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Crociate green. La Commissione Ue registra una raccolta di firme per lo stop alla pubblicità dei combustibili fossili

Il divieto proposto dovrebbe applicarsi alla pubblicità e alla sponsorizzazione di eventi sportivi istruzionali ed eventi pubblici


La Commissione Europea ha deciso di registrare un'Iniziativa dei Cittadini Europei denominata “Ban Fossil Fuel Advertising and Sponsorships”.

Stop a tutte le sponsorizzazioni
Gli organizzatori dell'iniziativa chiedono alla Commissione di proporre una normativa che vieti la pubblicità e la sponsorizzazione dei combustibili fossili, di tutti i tipi di veicoli che utilizzano tali combustibili (esclusi i veicoli destinati a servizi di trasporto di interesse economico generale) e di tutte le aziende che estraggono, raffinano, producono, forniscono, distribuiscono o vendono combustibili fossili. Il divieto proposto dovrebbe applicarsi sia online che offline e riguardare la pubblicità e la sponsorizzazione, anche nel contesto di sport, istruzione, scienza, eventi pubblici ed eventi mediatici di terzi.

Soddisfatte le condizioni
Secondo gli organizzatori, i combustibili fossili coinvolti includono petrolio, gas fossile e carbone. La Commissione, considerando legalmente ammissibile l’iniziativa, ha deciso di registrarla.

fonte: www.e-gazette.it



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Pesticidi. La Corte d'Appello dà ragione ai promotori del referendum
















Nuovo capitolo dell'intricata vicenda giudiziaria scaturita dal referendum con cui Malles ha provato a vietare sul proprio territorio l'uso di pesticidi


Era l'agosto 2014: con un referendum, la maggioranza dei cittadini di Malles chiese di inserire nello statuto comunale il divieto dell'uso di pesticidi in agricoltura.
Da allora, sia i promotori di quel referendum, come il farmacista del paese - Johannes Fragner Unterpertinger - sia chi lo fece svolgere, come il sindaco Ulrich Veith, hanno dovuto difendersi in sede processuale da numerose azioni legali promosse dai contadini del Bauernbund.
Addirittura 140 agricoltori di Malles, già nel 2014, si rivolsero al tribunale di Bolzano, con una causa civile, sostenendo che il comitato promotore e il Comune di Malles non avessero alcun diritto di promuovere e far svolgere quel referendum.
Il tribunale diede ragione ai contadini, ma in secondo grado la sentenza è stata ribaltata.
Secondo la Corte d'appello, mancavano addirittura i presupposti per fare causa, in quanto l'iniziativa dei promotori del referendum non andava a incidere su un interesse concreto e attuale dei contadini.
Pur non entrando nel merito, i giudici scrivono che al comitato promotore non si poteva negare il diritto di proporre il referendum.
I 140 contadini dovranno pagare a Johannes Fragner Unter-pertinger tutte le spese processuali.
Una piccola rivincita, dopo la sentenza del Tar che ha dichiarato illegittimo il regolamento comunale che vietava l'uso dei fitofarmaci, come richiesto dal referendum.
Il Comune ricorrerà al Consiglio di Stato. 


fonte: https://www.rainews.it

E due! La Svizzera ‘spegne’ un’altra centrale per il suo addio all’energia nucleare















Tre secondi per cancellare 47 anni: tanto ci è voluto ai tecnici nucleari svizzeri per spegnere la centrale nucleare di Mühleberg, poco lontano dal centro di Berna, dopo 47 anni di funzionamento.
La decisione di spegnere l’impianto, capace di produrre 2605 GWh l’anno è arrivata dopo che un referendum (strumento molto popolare e usato, in Svizzera) nel 2017 ha stabilito che il Paese avrebbe progressivamente terminato la produzione di energia nucleare per promuovere le energie rinnovabili.
Spegnere un impianto per la produzione nucleare, però, è faccenda diversa dallo smantellarla, cosa che è invece assai più complessa e complicata che schiacciare un pulsante. Lo smantellamento dell’impianto inizierà all’inizio del 2020 e dovrebbe richiedere più di dieci anni.
Quella di Mühleberg è la seconda delle 5 centrali svizzere a essere chiusa. Le prossime tre verranno dismesse alla fine del loro normale ciclo di vita e non saranno sostituite da nuovi impianti. 

fonte: https://it.businessinsider.com

"Svizzera, esempio di sobrietà energetica", Luca Mercalli sul referendum del 21 maggio

Al referedum con cui la Svizzera ha approvato la strategia energetica al 2050, Luca Mercalli ha dedicato una delle sue "Pillole" pubblicate nella pagina facebook di Rai News, definendo la scelta svizzera come "un modello di sobrietà energetica" a cui ispirarsi. Il video.
















