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Solo un pensionamento anticipato delle centrali fossili salverà il clima

Un nuovo studio mostra come raggiungere gli obiettivi climatici globali richiederà lo spegnimento di impianti a carbone e gas da 10 a 30 anni prima della loro fine programmata.



Gli scienziati climatici non hanno dubbi: per limitare l’aumento delle temperature terrestri sotto i 2°C, le emissioni antropiche di gas serra devono essere azzerate entro la metà del secolo. Un obiettivo preciso, messo a dura prova nella realtà da diversi fattori. Primo fra tutti il peso di carbone e gas nel settore energetico. Le centrali fossili sono longeve: hanno una vita compresa tra i 36 e 40 anni e quasi nessun proprietario è intenzionato a spegnerle prima della fine “naturale”. Al contrario, in molti casi il settore sta addirittura progettando nuovi impianti.

Eppure se davvero vogliamo salvare il clima e il futuro stesso dell’umanità, sarà necessario ricorrere al pensionamento anticipato delle centrali fossili. A sostenerlo è oggi uno studio, pubblicato su Environmental Research Letters (testo in inglese). La ricerca ha analizzato la flotta di centrali termoelettriche attiva a livello mondiale, calcolando le emissioni in eccesso rispetto tre obiettivi di riscaldamento globale: +1,5°C, +2°C e +3°C. Le conclusioni non lasciano spazio a interpretazioni: secondo gli autori questi impianti dovranno essere spenti 10-30 anni prima della loro vita utile.

In caso contrario dovremo gestire un surplus di emissioni, collegato a queste centrali fossili, incompatibile con la lotta climatica. Rispetto al target del +1,5°C ci troveremo con circa 220 miliardi di tonnellate di CO2 in più.

Il contributo sarebbe particolarmente marcato in Cina. Il Paese possiede la metà degli impianti termoelettrici a carbone esistenti al mondo e la maggior parte ha meno di 15 anni. Va decisamente meglio in Europa, dove il programma di decarbonizzazione è già un passo avanti e molti Stati membri hanno definito, almeno per il carbone, una data di addio .

“Gli sforzi internazionali per evitare pericolosi cambiamenti climatici mirano a riduzioni ampie e rapide delle emissioni di CO2 da combustibili fossili in tutto il mondo, compresa la quasi completa decarbonizzazione del settore elettrico”, scrivono i ricercatori. “Tuttavia, conseguire riduzioni così rapide può dipendere dal pensionamento anticipato delle centrali elettriche a carbone e a gas naturale”.

fonte: www.rinnovabili.it


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Greenpeace e RE:Common contro UniCredit: «Negli ultimi tre anni oltre 6 miliardi di euro di finanziamenti al carbone»

Ogni nuova centrale che entra in funzione ci allontana da quanto ci chiede la scienza, ovvero di spegnere entro il 2030 l'80% di quelle attive


















Alla vigilia dell’assemblea dei soci di UniCredit, Re:Common e Greenpeace evidenziano come «la banca continui a prestare miliardi al comparto del carbone, ignorando gli appelli delle Nazioni Unite e della scienza». Le due organizzazioni ricordano che «In Europa, il 45% delle emissioni da carbone è responsabilità di sole cinque società: RWE (Germania), PGE (Polonia), EPH (Repubblica Ceca), Fortum-Uniper (Finlandia-Germania), CEZ (Repubblica Ceca). Dalle ricerche effettuate dalle due organizzazioni ambientaliste emerge come, dal 2016 al 2019, UniCredit abbia finanziato questi grandi inquinatori con 6 miliardi di euro. Il carbone è responsabile di circa la metà delle emissioni legate ai combustibili fossili e si stima che ogni anno provochi la morte prematura di oltre 16 mila persone in Europa, a causa delle sostanze tossiche come mercurio e polveri sottili che provengono dalle ciminiere delle centrali. I costi sanitari addebitabili all’uso di questa fonte fossile ammontano invece a circa 45 miliardi di euro, interamente scaricati sul pubblico».
Secondo Greenpeace e Re:Common, il principale beneficiario dei finanziamenti dati da UniCredit al carbone, con 4,7 miliardi di euro, è il colosso finlandese-tedesco Fortum-Uniper e denunciano che «Non solo Fortum-Uniper ha intenzione di completare una nuova centrale a carbone in Germania, Datteln 4, in aperta contraddizione con quanto richiesto dalle Nazioni Unite, ma ha anche minacciato di fare causa al governo dei Paesi Bassi, dal momento che quest’ultimo ha approvato una legge che prevede il phase-out dal carbone entro il 2030. Un’azione intimidatoria che non ha precedenti in Europa».
Per quanto riguarda i Paesi extra-Ue, Unicredit è il primo finanziatore straniero del carbone in Turchia, terzo Paese al mondo, dopo Cina e India, per piani di espansione di questo combustibile fossile.
Alessandro Runci, di Re:Common, sottolinea che «UniCredit si definisce sostenibile, ma rimane tra i primi finanziatori del carbone in Europa. L’emergenza climatica non si combatte con la retorica, UniCredit deve smettere di prestare miliardi a chi costruisce nuove centrali e miniere, e deve iniziare subito».
Le due organizzazioni fanno però anche notare che «Lo scorso novembre, UniCredit ha compiuto un primo passo cessando l’erogazione di prestiti diretti (project finance) per la costruzione di nuove centrali e miniere a carbone. L’impatto di questa restrizione è però vanificato dal fatto che il gruppo bancario continua a finanziare le società che intendono realizzare questi impianti. Altre istituzioni finanziarie come Axa e Credit Agricole hanno introdotto policy molto più rigide di quella di UniCredit, vietando qualsiasi finanziamento a società che vorrebbero costruire nuove centrali e impegnandosi ad azzerare la loro esposizione al carbone entro il 2030 in Europa». Per Greenpeace e Re:Common, «Unicredit dovrebbe seguire questo esempio invece di restare aggrappata al passato».
Luca Iacoboni di Greenpeace Italia, conclude: «Ogni nuova centrale che entra in funzione ci allontana da quanto ci chiede la scienza, ovvero di spegnere entro il 2030 l’80 per cento di quelle attive sul Pianeta per avere una chance di limitare l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi Centigradi. Nonostante questo, al momento è in programma la costruzione di altre mille centrali in tutto il mondo, il che vanificherebbe ogni sforzo fatto finora. L’unico modo per disinnescare queste bombe climatiche è smettere di finanziare chi le sta realizzando. È tempo che UniCredit lo faccia».
fonte: www.greenerport.it

