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L'inganno: impatti su salute ed ambiente, ma pochi benefici. Quanto vale il petrolio lucano?

Benvenuti nel Texas d'Italia















Una regione che galleggia sul petrolio, ma che a dispetto di tale supposta ricchezza non riesce a porre argine alla fuga della sua gioventù. Benvenuti in Basilicata, il “Texas d'Italia”, come è stata ribattezzata nelle ultime due decadi del secolo scorso, quando nella Val d'Agri, a una cinquantina di chilometri da Potenza, è stato scoperto il giacimento su terra ferma più ricco d’Europa. Da quel momento una delle valli più rigogliose del Meridione, famosa per la produzione di fagioli e mele, è diventata il fulcro dell'estrazione petrolifera nostrana. Nel suo cuore è stato innestato il Centro Olio Val d'Agri (COVA), che raccoglie il petrolio estratto nei pozzi sparsi nell'area (al momento quelli attivi sono 24). La produzione si aggira intorno agli 80mila barili al giorno, a fronte di un massimo previsto per concessione statale che può raggiungere le 104mila unità. Da alcuni mesi è attivo un secondo centro Olio, quello di Tempa Rossa, gestito dalla Total, che è già nell’occhio del ciclone per una serie infinita di problemi e incidenti.




Ma siamo sicuri che i benefici, sotto forma di royalties e posti di lavoro, superino i “costi”, ovvero l’inquinamento di aria, acqua e della terra e i relativi effetti sul territorio e le comunità che lo abitano? E che gli stessi benefici stiano veramente cambiando il volto della Basilicata? Quella che è storicamente una delle regioni più povere d’Italia è rimasta tale e centinaia di suoi figli continuano a cercare fortuna altrove.



fonte: inganno.recommon.org


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#Re:Common: Ripresa e Connivenza

L’attacco dell’industria fossile al Recovery Plan



Oltre 100 incontri con i ministeri dello Stato per accaparrarsi i soldi del Recovery Fund. L’attacco dell’industria fossile ai miliardi in arrivo dall’Europa descritto minuziosamente nella pubblicazione di ReCommon. Facendo leva sul loro accesso privilegiato ai decisori politici, colossi energetici come Eni e Snam sono riusciti a plasmare il Recovery Plan italiano, infarcendolo di false soluzioni come l’idrogeno e il biometano, dietro cui si nasconde il tentativo di vincolarci al gas per i prossimi decenni.

SCARICA LA PUBBLICAZIONE

fonte: www.recommon.org


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ComitatoNoInc Terni: Parliamo di idrogeno: lo stato delle cose, le favole, e il futuro di una Giusta Transizione Energetica


L’idrogeno viene presentato come il perno della chiamata Transizione Energetica. A zero emissioni, pulito, green, utilizzabile ovunque. Questa presentazione ci ha fatto pensare alla favola della pentola d’oro che si troverebbe lì dove finisce l’arcobaleno...lì cioè dove arriva l’intricata maglia delle reti di gasdotti che oggi trasportano metano. Perchè se oggi si parla idrogeno, in realtà si dovrebbe parlare di gas.

Il rischio cioè è che si perda il treno dell’idrogeno, in particolare quello prodotto con energia da fonti rinnovabili, che non va visto però come l’asse portante della Transizione Energetica, ma come una delle soluzioni. Non è cioè la pentola d’oro!

Vedremo infatti come la questione sia assai più complessa e incerta di come viene presentata. L’idrogeno deve essere prodotto, sembra una ovvietà, ma già in questo primo passaggio ci accorgeremo di come già ora, ci si annidino tantissime rilevanti contraddizioni. Dovrà poi, una volta prodotto, essere trasportato e stoccato. E anche in queste due fasi, vedremo, non è ancora di fatto scritto nulla di concreto. Inoltre non si capisce davvero in che termini tale Transizione dovrà avvenire senza trasformare l’attuale processo di produzione concentrato in grandi centrali e senza programmare ad esempio lo sviluppo capillare dell’autoconsumo con accumulo. E come vedremo anche su questo tema, i grandi del settore, si stanno scornando.

Insomma, per capirci qualcosa, è fondamentale analizzare quali siano i soggetti in campo e quali i loro reali interessi, piani industriali, proiezioni.

Che c’entra Terni? Terni si candida a diventare un centro di produzione di idrogeno, fa parte del progetto europeo H2Valley, ma anche in questo caso la questione è stata presentata con la stessa modalità della pentola d’oro. Riteniamo invece che cittadini, stampa, società civile, abbiano diritto ad essere al corrente dello stato reale delle cose, siano cioè in grado di produrre un pensiero autonomo capace di leggere tra le righe delle favole. Perchè il tema della transizione energetica e del passaggio a produzioni sempre meno impattanti, rappresenta per Terni una necessità inderogabile.

Ne parleremo con Elena Gerebizza e Filippo Taglieri dell’associazione Re:common che presenteranno il loro Report “La montatura dell’idrogeno”. Lunedì 15/3 ore 18 in diretta facebook sulla pagina “Comitato No Inceneritori Terni”.