Il 21 maggio 2017, il 58% dei votanti svizzeri hanno detto "sì" nel referendum sulla “Legge sull’energia” che definisce il primo di due blocchi di riforme per attuare la  “Strategia energetica 2050” del governo e del Parlamento.
I suoi obiettivi sono: la transizione alle energie rinnovabili, l’abbandono graduale dell’energia atomica e dei combustibili fossili, la diminuzione delle importazioni di energia (attualmente il 75% di quella usata) e una forte riduzione dell’uso di energia pro capite.
Quest’ultimo è il target più ambizioso, perché mira a riportare entro il 2050 l’uso pro capite di energia al livello degli anni ’60 del secolo scorso, senza però diminuire la prosperità materiale.
Luca Mercalli ha dedicato a questo evento una delle sue "Pillole" pubblicate nella pagina facebook di Rai News, definendo la scelta svizzera come "un modello di sobrietà energetica" a cui ispirarsi, la riportiamo di seguito.

fonte: www.qualenergia.it

L’inattività delle piattaforme italiane nella crisi petrolifera

Nei mari nazionali risiedono siti di estrazione deserti per i quali non è più conveniente estrarre petrolio, ma le compagnie prelevano quantità minimali per mantenere attiva la licenza. Serve la volontà politica per superare la crisi globale di un sistema al collasso.
L’inattività delle piattaforme italiane nella crisi petrolifera 
Le fiamme dei post-bruciatori divampano nell'aria. Devono ridurre le sostanze inquinanti, e poco importa se emettono nell'atmosfera una quantità di zolfo che probabilmente sarebbe fuori norma in qualsiasi impianto industriale di terra. L'odore è così intenso da rendere difficile la respirazione, mentre un suono sinistro e incessante si diffonde lungo la costa e accompagna le notti dei pescatori. Così si presenta una piattaforma petrolifera a chiunque dovesse ritrovarsi nei paraggi durante la sua piena attività.
Ma le superfici delle piattaforme sono deserte. Operare sul sito sarebbe eccessivamente rischioso e, d’altronde, l’industria petrolifera è uno dei settori con la più bassa intensità di lavoro e la più alta intensità di capitale. Ad agire sono solo pochi tecnici iper-specializzati perché in gioco c’è un processo estrattivo molto delicato: il petrolio viene asportato insieme a grandissime quantità di acque di strato - acqua fossile a contatto con idrocarburi e vari materiali radioattivi - le quali, per la loro natura altamente inquinante, secondo il ddl 152/2006, devono essere re-iniettate e, ove non fosse possibile, salvo una deroga motivata e sostenibile, imbarcate e gestite a terra in apposite discariche.
Tuttavia, “trattare in modo specifico acque e rifiuti costerebbe così tanto che per un’azienda non sarebbe più fruttuoso rimanere operativa” – spiega il giornalista e filmaker Marcello Brecciaroli presso il Festival Tascabile di Geopolitica tenutosi a Milano alla presenza di Nonsoloambiente – “così quasi il 70% riversa le sostanze in mare”. In Italia, le piattaforme attive sono oltre un centinaio, ma per la maggior parte di esse la produzione è quasi completamente scomparsa. “I giacimenti sono arrivati a un livello talmente basso che non è più conveniente estrarre petrolio. Nonostante questo, le aziende continuano a estrarre quantità minimali in modo da mantenere attiva la licenza. Se interrompessero l’attività, dovrebbero smantellare gli impianti e i costi sarebbero elevati”.
In tal modo, in virtù di ragioni meramente economiche, si perpetua un meccanismo poco efficiente, ma ad alto danno ambientale, secondo cui le piattaforme potranno continuare a operare all’infinito, a spese del mare, senza apportare alcun contributo significativo di sviluppo. È il punto a cui i sostenitori del recente referendum hanno cercato di porre rimedio: se un’azienda avesse dovuto ri-sottoporsi a una costosa procedura di valutazione dell’impatto ambientale, al fine di rinnovare una concessione, una volta giunta la scadenza successiva avrebbe scelto di optare per lo smantellamento.
Lo scenario globale ha rivelato e continuerà a rivelare scoperte di nuovi giacimenti, e gli Stati che prima erano costretti a un esborso economico per importare il petrolio ora sono diventati anch’essi produttori. Ogni governo mira a mantenere la propria fetta di mercato: lo Stato italiano, i cui fondali non sono così appetibili, ha ridotto i vincoli ambientali per incentivare le compagnie petrolifere a scegliere l’Italia – per esempio tramite il decreto Sblocca Italia, che ne ha accentrato la capacità decisionale. Ma a fronte del diffuso aumento dell’offerta, i costi di produzione sono diminuiti fino al 75% e il prezzo del petrolio è crollato.
"Ci hanno cresciuti dicendoci che il petrolio sarebbe finito, ma attualmente di petrolio ce n'è oltre 10 volte tanto rispetto a 20 anni fa. Fare una piattaforma oggi costa un quarto di quanto si sarebbe dovuto investire negli anni '70. Il petrolio non finirà mai”, prosegue Brecciaroli, co-autore del documentario d’inchiesta Italian Offshore presentato il 25 giugno ai DIG Awards di Riccione. A fronte di tali proiezioni di aumento incondizionato, non vi sarà alcuna spinta economica che possa far cambiare rotta verso fonti di energia più sostenibili. Perché si arrivi a una svolta, e all’investimento in soluzioni conciliabili con la salvaguardia ambientale, è necessario che si imponga la volontà politica dei singoli Stati, ancor meglio se parte di un’azione congiunta. Ma al momento l’Italia – e non solo - non sembra orientata a intraprendere una strada diversa dal petrolio.

fonte: http://nonsoloambiente.it

Perché i referendum non cambiano il modello energetico

I referendum sulle trivelle e quello sul nucleare, sebbene importanti, non sono stati e non saranno gli strumenti per produrre un cambiamento del nostro modello energetico. Questo avverrà solo con una forte spinta dal basso, favorita dall'evoluzione di nuove tecnologie sempre più economiche e a disposizione di tutti. Non aspettiamoci troppo dalla politica ma cambiamo approccio.