Gli investitori del carbone rischiano di bruciare 600 miliardi di dollari

Le motivazioni in uno studio di Carbon Tracker che rileva come eolico e fotovoltaico siano già oggi più competitivi del carbone in quasi tutti i maggiori mercati energetici.

















La transizione energetica verso le rinnovabili va perseguita non solo per ragioni climatiche ma anche economiche e finanziarie.
Il messaggio è indirizzato agli investitori che puntano ancora sul carbone e che rischiano di bruciare oltre 600 miliardi di dollari, ma anche ai governi.
Ciò è legato al fatto che la costruzione di nuovi impianti eolici e fotovoltaici sarà presto più conveniente che non continuare a gestire centrali a carbone. Un dato che si riscontrerà in tutti i principali mercati del mondo.
Questa è la conclusione cui è giunto How to Waste Over Half a Trillion Dollars (Come sprecare oltre mezzo trilione di dollari), un nuovo rapporto della Carbon Tracker Initiative, centro studi internazionale specializzato in finanza climatica.
Si sapeva che le principali fonti rinnovabili fossero più competitive del carbone in alcuni paesi baciati dal sole o dal vento, come l’Italia, ma quello che l’analisi di Carbon Tracker in un certo senso “certifica” è che fotovoltaico ed eolico sono già diventate o stanno diventando opzioni più economiche rispetto alla costruzione di nuove centrali a carbone in tutti i grandi mercati mondiali, inclusa Cina e Australia, i due paesi in cui probabilmente più di tutti gli altri la produzione e l’uso del carbone sono ancora molto diffusi.
E si prevede che l’elettricità verde costerà meno di quella prodotta dalle centrali a carbone esistenti al più tardi entro il 2030, ha indicato Carbon Tracker nel suo rapporto, scaricabile dal link in fondo all’articolo.
L’energia fotovoltaica ed eolica, infatti, è già oggi più a buon mercato dell’elettricità proveniente da circa il 60% delle centrali a carbone, compreso circa il 70% di quelle cinesi e la metà delle centrali australiane, come si può vedere nell’illustrazione.
In pratica, le centrali a carbone avranno difficoltà a resistere, in assenza di sussidi governativi e in un contesto di mercato dove il prezzo dell’energia sia basato su normali dinamiche di domanda e offerta.
Carbon Tracker ha quindi invitato governi e investitori a bloccare i nuovi investimenti nel carbone e a dismettere le centrali esistenti, in parte modificando anche le regolamentazioni, in modo da consentire alle energie rinnovabili di competere su un piano di parità di mercato.
Secondo Matt Gray, co-autore del rapporto di Carbon Tracker, gli investimenti in carbone rischiano di incagliarsi e rimanere bloccati in maniera improduttiva, buttando al vento per sempre risorse che potrebbero essere spese molto meglio in altro modo.
Sono in gioco cifre enormi: l’analisi ha infatti rilevato che gli investitori rischiano di sprecare più di 600 miliardi di dollari se tutti gli impianti a carbone programmati venissero costruiti.
Per quanto riguarda l’uso del carbone, l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) ha riscontrato un calo lo scorso anno, ma ha previsto un leggero aumento nei prossimi cinque anni a causa dell’aumento della domanda dall’India.
Come spiegato in un altro articolo, l’elettricità generata con il carbone è scesa di circa il 3% nel 2019, registrando il calo maggiore in oltre 40 anni di crescita quasi ininterrotta, in cui il carbone è stato una delle cause prime della crisi climatica.
fonte: www.qualenergia.it