Comitato No Inceneritori Terni


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ReCommon: Cinque anni sprecati

Tutto lascia credere che sia passato invano il tempo non certo breve trascorso dalla sottoscrizione degli Accordi sul clima. Le major del petrolio e del gas non si fermano né, tanto meno lo fanno i loro finanziatori. “Cinque anni persi” è il titolo del report lanciato da 18 Ong internazionali. Nel rapporto sono descritti “I dodici progetti che rischiano di distruggere il pianeta, li chiamiamo “Carbon Bombs” e hanno effetti deflagranti sul cambio climatico



Lo studio prende in esame 12 mega-progetti fossili attualmente in fase di sviluppo che, se venissero realizzati, causerebbero il rilascio di atmosfera di 175 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Un volume di CO2 sufficiente a esaurire metà del budget di carbonio rimanente per restare al di sotto della fatidica soglia di 1,5 gradi Celsius.

Oltre alle conseguenze per il clima, questi progetti comportano impatti negativi anche dal punto di vista ambientale e della salute delle persone, oltre a causare serie violazioni dei diritti umani.

A guidare l’espansione fossile ci sono società come l’italiana Eni, la francese Total, l’anglo-olandese Shell e le altre major dell’oil&gas, ma anche la finanza gioca un ruolo da protagonista. Dalla firma dell’Accordo di Parigi a oggi, le principali banche e i fondi di investimento mondiali hanno finanziato le società attive in questi 12 progetti con circa 3mila miliardi di dollari.

Un fiume di denaro che dimostra come, nonostante gli impegni e le politiche di disinvestimento adottate in questi anni da molti istituti, per il clima la finanza non stia ancora facendo la propria parte.

I 12 progetti analizzati rappresentano un test fondamentale per banche, assicurazioni e fondi di investimento. Le Ong che hanno realizzato il rapporto ritengono che per evitare gli impatti più catastrofici della crisi climatica occorre interrompere immediatamente i finanziamenti per quelle società che continuano a realizzare nuovi progetti fossili.

“Sono passati cinque anni dall’Accordo di Parigi, eppure il modello di business dell’industria fossile è rimasto immutato” ha dichiarato Alessandro Runci di Re:Common, tra gli autori del rapporto. “Società come Eni hanno continuato a espandersi, come in Mozambico, dove la scoperta di enormi riserve di gas si è trasformata in una maledizione per le comunità. Banche come UniCredit e Intesa Sanpaolo, quest’ultima tra le più fossili in Europa, devono smettere immediatamente di finanziare le società che stanno devastando il Pianeta”, ha aggiunto Runci. 



Tra i casi più rilevanti inclusi nel rapporto c’è l’espansione dell’industria del gas in Mozambico, guidata da Eni e la francese Total, che sta causando devastazione e violenze nella regione di Capo Delgado. Nel Mediterraneo orientale, un’altra società italiana, Edison, è tra le proponenti del mega gasdotto EastMed, che dovrebbe collegare i giacimenti di gas della regione, molti dei quali controllati da Eni, con i mercati europei. In Suriname, la scoperta di un enorme giacimento di petrolio ha innescato una corsa all’accaparramento delle risorse che mette a rischio il delicato ecosistema del Paese sudamericano. Nel nord della Patagonia, Total e Shell sono tra le più attive nelle attività di fracking in quel territorio, nonostante persino le Nazioni Unite abbiano sollevato delle criticità, sia per gli impatti ambientali e climatici, che per quelli sulle comunità e i popoli indigeni che abitano la regione. Il carbone è invece il protagonista dei progetti in Cina, India e Bangladesh, dove l’industria si sta continuando a espandere, ignorando gli appelli della comunità scientifica ad abbandonare il carbone entro il 2040.

Per quanto riguarda la finanza, i giganti americani Blackrock, Vanguard e Citigroup guidano la classifica dei maggiori finanziatori delle società coinvolte in questi progetti, seguiti dalle inglesi Barclays e HSBC e dalla francese BNP Paribas.

Ad alimentare l’espansione fossile ci sono anche le italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit, che complessivamente, dal 2016 ad oggi, hanno finanziato con la cifra astronomica di 30 miliardi le società fossili che guidano i 12 progetti, con Eni in cima alla lista dei beneficiari.

Va specificato però che mentre Unicredit ha recentemente adottato delle politiche sui combustibili fossili che vanno nella giusta direzione, Intesa Sanpaolo rimane il fanalino di coda tra le banche mondiali, e uno dei pochi istituti di credito europei a non aver ancora indicato una data per il phase-out del carbone.

Qui puoi trovare : I dodici progetti che rischiano di distruggere il pianeta

Per scaricare l’intero rapporto in inglese: Five Years Lost

Le Ong che hanno redatto il rapporto: The Conservation Council of WA (CCWA), The Center for Energy, Ecology, and Development, The Center for International Environmental Law, Coastal Livelihood and Environmental Action Network (CLEAN), Climate Risk Horizons, Enlace por la Justicia Energética y Socioambiental (EJES), FARN, Framtiden i våre hender (Future in our hands), Friends of the Earth U.S., The Friends of the Earth France, The Global Gas and Oil Network (GGON), Global Energy Monitor (GEM), Oil Change International, Rainforest Action Network, Reclaim Finance, Urgewald, The Leave it in the Ground Initiative (LINGO), e l’italiana Re:Common.

fonte: www.comune-info.net


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La trappola della ripartenza

A livello planetario, i bei propositi spuntati fuori a più riprese durante il lockdown si sono sciolti come neve al sole. La domanda mondiale di petrolio è già risalita all’89 per cento dei livelli pre-Covid, dovrebbe raggiungere il 95 a inizio 2021. “Siamo quasi normali”, dicono gli esperti del think tank, all’appello mancano solo il trasporto aereo e altri colleghi. Inevitabile, con il virus che ancora circola per il mondo. Dall’inizio della pandemia, la Banca Centrale Europea ha iniettato oltre 7 miliardi di euro nelle casse dell’industria fossile, Eni inclusa. Con il Decreto Semplificazione, anche il governo italiano ha fatto un bel po’ di favori al comparto dei combustibili fossili, Enel, Eni e Snam in primis. Con i piani di conversione a gas degli impianti di carbone e altre mosse del genere, anziché guidare verso la necessaria transizione, il governo la mette in soffitta