I referendum sulle trivelle e quelli sul nucleare del 2011, anche se con risultati diversi, hanno dimostrato alcune cose, al netto della complessità dei quesiti posti agli elettori e del tempo concesso per spiegarli. Entrambi non possono essere gli strumenti per produrre un cambiamento del nostro modello energetico.
Una consultazione popolare può toccare una legge, abrogarla o meno, e al contempo essere uno stimolo per la discussione, ma alla fine resta una battaglia fatta più di slogan, di post su facebook, di articoli più o meno argomentati, di botta e risposta alla Tv, che non di generare un profondo mutamento delle coscienze. Un dibattito che poi, come è anche legittimo, viene caricato di altri scopi politici, ma che sposta di poco l’approccio delle persone verso questo tema, come si era ingenuamente sperato.
Lo avevamo sperato anche dopo il referendum sulle centrali atomiche che ha scongiurato, quella volta proprio per merito dei cittadini italiani, una iattura come quella di costruire sul nostro territorio delle costose, mastodontiche e inutili strutture. Purtroppo il dibattito pubblico si esaurì lì. Bandiere al vento dell’ambientalismo, un bel successo, anche molto utile, ma poi non si è stati capaci di mantenere alta l’attenzione sulla questione energetica, di parlare al paese delle opportunità concrete offerte dalle alternative a quel modello di centrali, dei benefici per la vita quotidiana delle persone, per la società e l’ambiente. E i governi che si sono succeduti hanno stroncato quello che c'era delle politiche a favore di rinovabili ed efficienza.
L’energia è una materia che è stata sempre dominio di una casta di esperti e di alcune grandi organizzazioni legate alle società energetiche. Questi “sacerdoti” detenevano le chiavi della conoscenza di questo mondo e lo governano con proprie leggi, quelle tipiche di un modello di generazione centralizzata, concentrato nelle mani di pochi soggetti: era il pensiero tradizionale dell’energia. Tutti gli altri, i consumatori, dovevano solo spingere l’interruttore e azionare la pompa di benzina, e pagare. Le scelte venivano fatte da altri. La domanda era, per così dire, rigida.
Il mondo è un bel po’ cambiato in questi ultimi dieci o quindici anni (che in tempi energetici sono comunque un breve periodo), ma l’argomento energia è ancora considerato “elitario” dalla stragrande maggioranza della popolazione. E forse anche per questo il referendum di domenica 17 aprile non ha scaldato due terzi del paese.
Per avvicinare il tema dell'energia a tutti e trasformare il sistema energetico, come per qualsiasi mutamento radicale dell’economia e della società, non si può sperare in episodici interventi della politica o, magari, di un insieme di Stati nazionali che si accordano al ribasso su quali dovranno essere i nostri obiettivi di rinnovabili o di efficienza energetica da qui a 15 o 20 anni. Non si è mai vista una “rivoluzione” pilotata dalle stesse forze che sono strettamente legate al sistema che si vorrebbe cambiare. Perché, sia chiaro, i grandi gruppi energetici e i governi erano e sono ovunque strettamente collegati tra loro, con tutto quello che ne consegue, corruzione inclusa. Questo è un fatto incontrovertibile.
Cambiare radicalmente il nostro modello di energia, e quindi anche i nostri consumi energetici, richiede, rispetto al passato, una differenza sostanziale: un elevato numero di attori coinvolti. Prima erano pochi, domani dovranno essere una moltitudine. Un passaggio che è connaturato a quella che si chiama generazione energetica distribuita o decentralizzata.
Per questo motivo cambiare sarà possibile solo con una forte spinta dal basso, realizzata attraverso un processo probabilmente caotico, ma che dovrà essere sufficientemente accelerato, e allargato ad una pluralità di soggetti: cittadini, imprese, condomini, comunità, città, università, tecnici, costruttori, eccetera. Come favorire questa spinta?
Ognuno dovrà portare il suo piccolo contributo attraverso le sue scelte, come la sostituzione di una tecnologia con altre alimentate da energia rinnovabile, i suoi modelli di comportamento, le sue competenze, la capacità di trasferire informazioni e conoscenze. Non sarà qualcosa che seguirà una linea coerente e regolare. Sarà come acqua che si insinua ovunque trova una opportunità di passaggio, e sarà un processo inarrestabile.
Serve un mutamento culturale? Ma questo quasi sempre segue l’evoluzione di nuove tecnologie che diventano semplici da utilizzare, economiche e a disposizioni di tutti. Non basta solo l'afflato ambientalista oppure opporsi (anche se giustamente) ad una vecchia o nuova infrastruttura energetica centralizzata. Siamo sulla buona strada? Forse dovremmo avere meno aspettative nei governi, e più nell’innovazione e nell’informazione, che va aiutata e indirizzata. Diventare un po' più acqua e meno picconatori.
A chi opera nel settore della green economy e alle associazioni di settore, bisogna chiedere tutti i giorni di rendere queste opzioni tecnologiche fattibili per tutti, abbassandone i costi, studiando nuove strategie di diffusione, di raccontare con i numeri e con gli esempi pratici quanto convengono alla famiglia, all’impresa, al paese. Bisognerà essere meno autoreferenziali: parliamo di tecnicismi con i tecnici e impariamo, invece, a spiegare in modo semplice al cittadino e all'imprenditore che qualificare energeticamente la propria abitazione o industria conviene e l'investimento si può ripagare in tempi brevi. Quando questa domanda sarà ancora più forte, rinnovabili ed efficienza energetica ancora più diffuse, anche la politica e la finanza saranno costretti ad accompagnarla.
Anche oggi un colpo al settore delle fonti fossili è ogni singola sostituzione di una caldaia a gas e di un’automobile a diesel o a benzina con tecnologie più pulite. Tra qualche anno quelle piattaforme e quel mancato quorum del referendum, allora, saranno solo uno sbiadito ricordo.


