé, Unilever, Unigrà che, di fronte al boicottaggio dell'olio killer, hanno dovuto correre ai ripari. Ecco quindi approdare in TV uno spot promosso dalla neonata ‘Unione italiana per l’olio di palma sostenibile’, associazione costituita dalle suddette imprese.
Uno spot che insinua che l'olio di palma sia naturale, salutare e rispettoso dell'ambiente. Un'incredibile presa in giro ai danni dei telespettatori e dei consumatori.
Per tutti questi motivi abbiamo chiesto all’Autorità Garante di inibire la continuazione della pubblicità ingannevole da parte dell’Unione Italiana per l’Olio di Palma sostenibile e sanzionarla ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 206/2005.
Se anche tu ritieni giusta la nostra battaglia aiutaci a condividerla e sostenerla, firma la petizione e fai girare questo post.
‪#‎oliodipalmainsostenibile‬ ‪#‎STOPoliodipalma‬
Per maggiori informazioni visita il sito: www.oliodipalmainsostenibile.it

Mirko Busto

L’olio di palma sostenibile non esiste. Lo spiega Roberto Cazzolla Gatti, denunciando l’operazione di greenwashing. Petizione del M5S contro gli spot tv

harvested palm oil fruit bunch.
Prendendo spunto dalla campagna pubblicitaria promossa in tv dalle principali aziende alimentari utilizzatrici di olio di palma, Mirko Busto (deputato del Movimento 5 Stelle) ha dato vita al sito Olio di Palma Insostenibile. Il nuovo sito propone una parodia molto efficace dello spazio inventato dalla neonata Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile per dimostrare che l’olio di palma non fa male alla salute, non distrugge le foreste e non nuoce agli oranghi e agli animali.  Dichiarare che possa esistere un olio di palma sostenibile è come dire che l’energia ottenuta bruciando carbone non è inquinante. Il problema è che un olio di palma sostenibile prodotto senza tagliare le foreste dovrebbe avere origini conosciute e quindi  tracciabili e questa è un’illusione.
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L’olio di palma sostenibile prodotto senza distruggere le foreste dovrebbe avere origini conosciute e tracciabili e questa è un’illusione
Il concetto è spiegato molto bene da Roberto Cazzola Gatti biologo  e docente universitario che da anni segue le vicissitudini collegate alle piantagioni di olio di palma . “Ciò che in realtà accade anche nel caso delle produzioni  sostenibili – scrive Cazzola Gatti –  è che le foreste primarie vengono tagliate e bruciate, per essere convertite in piantagioni da olio esattamente come quelle non certificate, solo che questo avviene dopo che è trascorso qualche anno dalla deforestazione illegale. Poiché nella maggior parte dei Paesi in cui si producono gli oli tropicali non esistono leggi che obblighino le autorità a redigere registri e a realizzare mappature aggiornate dei cambiamenti di uso del suolo, che possano essere utilizzati per sanzionare i tagli illegali ed evitare che un territorio inizialmente coperto da foresta possa esser trasformato in un’area agricola, è praticamente impossibile sapere se, dove ora cresce una piantagione di palma “certificata sostenibile”, solo fino a qualche anno fa non ci fosse una rigogliosa foresta”.
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Dopo gli incendi, la deforestazione e la successiva trasformazione del terreno in piantagione di palme arriva il certificato di sostenibilità
Poiché la maggior parte dei tagli e incendi passano inosservati (considerata anche l’elevata frequenza e intensità) e considerato che, spesso, gli stessi governi favoriscono  la deforestazione, con questi sistemi di certificazione non si fa altro che dichiarare “sostenibili” piantagioni che solo fino a qualche prima sarebbero state definite illegali e insostenibili, perché ricavate a spese della foresta tropicale.
“L’astuto escamotage della certificazione – prosegue Cazzola Gatti – è che si fa passare per olio di palma sostenibile un prodotto che non risulta proveniente dalla conversione in piantagioni di aree sottoposte a incendi volontari o tagli solo perché gli incendi e il taglio sono avvenuti qualche anno prima della richiesta di certificazione da parte delle aziende”. Nel lungo articolo che vi consigliamo di leggere il docente che da anni studia questi problemi spiega che i dopo gli incendi,  la deforestazione e la successiva trasformazione del terreno in piantagione di palme arriva il certificato di sostenibilità. Un altro spunto interessante riguarda la dimostrazione di quanto sia poco attendibile la teoria sull’alta redditività del palma.
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M5S chiede all’Agcm la censura dello spot e promuove una petizione
L’altra novità riguarda la decisione di Mirko Busto (deputato del Movimento 5 Stelle) di inviare una richiesta di censura all’Autorità garante della concorrenza e del mercato contro lo spot tv e di avviare una petizione online. “Il fatto di sottolineare  l’origine naturale – scrive Busto – non è un segno distintivo specifico dell’olio di palma, perché tutti gli altri prodotti similari (burro, margarina, strutto, burro di arachidi, olio di mais, di oliva, di colza, di cotone, di ricino, di lino, di cocco, di noci, di canapa, di Jojoba, di girasole, di riso, di sesamo, di soia, di avocado, di mandorla, di nocciola, di argan,ecc) hanno la medesima origine naturale.
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Mirko Busto del Movimento 5 Stelle ha avviato una petizione online contro lo spot tv
Per quanto riguarda gli aspetti salutistici, nell’olio di palma si trova una concentrazione molto alta di olio palmitico, circa il 44%, a cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) attribuisce effetti aterogeni ed ipercolesterolemizzanti che aumentano il rischio cardiovascolare. Allo stesso modo – continua Busto -il Center for Science in the Public Interest (CSPI) ha confermato che l’olio di palma aumenta i fattori di rischio cardiovascolare, poiché l’acido palmitico è uno dei grassi saturi che più aumenta il rischio di coronaropatie”. Anche la dichiarazione secondo cui l’olio di palma è rispettoso delle foreste e delle comunità locali è altrettanto ingannevole. Il Global Forest Watch nel 2015 sostiene che l’80% della deforestazione nel mondo è attribuita all’impatto del sistema agricolo e, in questo senso, si stima che in Malesia e Indonesia il 90% delle coltivazioni siano riservate all’olio di palma.