Dopo la pandemia del Covid-19 nulla sarebbe stato come prima, ci è stato detto a lungo dai media e dai governanti del pianeta. Ed è sembrato un po’ così per le prime settimane dell’emergenza sanitaria. Si pensi solo al mercato dell’energia, al tracollo del prezzo del petrolio che ha disintegrato in due mesi i profitti delle oil majors e generato panico e incertezza sistemica.

Ma poi, ridimensionata temporaneamente la crisi sanitaria, sono entrate in campo le banche centrali, le misure urgenti della ripresa da parte dei governi e le richieste di aiuto faraonico dalle imprese.

“Ricostruiamo, ma meglio, più verdi, più giusti”, si è chiesto da più parti. Sei mesi dopo l’inizio del lockdown globale, i numeri e le scelte dei vari esecutivi purtroppo ci dicono ben altro.

Gli analisti dell’IHS Crude Oil Market Service qualche giorno fa hanno annunciato che la domanda mondiale di petrolio è già risalita all’89 per cento dei livelli pre-Covid ed è attesa al 95 a inizio 2021. “Siamo quasi normali”, secondo gli esperti del think tank; all’appello mancano solo l’aviazione e alcuni trasporti. Inevitabile, con il virus che ancora circola per il mondo.

Allo stesso tempo la mole finanziaria di aiuti per le società fossili ed energetiche messa in campo da governi e banche centrali è spaventosa.

Dall’inizio della pandemia, la Banca Centrale Europea ha iniettato oltre 7 miliardi di euro nelle casse dell’industria fossile, Eni inclusa.

In Italia, oltre al caso più noto di FCA, la lista di multinazionali che in questi mesi hanno beneficiato di aiuti pubblici è lunga, e comprende colossi come Fincantieri, che ha appena ricevuto un prestito da 1,15 miliardi tramite Garanzia Italia, e Maire Tecnimont, società specializzata nell’oil&gas, a cui sono andati 365 milioni.

La lista è destinata ad allungarsi, viste le mire delle lobby europee del gas sui nuovi soldi del tanto ambito “Recovery Fund”, in nome del mantra delle nuove infrastrutture che faranno ripartire il Bel Paese.

Insomma, sussidi di stato ai soliti noti, in nome della ripresa e lo sviluppo, ben poco di nuovo nella narrazione delle élite.

Ma non si tratta solo di soldi. Il Decreto “Semplificazioni”, in in questi giorni in dirittura di arrivo con la sua conversione in legge in Parlamento, prevede addolcimenti dei vincoli di legge a man bassa per le grandi imprese fossili ed energetiche.


Centrale termoelettrica ‘federico II’, Enel, Cerano, Brindisi, 2009. Foto Paolo Margari, Flickr CC BY-NC-ND 2.0

Nei mille cavilli del decreto del governo per la ripresa post-Covid si trovano permessi più semplici per le conversioni degli impianti da carbone a gas (leggi Enel, A2A), esenzione da bonifiche attese da decenni con auto-certificazioni all’acqua di rosa, ricorsi amministrativi più difficili e velocizzati in caso di gasdotti e nuove mega opere (leggi Snam e TAP) e tanto altro ancora.

Per ripartire tocca fare presto e fidarsi che i campioni italiani delle grandi opere fanno tutto solo per noi cittadini, non per i loro interessi. Certo, lo sappiamo bene dalla Tav Torino-Lione in poi. Anche qui nessuna novità, ahimé.

A livello europeo, la dinamica sembra meno tradizionale di quella italiana. Ma anche lì l’azione delle lobby non è da meno.

Ad esempio, in questi giorni si sta chiudendo il pacchetto sui fondi per la transizione giusta, e si moltiplicano le voci per rendere eleggibili i progetti a gas, e quindi fossili, che ritarderebbero di decenni una vera decarbonizzazione.

In effetti, come si legge in un recente studio dell’Università di Oxford che ha analizzato 3mila utilities a livello mondiale, si capisce come tre quarti non hanno investito in rinnovabili e delle rimanenti almeno la metà ha investito tanto anche in nuovi impianti a gas. Altro che sviolinate giornaliere sulla sostenibilità ed i cambiamenti climatici!

Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common

fonte: www.comune-info.net


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Banca del clima o del maquillage?

Nonostante la sua politica generale sia definita dal Consiglio dei Governatori, composto dai 28 ministri dell’economia degli Stati membri, la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) sarebbe formalmente un’istituzione indipendente. Da qualche tempo, poi, il presidente del Gruppo BEI, Werner Hoyer, non fa altro che sostenere che il clima è la priorità politica del momento e che quella adottata dalla BEI di recente, con l’essenziale beneplacito di Ursula von der Leyen, è “la più ambiziosa strategia di investimento per il clima che un’istituzione finanziaria pubblica mondiale abbia mai adottato”. Cosa probabilmente vera, anche perché non si saprebbe dove cercare i competitors. Il problema nasce quando si va a guardare da vicino quella strategia, fatta – come sempre – di annunci e promesse ancora vistosamente e largamente contraddetti dalle pratiche attualmente in corso. Come dimostrano il Rapporto pubblicato di recente da Counter Balance ma anche la garanzia di ben 150 milioni di euro per la costruzione di un terminale per il gas liquido a Cipro per favorire l’estrazione nelle acque profonde del Mediterraneo orientale o i miliardi concessi negli ultimi tre anni per l’espansione di aeroporti e la costruzione di nuove strade e autostrade. In tutto, ben 28,7 miliardi di euro del budget della Bei sarebbero andati a operazioni ad alte emissioni nel settore dei trasporti e dell’energia. Un presente ancora molto imbarazzante per una sincera “banca del clima”, che lascia ampio credito alle ipotesi che vogliono quello annunciato come l’ennesimo ritocco green per continuare sostanzialmente il business di sempre?