fonte: http://www.qualenergia.it 

Impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni per terra e per mare




VINCENZO MIGALEDDU, FERDINANDO LAGHI, AGOSTINO DI CIAULA,
CARLO ROMAGNOLI, PATRIZIA GENTILINI


Introduzione

Il petrolio è una miscela naturale di idrocarburi che può presentarsi,
in giacimenti sotterranei, alla stato solido, simil–solido, liquido o
gassoso.
La gravità specifica della miscela liquida –cioè la sua densità rispetto
a quella dell’acqua, alla temperatura di 15,5°C– ne caratterizza il
cosiddetto grado API (acronimo derivante da American Petroleum
Institute, il principale ente professionale USA nel campo chimico e
petrolchimico), che è l’unità di misura internazionale di pesantezza o
leggerezza del greggio. Tanto più il greggio è leggero, tanto maggiore
è la sua qualità.
La perforazione dei pozzi avviene attraverso uno scalpello rotante,
collegato ad una piastra rotante e spinto da aste cave all’interno delle
quali circolano i fluidi di perforazione. Mentre il pozzo progredisce in
profondità, viene rivestito da tubazioni telescopiche di diversi diametri
— da 75 cm, a scalare, fino a 1520 cm —, cementate fra loro e alle
pareti rocciose del foro. Al suo interno viene collocato il tubo di
produzione. La sempre maggiore profondità dei pozzi, ha richiesto
nuove tecnologie di perforazione, che sono risultate più costose, più
impattanti e non prive di criticità ambientali e sanitarie.
I fluidi di perforazione (drilling fluids), di cui spesso non si conosce
quali composti e sostanze chimiche contengano, sono immessi in
un circuito idraulico e spinti nuovamente verso il fondo del pozzo,

dopo esser risaliti in superficie e dopo essere stati filtrati, o vagliati,
dai detriti di perforazione. La perforazione di un pozzo può avvenire
sulla terra ferma (onshore) o in mare (offshore); gli impatti ambientali e
sanitari, conseguentemente, saranno di diversa natura e graveranno
in maniera differente in questi differenti contesti.
Da alcuni anni i pozzi tradizionali, verticali, sono stati sostituiti da
perforazioni non convenzionali, direzionali (oblique, orizzontali —
singole e multiple). La perforazione idraulica (hydraulic frackturing/
fracking) delle rocce viene utilizzata per massimizzare la produzione
di gas, petrolio e risorse geotermiche incarcerate in piccole riserve,
nei sedimenti geologici frantumati dalla forte pressione dei liquidi
iniettati nei pozzi.
In ogni caso, i possibili inquinamenti dell’aria, del suolo, delle falde
acquifere di superfice e di profondità, del mare e delle coste, possono
avvenire per:
a) emissioni in aria;
b) spandimenti di scarti di perforazione e/o produzione (fanghi,
detriti, acque di scarto);
c) esplosioni, blowout (emissioni incontrollate);
d) incendi;
e) perdite dai pozzi;
f ) perdite dai serbatoi;
g) perdite dalle condotte sottomarine o di superfice;
h) perdite dai mezzi di trasporto (navi, autocisterne, etc.) (1).


Trivellazioni in mare (offshore)

Prospezione

I danni all’ambiente marino e ai suoi ecosistemi possono avvenire
già nella fase esplorativa. Tra i metodi di prospezione geo–fisica dei
fondali marini, viene proposto prevalentemente la tecnica dell’air gun.
Tale sistema funziona con un compressore, solitamente posto su un
battello, che dopo aver compresso l’aria tramite un tubo, la immette
nell’air gun. Una volta iniettata in una camera stagna immersa nell’acqua,
raggiunta la pressione richiesta, l’aria viene espulsa velocemente,
generando una bolla al di sotto della superficie dell’acqua: l’espansione
improvvisa produce un’onda di compressione nel mezzo liquido. A
livello del fondo marino si produce una riflessione e una vibrazione,
utili per valutare la presenza di giacimenti di idrocarburi (2). L’esplosione
di un air gun produce rumore, con un pressione sonora fino 235
db, che aumenta allorché più air gun sono disposti in batteria. Questi
valori possono recare danni alla fauna marina ed in particolare ai cetacei
(35).

