I referendum sulle
trivelle e quelli sul nucleare del 2011, anche se con risultati diversi,
hanno dimostrato alcune cose, al netto della complessità dei quesiti
posti agli elettori e del tempo concesso per spiegarli. Entrambi non possono essere gli strumenti per produrre un cambiamento del nostro modello energetico.
Una
consultazione popolare può toccare una legge, abrogarla o meno, e al
contempo essere uno stimolo per la discussione, ma alla fine resta una
battaglia fatta più di slogan, di post su facebook, di articoli più o
meno argomentati, di botta e risposta alla Tv, che non di generare un
profondo mutamento delle coscienze. Un dibattito che poi, come è anche
legittimo, viene caricato di altri scopi politici, ma che sposta di poco
l’approccio delle persone verso questo tema, come si era ingenuamente
sperato.
Lo avevamo sperato anche dopo il referendum sulle centrali atomiche
che ha scongiurato, quella volta proprio per merito dei cittadini
italiani, una iattura come quella di costruire sul nostro territorio
delle costose, mastodontiche e inutili strutture. Purtroppo il dibattito
pubblico si esaurì lì. Bandiere al vento dell’ambientalismo, un bel
successo, anche molto utile, ma poi non si è stati capaci di mantenere alta l’attenzione sulla questione energetica,
di parlare al paese delle opportunità concrete offerte dalle
alternative a quel modello di centrali, dei benefici per la vita
quotidiana delle persone, per la società e l’ambiente. E i governi che
si sono succeduti hanno stroncato quello che c'era delle politiche a
favore di rinovabili ed efficienza.
L’energia è una materia che è stata sempre dominio di una casta di esperti
e di alcune grandi organizzazioni legate alle società energetiche.
Questi “sacerdoti” detenevano le chiavi della conoscenza di questo mondo
e lo governano con proprie leggi, quelle tipiche di un modello di generazione centralizzata, concentrato nelle mani di pochi soggetti: era il pensiero tradizionale dell’energia. Tutti gli altri, i consumatori,
dovevano solo spingere l’interruttore e azionare la pompa di benzina, e
pagare. Le scelte venivano fatte da altri. La domanda era, per così
dire, rigida.
Il mondo è un bel po’
cambiato in questi ultimi dieci o quindici anni (che in tempi energetici
sono comunque un breve periodo), ma l’argomento energia è ancora considerato “elitario”
dalla stragrande maggioranza della popolazione. E forse anche per
questo il referendum di domenica 17 aprile non ha scaldato due terzi del
paese.
Per avvicinare il tema dell'energia a tutti e trasformare il sistema energetico,
come per qualsiasi mutamento radicale dell’economia e della società,
non si può sperare in episodici interventi della politica o, magari, di
un insieme di Stati nazionali che si accordano al ribasso su quali
dovranno essere i nostri obiettivi di rinnovabili o di efficienza
energetica da qui a 15 o 20 anni. Non si è mai vista una “rivoluzione” pilotata
dalle stesse forze che sono strettamente legate al sistema che si
vorrebbe cambiare. Perché, sia chiaro, i grandi gruppi energetici e i
governi erano e sono ovunque strettamente collegati tra loro, con tutto
quello che ne consegue, corruzione inclusa. Questo è un fatto
incontrovertibile.
Cambiare
radicalmente il nostro modello di energia, e quindi anche i nostri
consumi energetici, richiede, rispetto al passato, una differenza
sostanziale: un elevato numero di attori coinvolti.
Prima erano pochi, domani dovranno essere una moltitudine. Un passaggio
che è connaturato a quella che si chiama generazione energetica
distribuita o decentralizzata.
Per questo motivo cambiare sarà possibile solo con una forte spinta dal basso, realizzata attraverso un processo probabilmente caotico, ma che dovrà essere sufficientemente accelerato, e allargato ad una pluralità di soggetti: cittadini, imprese, condomini, comunità, città, università, tecnici, costruttori, eccetera. Come favorire questa spinta?
Ognuno dovrà portare il suo piccolo contributo
attraverso le sue scelte, come la sostituzione di una tecnologia con
altre alimentate da energia rinnovabile, i suoi modelli di
comportamento, le sue competenze, la capacità di trasferire informazioni
e conoscenze. Non sarà qualcosa che seguirà una linea coerente e
regolare. Sarà come acqua che si insinua ovunque trova una opportunità
di passaggio, e sarà un processo inarrestabile.
Serve un mutamento culturale? Ma questo quasi sempre segue l’evoluzione di nuove tecnologie
che diventano semplici da utilizzare, economiche e a disposizioni di
tutti. Non basta solo l'afflato ambientalista oppure opporsi (anche se
giustamente) ad una vecchia o nuova infrastruttura energetica
centralizzata. Siamo sulla buona strada? Forse dovremmo avere meno
aspettative nei governi, e più nell’innovazione e nell’informazione, che va aiutata e indirizzata. Diventare un po' più acqua e meno picconatori.
A chi opera nel settore della green economy e alle associazioni di settore, bisogna chiedere tutti i giorni
di rendere queste opzioni tecnologiche fattibili per tutti,
abbassandone i costi, studiando nuove strategie di diffusione, di
raccontare con i numeri e con gli esempi pratici quanto convengono alla
famiglia, all’impresa, al paese. Bisognerà essere meno autoreferenziali:
parliamo di tecnicismi con i tecnici e impariamo, invece, a spiegare in
modo semplice al cittadino e all'imprenditore che qualificare
energeticamente la propria abitazione o industria conviene e
l'investimento si può ripagare in tempi brevi. Quando questa domanda
sarà ancora più forte, rinnovabili ed efficienza energetica ancora più
diffuse, anche la politica e la finanza saranno costretti ad
accompagnarla.
Anche oggi un colpo al settore delle fonti fossili
è ogni singola sostituzione di una caldaia a gas e di un’automobile a
diesel o a benzina con tecnologie più pulite. Tra qualche anno quelle
piattaforme e quel mancato quorum del referendum, allora, saranno solo
uno sbiadito ricordo.
fonte: http://www.qualenergia.it