Nel novembre 2019, con il lancio della sua nuova politica energetica la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha gettato le basi per divenire la “banca per il clima” dell’Unione europea. La decisione di chiudere il rubinetto dei prestiti al settore estrattivo a partire dal 2021 ha generato un notevole dibattito nel settore finanziario e tra le banche di sviluppo pubbliche, finite sotto la pressione delle proteste dei giovani attivisti dei Fridays for Future, che chiedevono loro di azzerare i prestiti a un settore, quello delle fossili, che contribuisce in larga parte alla crisi climatica.

Se da un lato va dato atto ai banchieri di Lussemburgo dell’importanza di questa decisione, dall’altro la banca è ancora ben lontana dall’agognato impatto zero. Ce lo spiega bene il nuovo rapporto pubblicato da Counter Balance, dal titolo “The EU Climate Bank: Greenwashing or banking revolution?” (scaricabile in inglese qui: http://www.counter-balance.org/too-soon-to-call-eib-eu-climate-bank/ ). Secondo la rete di organizzazioni, di cui fa parte anche Re:Common, sono numerosi gli ambiti di investimento da cui la banca dovrebbe uscire per allineare le proprie operazioni agli impegni presi con l’Accordo di Parigi.

Prima di tutto, dovrebbe affrontare le preoccupanti lacune contenute nella policy sull’energia di cui sopra, che consente ancora di finanziare progetti nel settore del gas sulla base di vaghe promesse di una futura riduzione delle emissioni che dovrebbero rendere queste stesse opere più “green”. Poi c’è il problema dei “Progetti di interesse comune” della Commissione europea: la 4a lista dei progetti prioritari, approvata nel 2019, contiene ben 32 grandi infrastrutture per il trasporto, estrazione, stoccaggio e trattamento del gas che la BEI potrebbe finanziare. Infine le soglie di performance richieste ai clienti della banca non sarebbero per niente stringenti, aggiungendo una ulteriore finestra attraverso cui nuovi progetti fossili potrebbero beneficiare dei soldi della banca.

Solo qualche giorno fa il vice presidente della banca, Andrew McDowell, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che “investire in nuove infrastrutture nel settore fossile, come terminali LNG, è sempre di più una decisione economicamente scorretta”. Eppure lo scorso giugno la BEI ha garantito ben 150 milioni di euro per la costruzione di un terminale LNG a Cipro, un progetto che favorirà l’espansione dell’estrazione di gas in acque profonde nel Mediterraneo orientale. Alla faccia delle considerazioni economiche, della politica energetica e della compatibilità climatica!

Secondo Counter Balance, il problema della sostenibilità climatica dei finanziamenti erogati va ben oltre il settore energetico: il rapporto segnala ad esempio l’impatto enorme su ambiente e clima di un modello di organizzazione dei trasporti incentrato sull’espansione del traffico aereo e sul commercio a lunga distanza, che la BEI continua a sostenere. Fra il 2016 e il 2019, la banca avrebbe finanziato l’espansione di aeroporti per 4 miliardi di euro; 10,5 miliardi di euro sono statti destinati alla costruzione di nuove strade e autostrade e 2,83 miliardi al settore marittimo, incluso per navi alimentate a gas. In tutto, 28,7 miliardi di euro del budget della Bei sarebbero andati a operazioni ad alte emissioni nel settore dei trasporti e dell’energia.

Quindi quale sarebbe la ricetta da seguire per divenire davvero la banca per il clima di cui l’Ue possa vantarsi? Per iniziare, la BEI dovrebbe smarcarsi dai falsi miti della transizione green promossa dalle grandi corporation. Primo fra tutti, quello del “gas verde” o “rinnovabile”, che di fatto non esiste (e forse non esisterà mai). Come non esiste l’“aviazione verde”, ma per ora ci sono solo tante promesse delle multinazionali sulle riduzioni di emissioni future di uno dei settori più pericolosi per il clima. In entrambi i casi, il rischio che risorse pubbliche continuino a sostenere settori così inquinanti sulla base di impegni sulla carta che potrebbero materializzarsi solo in parte (o per niente) è davvero troppo alto. C’è poi il mito della “finanza verde”, che riduce le proprie emissioni tramite meccanismi di offsetting della biodiversità, rischiando di alimentare l’accaparramento di terre, la deforestazione, le violazioni dei diritti umani delle comunità coinvolte. Anche questo è un mito da decostruire, non solo per investimenti in grandi infrastrutture (verdi!) ma anche per investimenti in mega impianti fotovoltaici o per lo sfruttamento dell’energia eolica. “Rinnovabili” certo, ma insostenibili.