Produzione

Impatti ambientali. In una prima fase, l’inquinamento dell’ambiente
marino interessa prevalentemente la colonna d’acqua di mare sottostate
la piattaforma di estrazione. Gli idrocarburi a catena pesante
tendono a depositarsi sul fondo, mentre quelli a catena leggera galleggiano  in superficie ed evaporano. Gli impatti possono essere differenti, in relazione all’entità e alla tipologia dello sversamento a mare (spandimenti di scarti di perforazione e produzione, esplosioni, blowout, incendi, perdite da pozzi e serbatoi, condotte sottomarine o di superficie
e mezzi di trasporto). In assenza di incidenti rilevanti, è interessante
quanto riportato in un recente rapporto di Greenpeace, relativo alle
attività estrattive in Adriatico (34 piattaforme, sulle 130 piattaforme
offshore attive in Italia), esaminate dal 2012 al 2014. Tra i composti che
superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di
Qualità Ambientale (o SQA, definiti nel DM 56/2009 e 260/2010), rilevati
nei sedimenti prossimi alle piattaforme, troviamo metalli pesanti,
quali cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico).
Inoltre, sono risultati rilevabili anche idrocarburi policiclici aromatici
(IPA), come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene,
benzo[a]pirene e altri, variamente associati. Alcune tra queste sostanze
sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare attraverso
la bio–magnificazione, raggiungendo così l’uomo in concertazioni
elevate, tali da causare seri danni all’organismo.
La relazione tra l’impatto dell’attività delle piattaforme e la catena
alimentare emerge ancora più chiaramente dall’analisi dei tessuti dei
mitili prelevati presso le piattaforme stesse. Gli inquinanti monitorati,
in riferimento agli SQA identificati per questi organismi (appartenenti
alla specie Mytilus galloproncialis), sono tre: mercurio, esaclorobenzene
ed esaclorobutadiene. Di queste tre sostanze, solo il mercurio viene
abitualmente misurato nei mitili nel corso dei monitoraggi ambientali.
I risultati mostrano che circa l’86% del totale dei campioni analizzati
nel corso del triennio 20122014 superava il limite di concentrazione
di mercurio indicato dagli SQA (6).

Esposizione lavorativa: nella valutazione dei rischi sanitari, per i lavoratori
delle piattaforme vengono presi in considerazione diversi fattori,
in relazione all’epoca di svolgimento dell’attività estrattiva. Infatti, in
alcuni studi si mette in evidenza la maggiore complessità di estrazione
dei giacimenti più recenti di petrolio e gas, “difficili” a causa della loro
posizione remota (regioni artiche, distanze notevoli dalle coste), per
la loro eccessiva profondità –sia in mare che sotto la crosta terreste–,
per l’elevata quantità di idrogeno solforato (H2S). Questi fattori richiedono
un maggiore sforzo per raggiungere elevati livelli di sicurezza
impiantistica e gestionale. L’esempio delle sabbie bituminose canadesi
è esplicativo della maggiore complessità impiantistica necessaria per
ottenere un prodotto commerciale (7).
Tra le esposizioni studiate dal 1970 al 2005, vengono riportati 18
agenti cancerogeni, tra certi e sospetti, tra cui il benzene, le fibre d’asbesto
e di ceramica refrattaria, la formaldeide, il tetracloroetilene, oli minerali
misti, vapori e particolato respirabile (8). Tra le esposizioni più recenti
troviamo anche l’H2S e la conferma dei comuni agenti chimici descritti
in precedenza. Nè vengono trascurati, nell’ambito dei rischi per la
salute, l’esposizione ai rumori, ad agenti biologici ed a condizioni di
stress da lavoro per mancato rispetto dei principi ergonomici (7).
Recentemente è stato pubblicato uno studio riguardante l’incidenza
tumorale su un’ampia coorte—41.140 addetti– di lavoratori norvegesi,
divisi per sesso, impiegati sulle piattaforme petrolifere. È stato rilevato
un rapporto standardizzato di incidenza (SIR) di 1.17 (95% CI 1.021.34),
rispetto agli attesi, per tutti i tumori in entrambi i sessi. Tra le donne
è risultata elevata l’incidenza per la leucemia mieloide acuta (SIR 5.29,
95% CI 1.7212), per il melanoma maligno (SIR 2.13, 95% CI 1.413.08) e
per il tumore del polmone (SIR 1.69, 95% CI 1.032.61). Tra i maschi, il
numero totale di tutti i tumori è risultato solo lievemente superiore
agli attesi (SIR 1.03, 95% CI 0.991.08), ma non per i tumori della pleura
(SIR 2.56, 95% CI 1.583.91) e della vescica (SIR 1.25, 95% CI 1.051.49)
che, invece, hanno mostrato un notevole incremento (9).
Trivellazioni in Terra (onshore). In questo paragrafo vengono riassunti non soltanto gli impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni
non convenzionali –per profondità e/o direzione, e non solo– per la
ricerca di idrocarburi liquidi o gassosi, ma anche quelli per la ricerca
di risorse geotermiche di profondità (oltre i 2.000 metri).