fonte: www.ilfattoalimentare.it

RSPO Next, la nuova bugia sull’olio di palma sostenibile

La Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile lancia il nuovo pacchetto di standard per la certificazione. Ma si preannuncia un altro fallimento


RSPO Next, la nuova bugia sull'olio di palma sostenibile 3

Si chiama RSPO Next il pacchetto di standard che la Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile ha lanciato ieri, con lo scopo di evitare la deforestazione, la violazione dei diritti umani e ridurre le emissioni di gas serra del settore.
Costituitasi nel 2004, la piattaforma RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil) riunisce 2.500 aziende, dai produttori ai commercianti, dai rivenditori agli investitori, in un tentativo – finora fallito – di rendere meno impattante la produzione. I nuovi standard, tuttavia, sembrano mancare in partenza l’obiettivo. L’adesione è infatti su base volontaria: chi non ha intenzione di sobbarcarsi un aumento dei costi potrà continuare business as usual. Questo perché RSPO ritiene impossibile, per tutti i suoi aderenti (che valgono il 20% della produzione globale), impegnarsi obbligatoriamente nelle seguenti direzioni:
– evitare di piantare filari di palme sulle torbiere o altri terreni ricchi di carbonio, che svolgono un ruolo chiave nella mitigazione dei cambiamenti climatici
– attuare politiche di prevenzione degli incendi
– ridurre le emissioni di gas serra
– pagare gli operai un salario di sussistenza
– impegnarsi nella deforestazione zero


RSPO Next, la nuova bugia sull'olio di palma sostenibile 5

Perché non esiste un olio di palma sostenibile

Se il rispetto di tali parametri non era – e non è tutt’ora – necessario per ottenere la prima certificazione RSPO, significa che le aziende che violano i diritti umani e provocano disastri ambientali possono comunque avere il bollino di sostenibilità. Del resto, il fallimento della piattaforma è stato messo nero su bianco da un rapporto di novembre della Environmental Investigation Agency (EIA). Nel documento si legge che i certificatori hanno spesso condotto valutazioni scadenti e incomplete, volte a truccare i documenti e assicurare ai criminali il greenwashing che andavano cercando.
Le conseguenze delle frodi ricadono sulla distruzione delle foreste e della biodiversità, alimentano conflitti sociali, il traffico di esseri umani e minacce di morte per gli attivisti.

L’ingrediente jolly che devasta l’ambiente

RSPO Next, la nuova bugia sull'olio di palma sostenibile 4 
L’olio di palma è l’olio vegetale più utilizzato al mondo: lo troviamo, secondo il WWF, nel 50% dei prodotti del supermercato, dallo shampoo alla Nutella. Grazie a questo ingrediente jolly, le multinazionali riescono ad abbattere i costi. Tuttavia, questi vengono molto spesso scaricati sull’ambiente e gli animali (ha fatto scalpore il calo spaventoso delle popolazioni di orango), nonché sul mercato del lavoro. Per l’olio di palma, l’anno scorso, in Indonesia sono stati dati alle fiamme decine di migliaia di ettari di foresta. Serviva fare (letteralmente) terra bruciata, per rimpiazzare con palme da olio gli alberi che danno ricovero a innumerevoli forme di vita. A seguito di questo disastro ambientale, si è levata in aria una coltre di fumo visibile dal satellite, che ha infettato le vie respiratorie di mezzo milione di persone e costretto scuole e aeroporti alla chiusura perfino in Malesia e Singapore. Le emissioni giornaliere provocate dai roghi hanno superato le emissioni medie quotidiane degli Stati Uniti.
In Africa, nel frattempo, i governi stanno distribuendo vaste aree di terra alle società, strappandole alle famiglie che vivono e lavorano su di esse. Con la trasformazione dei terreni agricoli in aree destinate a monocoltura della palma da olio, queste zone stanno perdendo la capacità di produrre il cibo. Le piantagioni stanno portando a una deforestazione su larga scala, e impattano sulle riserve d’acqua. La palma da olio ne ha bisogno, e quando si incontrano aree ben fornite, ricche di biodiversità e fonti di sostentamento per le comunità locali, è necessario drenarle. Le risorse idriche, inoltre, vengono contaminate dai pesticidi utilizzati nelle piantagioni.

fonte: www.rinnovabili.it