Per trasformarsi nella Banca per il clima dell’UE, la BEI dovrebbe rivedere radicalmente la lettura del modello di sviluppo che sostiene. Serve un processo lungo e complesso, che richiederebbe alla banca di svincolarsi dalle pressioni del settore estrattivo e dell’industria pesante, ma anche da quello del settore finanziario, tra i grandi promotori dei mega-corridoi infrastrutturali orientati a favorire il transito sempre più rapido (e estrattivista) di merci su scala globale. Un vero e proprio piano di sviluppo di infrastrutture nei cinque continenti che se realizzato, diventerà la spina dorsale del sistema economico per i prossimi cinquanta e più anni, e che non può essere compatibile con la tutela deBanca del clima o del maquillagel clima e la necessaria riduzione di emissioni su scala globale. Chissà se i banchieri di Lussemburgo saranno tanto ambiziosi da voler creare una “vera” banca per il clima, o se anche loro sperano che pochi ritocchi bastino a consegnare al mondo un immagine “green”, continuando però con il business as usual.

Fonte Re:Common



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Dall’Italia 2,3 miliardi l’anno di sussidi alle fossili


























“Still Digging”, un rapporto pubblicato oggi dalle organizzazioni statunitensi Friends of the Earth USA e Oil Change International, rivela che l’Italia ha destinato 2,3 miliardi di euro l’anno a progetti di sfruttamento dei combustibili fossili rispetto ai 215 milioni di euro assicurati nello stesso arco di tempo alle fonti energetiche pulite. Dalla sigla dell’Accordo di Parigi a fine 2015, i Paesi del G20 hanno impiegato circa 71 miliardi di euro l’anno in finanziamenti pubblici a petrolio, gas e carbone, il triplo di quanto andato alle rinnovabili.
Mentre l’Italia prepara i suoi pacchetti di stimolo in risposta all’emergenza COVID-19, “Still Digging” sottolinea che la sua finanza pubblica è stata finora drammaticamente disallineata con quanto necessario per evitare la crisi climatica. Il rapporto esorta l’Italia e gli altri governi del G20 a smettere di usare il denaro pubblico per sostenere l’industria dei combustibili fossili e a investire invece in una ripresa giusta e sostenibile.
“L’Italia continua a sovvenzionare l’industria dei combustibili fossili anche quando prende cattive decisioni che danneggiano le persone e il pianeta”, ha detto Kate De Angelis, analista di politica internazionale di Friends of the Earth USA. “I progetti per gas e petrolio stanno già peggiorando la crisi COVID-19, generando inquinamento atmosferico che peggiora l’impatto della malattia”, ha sottolineato la De Angelis.
Utilizzando il database di Oil Change International’s Shift the Subsidies, il rapporto analizza il supporto proveniente dalle agenzie di credito all’esportazione (ECA) e dalle istituzioni finanziarie pubbliche per lo sviluppo (DFI), così come dalle banche di sviluppo multilaterali (MDB) che i paesi del G20 controllano. Nel conteggio, non sono inclusi i sussidi diretti per l’industria estrattiva attraverso sgravi o agevolazioni fiscali, che sono stimati in 80 miliardi di dollari in più l’anno.
L’Italia è passata da un +1,4 miliardi l’anno per il petrolio e il gas prima dell’Accordo di Parigi a un +2,3 miliardi di euro dopo l’intesa stipulata nella capitale francese, a dimostrazione che le istituzioni finanziarie pubbliche italiane sono ben lungi dal destinare i loro finanziamenti a quanto necessario per limitare l’innalzamento della temperatura globale a 1,5°C.
Le agenzie di credito all’esportazione (ECA) sono state i peggiori attori della finanza pubblica, dal momento che sostengono petrolio, gas e carbone 14 volte di più rispetto alle rinnovabili – sul fronte italiano questa cifra riguarda Sace, tornata alla cronaca in queste settimane per il caso FCA, e ammonta a ben due miliardi di euro l’anno.
“Sace dovrebbe essere uno dei veicoli di supporto alla transizione verso un modello economico e produttivo a basse emissioni, ma anche vettore di una redistribuzione della ricchezza  e non di ulteriore accentramento, tanto più nella fase di recessione ampliata dalla crisi COVID19” ha detto Antonio Tricarico di Re:Common, associazione  che ha co-pubblicato il rapporto e che da anni monitora l’operato di Sace e le violazioni sull’ambiente ma anche sui diritti umani associate alle operazioni che l’istituzione garantisce. “Vedere dati alla mano quanto Sace sia legata ai colossi dell’energia fossile ci fa capire che il problema è ben più grande di FCA ed forse è arrivato il momento di affrontarlo in maniera sistemica” ha aggiunto Tricarico.
La maggior parte dei finanziamenti a sostegno dell’industria fossile sono confluiti verso i paesi più ricchi. Nove dei primi quindici beneficiari erano paesi ad alto o medio-alto reddito, secondo le classificazioni della Banca Mondiale.
“Le compagnie di carburante fossile sanno che i loro giorni sono contati. I loro lobbisti stanno usando la crisi COVID-19 come copertura per raddoppiare i loro sforzi per assicurarsi i nuovi e massicci aiuti governativi di cui hanno bisogno per sopravvivere”, ha detto Bronwen Tucker, analista di ricerca presso Oil Change International. Secondo gli autori del rapporto, il denaro del governo deve invece sostenere una giusta transizione dai combustibili fossili che protegga i lavoratori, le comunità e il clima – sia in patria che al di fuori dei loro confini – per costruire un futuro più resiliente. Insomma, invece di finanziare un’altra grande crisi – il cambiamento climatico – i nostri governi dovrebbero investire nel futuro. Si comporteranno di conseguenza?