Trivellazioni e rischi sanitari da emissioni

In questo ambito, uno dei risultati inaspettati è il rilievo di un rischio
sanitario da emissioni in impianti di perforazione direzionale o di fratturazione idraulica. A tal proposito, infatti, sono stati stimati i rischi
sanitari per l’esposizione alle emissioni in atmosfera derivanti da un
progetto di trivellazione di un pozzo per ricerca di gas naturale in
una località del Colorado, con l’obiettivo di migliorare la prevenzione
primaria, con la valutazione dell’impatto sanitario di tale attività. Sono
stati valutati, secondo le linee guida dell’EPA (Agenzia americana per
l’ambiente), gli indici di pericolo per le patologie croniche e sub croniche
non tumorali e il rischio per tumore nelle popolazioni residenti
entro mezzo miglio e oltre mezzo miglio dal pozzo. Lo studio dimostra che
i residenti entro mezzo miglio dal pozzo hanno un rischio sanitario
superiore a chi vive a distanza maggiore. Le esposizioni sub croniche
all’inquinamento atmosferico, durante le attività di completamento
del pozzo, si sono dimostrate nello studio il fattore di rischio più
elevato.
L’indice di pericolo sub cronico non tumorale (HI), di 5, nei residenti
entro le cinque miglia dal pozzo, è stato attribuito principalmente all’esposizione al trimetilbenzene, allo xilene e agli idrocarburi alifatici.
L’indice di pericolo cronico è stato valutato di 1 e di 0,4, rispettivamente,
nei residenti entro e oltre il mezzo miglio dal pozzo. Il rischio cumulativo
per cancro è risultato di 10 e di 6 su un milione, rispettivamente
nei residenti entro e oltre il mezzo miglio dal pozzo; il benzene è stato
identificato come il maggiore determinante del rischio. Il lavoro indica
come una analisi del rischio, con l’impiego degli indici di pericolo, sia
necessaria alla prevenzione di rischi sanitari; è evidente che alla luce
di tali dati, il presupposto che un pozzo esplorativo non abbia impatto
sanitario, viene a cadere non solo per il lavoratori ma anche per la
popolazione che vive nei pressi del pozzo (10).

Emissione di H2S
Spesso, negli studi di impatto ambientale relativi a pozzi per la ricerca
di idrocarburi solidi o gassosi –ma anche per ricerca di risorse geotermiche–, il problema dell’H2S non viene affrontato o è sottovalutato sul piano dell’adozione di adeguate misure di protezione. Questo è ancor
più vero per i pozzi che riguardano la ricerca di risorse geotermiche
che vengono fatte passare come innocue e senza impatti sul piano
ambientale e sanitario. Eppure sul sito ENI Scuola possiamo leggere:
L’energia geotermica viene di solito considerata un’energia pulita. La sua
produzione in teoria non dovrebbe infatti produrre polveri o sostanze tossiche
che vengono poi immesse nell’atmosfera e non vi dovrebbero essere
rifiuti tossici da smaltire: l’unico sottoprodotto del processo energetico sono
i pennacchi bianchi delle nuvole di vapore acqueo che si liberano dalle torri
di raffreddamento. Tuttavia, purtroppo, le cose in natura non sono così
semplici e “pulite”. Le acque che circolano nel sottosuolo raramente sono
acque dolci: nella maggior parte dei casi si tratta di soluzioni saline altamente
concentrate, spesso contenenti sostanze fortemente inquinanti e tossiche. Il
vapore acqueo è in genere associato ad altri gas, come H2S e CO2, mentre
nelle acque sono spesso presenti metalli pesanti o arsenico. Questa caratteristica,
tra le altre cose, impedisce un uso diretto delle acque geotermiche:
a causa delle caratteristiche chimiche combinate con le elevate temperature,
queste acque sono fortemente aggressive e corrodono rapidamente
le tubature e le attrezzature con cui vengono a contatto, per cui si rende
necessario l’utilizzo di materiali speciali. Acque con queste caratteristiche,
ovviamente, non possono nemmeno venire a diretto contatto con suoli e
prodotti agricoli, animali o cibi e il loro uso deve necessariamente essere
interdetto (11).
È, dunque, la stessa ENI a smentire l’innocuità delle emissioni di
H2S e CO2 delle acque geotermiche. La perforazione del sottosuolo fino
ad una profondità di 2.0003.000 metri, per ricerche geotermiche o
di idrocarburi liquidi o gassosi, non può non porsi i problema dell’H2S.
A tal proposito, va ricordato come evidenze scientifiche riportino per
esposizione cronica, già per basse concentrazioni, comprese tra 0,0057
e 0,01 ppm, disturbi, quali bruciori agli occhi e al naso, tosse, mal
di testa, disturbi neuro–psicologici, ritardi verbali, deficit motori di
coordinazione ad occhi chiusi, riduzione della presa manuale e del
riconoscimento cromatico (1216 ). Alla luce di tali prove, il Governo
Federale USA ha stabilito un limite soglia di 0.001 ppm con valore minimo nello stato del Massachusetts di 0.00065 ppm (17, 18). In esposizione acuta, come può accadere in presenza di incidenti, con valori compresi tra i
300 e fino a 1.000 ppm, si può avere edema polmonare, intossicazione
acuta, danni al sistema nervoso, collasso, paralisi, morte immediata
(19).