fonte: https://www.recommon.org



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Greenpeace e RE:Common contro UniCredit: «Negli ultimi tre anni oltre 6 miliardi di euro di finanziamenti al carbone»

Ogni nuova centrale che entra in funzione ci allontana da quanto ci chiede la scienza, ovvero di spegnere entro il 2030 l'80% di quelle attive


















Alla vigilia dell’assemblea dei soci di UniCredit, Re:Common e Greenpeace evidenziano come «la banca continui a prestare miliardi al comparto del carbone, ignorando gli appelli delle Nazioni Unite e della scienza». Le due organizzazioni ricordano che «In Europa, il 45% delle emissioni da carbone è responsabilità di sole cinque società: RWE (Germania), PGE (Polonia), EPH (Repubblica Ceca), Fortum-Uniper (Finlandia-Germania), CEZ (Repubblica Ceca). Dalle ricerche effettuate dalle due organizzazioni ambientaliste emerge come, dal 2016 al 2019, UniCredit abbia finanziato questi grandi inquinatori con 6 miliardi di euro. Il carbone è responsabile di circa la metà delle emissioni legate ai combustibili fossili e si stima che ogni anno provochi la morte prematura di oltre 16 mila persone in Europa, a causa delle sostanze tossiche come mercurio e polveri sottili che provengono dalle ciminiere delle centrali. I costi sanitari addebitabili all’uso di questa fonte fossile ammontano invece a circa 45 miliardi di euro, interamente scaricati sul pubblico».
Secondo Greenpeace e Re:Common, il principale beneficiario dei finanziamenti dati da UniCredit al carbone, con 4,7 miliardi di euro, è il colosso finlandese-tedesco Fortum-Uniper e denunciano che «Non solo Fortum-Uniper ha intenzione di completare una nuova centrale a carbone in Germania, Datteln 4, in aperta contraddizione con quanto richiesto dalle Nazioni Unite, ma ha anche minacciato di fare causa al governo dei Paesi Bassi, dal momento che quest’ultimo ha approvato una legge che prevede il phase-out dal carbone entro il 2030. Un’azione intimidatoria che non ha precedenti in Europa».
Per quanto riguarda i Paesi extra-Ue, Unicredit è il primo finanziatore straniero del carbone in Turchia, terzo Paese al mondo, dopo Cina e India, per piani di espansione di questo combustibile fossile.
Alessandro Runci, di Re:Common, sottolinea che «UniCredit si definisce sostenibile, ma rimane tra i primi finanziatori del carbone in Europa. L’emergenza climatica non si combatte con la retorica, UniCredit deve smettere di prestare miliardi a chi costruisce nuove centrali e miniere, e deve iniziare subito».
Le due organizzazioni fanno però anche notare che «Lo scorso novembre, UniCredit ha compiuto un primo passo cessando l’erogazione di prestiti diretti (project finance) per la costruzione di nuove centrali e miniere a carbone. L’impatto di questa restrizione è però vanificato dal fatto che il gruppo bancario continua a finanziare le società che intendono realizzare questi impianti. Altre istituzioni finanziarie come Axa e Credit Agricole hanno introdotto policy molto più rigide di quella di UniCredit, vietando qualsiasi finanziamento a società che vorrebbero costruire nuove centrali e impegnandosi ad azzerare la loro esposizione al carbone entro il 2030 in Europa». Per Greenpeace e Re:Common, «Unicredit dovrebbe seguire questo esempio invece di restare aggrappata al passato».
Luca Iacoboni di Greenpeace Italia, conclude: «Ogni nuova centrale che entra in funzione ci allontana da quanto ci chiede la scienza, ovvero di spegnere entro il 2030 l’80 per cento di quelle attive sul Pianeta per avere una chance di limitare l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi Centigradi. Nonostante questo, al momento è in programma la costruzione di altre mille centrali in tutto il mondo, il che vanificherebbe ogni sforzo fatto finora. L’unico modo per disinnescare queste bombe climatiche è smettere di finanziare chi le sta realizzando. È tempo che UniCredit lo faccia».
fonte: www.greenerport.it

Il carbone è un pessimo affare ma qualcuno ancora fatica a capirlo

Le centrali a carbone europee non sono solo inquinanti ma neppure convenienti. Secondo gli analisti di Carbon Tracker, nell’Unione europea quattro impianti su cinque registrano perdite che nel 2019 potrebbero ammontare a 6,6 miliardi di euro. La Germania è tra i Paesi più esposti. Fuori dall’Ue c’è la Turchia, dove Unicredit ha finanziato l’acquisto di centrali altamente inquinanti

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Le centrali a carbone europee non sono solo inquinanti, ma non hanno ormai perso anche la loro convenienza economica. Anzi, come racconta l’ultimo rapporto di Carbon Tracker, “Apocoalypse Now”, all’interno dei confini dell’Unione europea quattro impianti su cinque non garantiscono profitti ma perdite che, secondo le stime degli analisti del think tank finanziario, per il solo 2019 potrebbero ammontare a 6,6 miliardi di euro.

Il phase out della polvere nera è già cominciato, visto che rispetto al 2018 la produzione di carbone è diminuita del 39 per cento, quella della lignite del 20. Carbon Tracker ha calcolato che l’84 per cento della generazione di lignite e il 76 per cento della produzione di carbone fa registrare una passività: tra utili e perdite, il saldo è negativo di 3,54 miliardi per la lignite e di 3,03 miliardi per il carbone. Il Paese con i conti maggiormente in rosso è la Germania, che però ha fissato nel lontano 2038 la chiusura definitiva di tutti i suoi impianti. Gli utili più ingenti sono registrati in Polonia, dove lo Stato sovvenziona in maniera massiccia il comparto, da cui deriva circa l’80 per cento del mix energetico nazionale, e la prospettiva è continuare a dipendere dal carbone almeno fino a metà del secolo corrente. Val la pena ricordare che, dopo una lunga campagna di pressione promossa tra gli altri da Greenpeace e Re:Common, nel 2018 Generali ha deciso di non fornire più coperture assicurative per la costruzione di nuove centrali e miniere di carbone in Polonia. Tuttavia, il Leone di Trieste continua ad assicurare le centrali già esistenti e la società che le gestisce, PGE. Lo stesso è accaduto in Repubblica Ceca -dove il carbone conta per il 43 per cento nel mix energetico- con la CEZ.

Se valichiamo i limiti dell’Unione europea, ci imbattiamo in un altro Paese dove il carbone è ancora una “fonte privilegiata” nonostante le pessime ricadute finanziarie e dove c’è un grosso player italiano coinvolto. Parliamo, rispettivamente, di Turchia e UniCredit.

La banca italiana, infatti, ha finanziato IC Ictas, Limak e Bereket Enerji per acquisire le centrali altamente inquinanti di Yenikoy, Kemerkoy e Yatagan nella regione di Mugla, vicino Bodrum, rinomata destinazione turistica nel Sud-Ovest del Paese. La deroga dovrebbe scadere a fine anno, se il governo guidato da Recep Erdogan, che ha promosso uno sfruttamento intensivo delle miniere di lignite che alimentano gli impianti, non la rinnoverà con un decreto blitz di fine anno. Altrimenti per adeguarsi ai limiti sulle emissioni le società dovranno fare grossi investimenti per il retrofit degli impianti; ma le banche turche sono allo sbando e non ce la fanno più a prestare su ordine politico a società economicamente non redditizie, ma vicine al partito di governo.

Questo il caso della Bereket, ormai sull’orlo del fallimento, a dar retta agli analisti di Bloomberg. Quindi senza esenzioni il futuro degli impianti potrebbe essere nelle mani di banche straniere, come la UniCredit, anche se in Turchia le perdite della banca sono già elevate al punto che si ventila una riduzione della presenza nel paese con la riorganizzazione dell’intero gruppo attesa per dicembre.
 Insomma, il carbone è un pessimo affare, ma in tanti fanno ancora fatica a capirlo.

fonte: Re:Common

Lo sciopero del clima ai Caraibi

















Re:Common ha sostenuto lo sciopero per il clima promosso a livello mondiale dai movimenti di giovani del Fridays for future partecipando alla manifestazione a Santo Domingo, in Repubblica Dominicana. Migliaia di studenti scendono in piazza in varie città del paese caribico chiedendo che il governo dominicano cambi drasticamente rotta sullo sviluppo dell’estrazione ed il consumo di combustibili fossili.
Proprio i Caraibi sono tra le aree del pianeta che sono e saranno maggiormente impattate dai cambiamenti climatici, come dimostra il recente uragano Dorian, la cui violenza senza precedenti ha devastato in un giorno le Bahamas.
Re:Common è attiva da tempo nel paese in solidarietà con i movimenti sociali e le organizzazioni della società civile che si oppongono su diversi fronti all’economia fossile. Re:Common è denunciante presso la Procura di Milano sul caso di corruzione internazionale che sembra aver caratterizzato la realizzazione della centrale a carbone di Punta Catalina (a questo link l’inchiesta sul sito de L’Espresso), a 60 chilometri da Santo Domingo, da parte di un consorzio guidato dalla brasiliana Odebrecht e che include l’italiana Tecnimont.
Nel 2016, l’impresa brasiliana ha patteggiato una sanzione rilevante (3,5 miliardi di dollari) con le autorità brasiliane e statunitensi ed in parte con quelle dominicane. Punta Catalina rappresenta uno sperpero di denaro pubblico, visto che il conto finale potrebbe superare i 3 miliardi di dollari per soli 750 MW di potenza a carbone, il tutto segnato da enormi ritardi e difficoltà. Ad oggi solo la prima unità dell’impianto è stata inaugurata e funziona a singhiozzo per problemi tecnici. Una centrale a carbone che mette al rischio con le sue emissioni altamente inquinanti le colture biologiche di mango del paese, il turismo e la salute delle comunità locali.
Banche europee, tra cui UniCredit, garantite dalla agenzia di credito all’esportazione italiana Sace, hanno smesso di finanziare l’opera con nuovi esborsi in seguito allo scandalo internazionale di corruzione e resta da vedere se ritireranno i prestiti già erogati. Se completata la centrale di Punta Catalina emetterà più di 6 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno pari al 20 per cento delle attuali emissioni di gas clima alteranti del paese.
Ma i piani di devastazione del paradiso caraibico dominicano e del clima da parte del governo locale e delle multinazionali fossili non si fermano a Punta Catalina. La scorsa estate l’esecutivo di Santo Domingo ha aperto una gara internazionale per l’aggiudicazione di licenze petrolifere per lo sfruttamento di risorse ad oggi intoccate in 10 blocchi onshore e 4 offshore, quest’ultimi proprio di fronte alla capitale. Ignorando il disastro ambientale causato dalla piattaforma Deepwater Horizon della BP nello stesso golfo del Messico alcuni anni fa, il governo dominicano vuole gettarsi nel business del petrolio e gas, dimenticando che ha preso un impegno con la comunità internazionale di ridurre le proprie emissioni di gas serra del 25 per cento entro il 2030 secondo il dettame dell’Accordo di Parigi. Una follia, a cui 29 società petrolifere internazionali, compresa l’italiana Eni[1], sembrano interessate vista la loro partecipazione alla pre-selezione nella gara internazionale.
I giovani di Santo Domingo nella loro lotta per la salvezza del clima si intrecciano al movimento popolare della Marcia Verde, che nacque nel paese proprio dopo lo scandalo Odebrecht a Punta Catalina ed in diverse occasioni hanno marciato con numeri imponenti chiedendo le dimissioni del Presidente Danilo Medina. Oggi la lotta si allarga e un movimento più forte ed incisivo potrebbe mettersi di traverso ai piani di rendere la Repubblica Dominica l’ennesimo inferno dell’economia fossile.
fonte: https://comune-info.net/