Radon
Nella fase di cantiere, nella fase di perforazione del pozzo e nella fase
di prova e di produzione, non vengono mai presi in esame emissioni
come il trimetilbenzene, lo xilene, gli idrocarburi alifatici e il benzene,
né, tanto meno, vengono presi in considerazione il particolato fine e
ultrafine (PM 2,5, PM 0,1), le nanoparticelle e il Radon. Le nanopolveri
possono essere responsabili di patologie respiratorie come bronchiti,
asma, enfisema polmonare e tumori. Le polveri più sottili sono in
grado di penetrare all’interno della struttura cellulare e modificarne
la composizione. Il Radon 222 è un gas radioattivo espressione del
decadimento della catena dell’Uranio 238/235 e Radio. La principale
fonte di questo gas risulta essere il terreno con elevate concentrazioni
in particolari reservoir sotterranei. È cancerogeno (gruppo 1 IARC)
se inalato, in quanto emettitore di particelle alfa (20). La normativa
statale fa riferimento al Decreto legislativo 26/05/00 n. 241 dove si è
fissato un livello di 500 Bq/metro cubo.
È perciò evidente come il Radon ponga un problema di emissioni
in atmosfera e diffusivo nell’acqua (quindi delle falde eventualmente
intercettate).
Una particolare attenzione va posta al trattamento dei fanghi che
risulterebbero dei TENORM (Technologically Enhanced Naturally
Occuring Radioactive Materials), cioè rifiuti che in seguito alla lavorazione vedono incrementare la concentrazione di uranio 238/235
da dove origina in Radon. (20). Spesso si ignora il regime normativo
USA, ma soprattutto Comunitario e quello statale italiano. Infatti,
come noto, le attività di perforazione possono produrre materiale
contenente elementi radioattivi che devono essere debitamente classificati, stoccati e messi in assoluta sicurezza per essere smaltiti. L’EPA definisce come NORM (Naturally Occuring Radioactive Materials) i
materiali che contengono radionuclidi naturali quali il 40K ed i membri
delle tre famiglie radioattive naturali, dell’238U, dell’235U e del 232Th in
concentrazioni superiori alla media della crosta terrestre; essi sono
responsabili dell’86% dell’esposizione a cui è soggetto l’uomo. L’acronimo TENORM (Technologically Enhanced NORM) si riferisce,
invece, ad un materiale che, a differenza del NORM, vede una concentrazione di radionuclidi naturali aumentata a causa della tecnologia del processo di lavorazione subita dalla materia prima.
Che si tratti di evidenze scientifiche ben consolidate, lo dimostra
la presenza di un riferimento legislativo anche nel sistema normativo
della Repubblica Italiana (vedi il D. Lgs n°241 del 26/05/2000 “Attuazione
della Direttiva 96/29/EURATOM in materia di protezione sanitaria della
popolazione e dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti”,
G.U. n. 203 del 31 agosto 2000–Supplemento Ordinario n.140) che
individua tra le attività che producono TENORM e che richiedono
un controllo: le attività industriali che utilizzano minerali fosfatici e i
depositi per il commercio all’ingrosso dei fertilizzanti; la lavorazione
di minerali nella estrazione di stagno, di ferro niobio da pirocloro e di
alluminio da bauxite; la lavorazione di sabbie zirconifere e la produzione
di materiali refrattari; la lavorazione di terre rare; la lavorazione e
l’impiego di composti del torio (elettrodi per saldatura, produzione di
lenti, reticelle per lampade a gas); l’estrazione e la raffinazione di petrolio
e l’estrazione di gas.
Tali norme sono state confermate e attualizzate dalla Direttiva
2013/59/EURATOM del 5 dicembre 2013. In tale direttiva, alla SEZIONE
2 “Controllo regolamentare”, l’articolo 23 riguarda l’individuazione
di pratiche che comportano l’impiego di materiali contenenti
radionuclidi presenti in natura:
Gli Stati membri garantiscono l’individuazione di classi o tipi di pratiche
che comportano l’impiego di materiali contenenti radionuclidi presenti in
natura e che determinano un livello di esposizione dei lavoratori o individui
della popolazione non trascurabile dal punto di vista della radioprotezione.
L’individuazione è effettuata con i mezzi appropriati, tenendo conto dei
settori industriali elencati nell’allegato VI.
La dispersione di radioisotopi nell’ambiente, in seguito a eventi
naturali, a situazioni incidentali o a carenze di controllo può esporre la
popolazione a dosi da irraggiamento esterno (contatto) e da irraggiamento interno (ingestione e inalazione) con esposizioni che possono protrarsi anche per lunghi periodi e che vanno ad aggiungersi a quelle medie naturali. I radioisotopi dispersi nell’ambiente possono subire il fenomeno della bio–magnificazione entrando nelle catene biologiche e
quindi subire processi che possono portarli ad accumularsi in alcune
sostanze destinate all’alimentazione animale e umana, dando luogo così a
condizioni di rischio particolari. Sugli effetti deterministici e stocastici
sugli esseri viventi e in particolare sugli esseri umani, si rimanda ad
una letteratura più che consolidata.