Le assicurazioni che investono (ancora) nel carbone. Il caso Generali in Polonia

Il colosso italiano ha un ruolo di primo piano nella copertura assicurativa delle più importanti centrali a carbone polacche, tra le più inquinanti d’Europa. È quanto rivela “Dirty Business”, report lanciato dalla rete internazionale Unfriend Coal, di cui fanno parte anche Greenpeace e Re:Common


















C’è un Paese in Europa che invece di dismetterlo, sta aumentando l’estrazione e l’impiego del carbone come fonte energetica: è la Polonia. Ci sono delle assicurazioni senza le quali lo sviluppo di progetti così inquinanti non sarebbe possibile, o lo sarebbe solo in parte; tra queste compagnie c’è pure l’italiana Generali. Questo corto-circuito ambientale ce lo racconta Dirty Business, la nuova pubblicazione della rete internazionale Unfriend Coal, di cui fanno parte tra gli altri Greenpeace e Re:Common, partendo da un dato quanto mai significativo: dal 2013 le assicurazioni hanno sottoscritto almeno 21 contratti di copertura dei rischi (Generali ne ha siglati otto) e investito fondi per 1,3 miliardi di euro.
In Polonia si brucia sia antracite sia lignite, quest’ultima è la tipologia di carbone più inquinante, impiegata nelle centrali di Ze Pak, Bełchatów e Turów. A pochi chilometri dai confini con Germania e Repubblica Ceca, Turów usa 7,5 milioni di tonnellate di carbone l’anno. E se l’Unione europea ha in programma di decretare lo stop definitivo al carbone entro il 2030, val la pena ricordare che la centrale continuerà a inquinare almeno fino al 2044, sempre che i suoi gestori non siano costretti a cambiare idea prima. Come è facile immaginare, la centrale di Turów ha pesanti impatti transfrontalieri, in primis sulla qualità dell’acqua potabile di ben 30mila persone.
Il Leone di Trieste, insieme a AEGON, Allianz, Aviva, Nationale Nederlenden e AXA possiede l’8,6% della PGE. La principale compagnia energetica polacca ha in programma di aumentare di 5 GigaWatt la produzione legata al carbone. L’impianto di Opole, che già emette 5,8 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, passerà così da 1.532 a oltre 3.000 MegaWatt. Altri 5 GigaWatt saranno sviluppati da altre aziende locali. Ammonta invece a 2,2 miliardi di tonnellate il totale della lignite che sarà estratta da nuove miniere a cielo aperto.
Tra le molte cifre menzionate in Dirty Business, una lascia esterrefatti: 5.830 morti premature dovute alla polvere nera tra Polonia e paesi vicini. La stima, per difetto, è stata redatta nel 2016 dal WWF e da altre associazioni ambientaliste. Ma a fronte di tutte queste indicazioni così esplicative, il governo e le imprese polacche tirano dritte per la loro strada, di fatto minando “preventivamente” i risultati della 24esima Conferenza delle Parti sul Clima (COP24), che si terrà il prossimo dicembre a Katowice, a una centinaio di chilometri di distanza dalla centrale di Opole. “Con i suoi programmi così aggressivi, il comparto carbonifero polacco sta compromettendo gli sforzi globali per combattere i cambiamenti limatici”, lancia il grido di allarme Kuba Gogolewski della Ong polacca “Sì allo Sviluppo No alle Miniere”. “Le compagnie che lo assicurano e finanziano non si possono più nascondere, devono agire in maniera decisa e rivedere i loro piani se vogliono preservare la loro reputazione”, aggiunge Gogolewski.
In realtà qualcosa nel ramo delle assicurazioni si sta iniziando a smuovere. Axa, Zurich e SCOR hanno già annunciato una serie di restrizioni di carattere “ambientale” in merito alla sottoscrizione di nuove polizze. Swiss Re dovrebbe fare lo stesso a breve. Le già citate società sono inoltre tra le 15 che hanno disinvestito per 16 miliardi di euro dall’industria del carbone. Evidentemente i conti salatissimi da pagare a causa dei disastri naturali legati al surriscaldamento globale stanno iniziando ad avere un impatto sui consigli direttivi delle grandi assicurazioni globali. E Generali che cosa fa? Per ora non sembra voler seguire l’esempio virtuoso di grossi competitor come Axa e Zurich. Ma chissà se una accurata lettura di Dirty Business non possa far cambiar idea al management del Leone di Trieste.

fonte: https://altreconomia.it/