Fluidi di perforazione e rischi sanitari
L’impiego di fluidi di perforazione a base di acqua può apparire rassicurante.
A tali fluidi vengono, per altro, addizionati altri materiali,
per migliorare le capacità di trasporto e di appesantimento e vengono
inoltre aggiunti additivi chimici per controllare la loro capacità
di fluidificazione, variandone la viscosità. Tra le sostanze chimiche
additive vengono anche impiegate antischiumogeni, lubrificanti e anticorrosivi.
Durante le perforazioni possono essere impiegati fluidi
di perforazione con caratteristiche differenti, in relazione alle diverse
condizioni di perforazione che si possono verificare nell’avanzamento
del pozzo. I composti per formare i fluidi di perforazione miscelati
in diverse proporzioni, a seconda delle varie fasi della perforazione,
sono: la soda ash, il visco xc 84, avasil ft, il cloruro di potassio, la barite,
il visco 83 xlv, l’avapolymer 5050, mica c/f, granular m, granular f, avacid
50, intasol, avagreenlube, avatensio lt, de block s lt. Questi composti chimici
agiscono, come detto, con funzioni diverse (riduttori di filtrato,
viscosizzanti, biocida, intasanti, antipresa, lubrificanti, stabilizzatori di
argille, antischiuma).
Per la pericolosità di questi prodotti utilizzati nelle attività di estrazione
petrolifera, si fa spesso riferimento al Offshore Chemical Notification
Scheme (OCNS) dove essi vengono classificati tra i meno pericolosi
(E), ma dove non viene certificata l’assenza di pericolosità né, tanto
meno, la loro innocuità. In letteratura, invece, è stata recentemente
riportata la pericolosità relativa all’impiego di tali liquidi di perforazione,
legata all’impatto sulla qualità delle acque profonde e superficiali,
nonché la possibile tossicità dei liquidi e dei fanghi in risalita (2124). In
particolare, si fa riferimento, per quanto riguarda i liquidi di perforazione,
alla assenza del numero CAS (Chemical Abstracts Service) che
ne identifica i componenti — presenti nelle miscele di vari prodotti —
e i loro corrispondenti effetti sulla salute (22).
La soda ASH può avere un’azione acuta irritante su pelle, congiuntiva
e mucosa dell’apparato respiratorio e digerente; un’azione cronica
può determinare danni agli organi bersaglio. La barite nelle monografie
IARC (25) può essere cancerogena (gruppo 1) se inalata. Spesso,
negli studi di impatto ambientale, non viene fatto nessun riferimento
a questo possibile fattore critico durante le fasi di lavorazione e di
trasporto. Si fa semplicemente cenno al contenimento della barite in
un silos: . . . nelle vicinanze della vasca di stoccaggio delle acque industriali,
sarà predisposta una soletta in calcestruzzo per la dislocazione dei silos
contenenti la barite necessaria ad appesantire opportunamente il fluido di
perforazione.
In letteratura su 994 prodotti usati come liquidi di perforazione,
ben 353 sostanze, identificate con il corrispettivo numero CAS, hanno
effetti sulla salute. In particolare, più del 75% delle sostanze chimiche
hanno effetti sulla pelle, sulle congiuntive, sugli organi di senso e
sulle mucose dell’appartato respiratorio e gastro–intestinale; il 4050%
hanno effetti sul sistema nervoso centrale e periferico, il sistema immunitario,
cardiovascolare e urinario; il 37 % hanno effetti sul sistema
endocrino; il 25% può avere una azione geno–tossica e cancerogena
(24).
L’Unione Europea ha selezionato 564 sostanze sospettate di essere
interferenti endocrini: di queste, 147 possono essere persistenti nell’ambiente o prodotte in grandi volumi; 66 è provato che possano agire come interferenti endocrini (categoria 1), mentre di 52 c’è solo qualche prova che siano potenziali interferenti endocrini (categoria 2).
Fonte Ministero dell’Ambiente: Gli interferenti endocrini, secondo il
Regolamento REACH, appartengono alla categoria delle sostanze individuate
come “estremamente preoccupanti”, per le quali è previsto l’obbligo di
autorizzazione.
Per sostanze estremamente preoccupanti si intendono, ai sensi dell’art.
57 del Regolamento, le sostanze classificate come cancerogene,
mutagene e tossiche per la riproduzione (CMR), le sostanze identificate
come persistenti, bioaccumulabili e tossiche (PBT), quelle identificate
come molto persistenti e molto bioaccumulabili (vPvB) ed infine le
sostanze aventi proprietà che perturbano il sistema endocrino, per le
quali è scientificamente comprovata la probabilità di effetti gravi per
Impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni per terra e per mare 167
la salute umana o per l’ambiente e che danno adito ad un livello di
preoccupazione equivalente a quella delle altre sostanze”.
Anche se a tutt’oggi i criteri per classificare queste sostanze non
sono stati ancora stabiliti e mancano strategie condivise a livello internazionale, per quanto concerne i test di valutazione, alcune sostanze, riconosciute come interferenti endocrini, sono comunque già oggetto di restrizioni e/o limitazioni a livello europeo, in relazione alle
loro proprietà di persistenza e bioaccumulo, e quindi sottoposte agli
obblighi di autorizzazione previsti per le sostanze PBT e vPvB.


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fonte: www.isde.it