Il carbone è un pessimo affare ma qualcuno ancora fatica a capirlo

Le centrali a carbone europee non sono solo inquinanti ma neppure convenienti. Secondo gli analisti di Carbon Tracker, nell’Unione europea quattro impianti su cinque registrano perdite che nel 2019 potrebbero ammontare a 6,6 miliardi di euro. La Germania è tra i Paesi più esposti. Fuori dall’Ue c’è la Turchia, dove Unicredit ha finanziato l’acquisto di centrali altamente inquinanti

© FN LN - Unsplash


Le centrali a carbone europee non sono solo inquinanti, ma non hanno ormai perso anche la loro convenienza economica. Anzi, come racconta l’ultimo rapporto di Carbon Tracker, “Apocoalypse Now”, all’interno dei confini dell’Unione europea quattro impianti su cinque non garantiscono profitti ma perdite che, secondo le stime degli analisti del think tank finanziario, per il solo 2019 potrebbero ammontare a 6,6 miliardi di euro.

Il phase out della polvere nera è già cominciato, visto che rispetto al 2018 la produzione di carbone è diminuita del 39 per cento, quella della lignite del 20. Carbon Tracker ha calcolato che l’84 per cento della generazione di lignite e il 76 per cento della produzione di carbone fa registrare una passività: tra utili e perdite, il saldo è negativo di 3,54 miliardi per la lignite e di 3,03 miliardi per il carbone. Il Paese con i conti maggiormente in rosso è la Germania, che però ha fissato nel lontano 2038 la chiusura definitiva di tutti i suoi impianti. Gli utili più ingenti sono registrati in Polonia, dove lo Stato sovvenziona in maniera massiccia il comparto, da cui deriva circa l’80 per cento del mix energetico nazionale, e la prospettiva è continuare a dipendere dal carbone almeno fino a metà del secolo corrente. Val la pena ricordare che, dopo una lunga campagna di pressione promossa tra gli altri da Greenpeace e Re:Common, nel 2018 Generali ha deciso di non fornire più coperture assicurative per la costruzione di nuove centrali e miniere di carbone in Polonia. Tuttavia, il Leone di Trieste continua ad assicurare le centrali già esistenti e la società che le gestisce, PGE. Lo stesso è accaduto in Repubblica Ceca -dove il carbone conta per il 43 per cento nel mix energetico- con la CEZ.

Se valichiamo i limiti dell’Unione europea, ci imbattiamo in un altro Paese dove il carbone è ancora una “fonte privilegiata” nonostante le pessime ricadute finanziarie e dove c’è un grosso player italiano coinvolto. Parliamo, rispettivamente, di Turchia e UniCredit.

La banca italiana, infatti, ha finanziato IC Ictas, Limak e Bereket Enerji per acquisire le centrali altamente inquinanti di Yenikoy, Kemerkoy e Yatagan nella regione di Mugla, vicino Bodrum, rinomata destinazione turistica nel Sud-Ovest del Paese. La deroga dovrebbe scadere a fine anno, se il governo guidato da Recep Erdogan, che ha promosso uno sfruttamento intensivo delle miniere di lignite che alimentano gli impianti, non la rinnoverà con un decreto blitz di fine anno. Altrimenti per adeguarsi ai limiti sulle emissioni le società dovranno fare grossi investimenti per il retrofit degli impianti; ma le banche turche sono allo sbando e non ce la fanno più a prestare su ordine politico a società economicamente non redditizie, ma vicine al partito di governo.

Questo il caso della Bereket, ormai sull’orlo del fallimento, a dar retta agli analisti di Bloomberg. Quindi senza esenzioni il futuro degli impianti potrebbe essere nelle mani di banche straniere, come la UniCredit, anche se in Turchia le perdite della banca sono già elevate al punto che si ventila una riduzione della presenza nel paese con la riorganizzazione dell’intero gruppo attesa per dicembre.
 Insomma, il carbone è un pessimo affare, ma in tanti fanno ancora fatica a capirlo.

fonte: Re:Common

In Germania centrali a carbone che diventano batterie

Il centro aerospaziale tedesco sta lavorando al primo progetto pilota per convertire vecchi impianti fossili in sistemi di accumulo termico con cui bilanciare la rete.




















Grandissimi serbatoi riempiti con sali fusi per stoccare energia sotto forma di calore, in modo da garantire quella continuità delle forniture che è la principale incognita di un futuro mix elettrico alimentato in massima parte dalle fonti rinnovabili.
Con il vantaggio di riutilizzare macchinari e infrastrutture esistenti delle centrali a carbone/lignite: l’idea di trasformare ex impianti fossili in sistemi di accumulo termico di lunga durata è del centro aerospaziale tedesco (DLR), che tra le sue specializzazioni annovera diversi studi in campo energetico, con particolare attenzione alle soluzioni e tecnologie per ridurre la dipendenza dai carburanti tradizionali.
In una recente nota sulle principali attività programmate per il 2019, si parla del ruolo decisivo per lo stoccaggio di energia termica.
Il problema è noto: come far funzionare una rete elettrica rinunciando non solo al nucleare, ma anche alle risorse più inquinanti, come punta a fare la Germania nel 2038 al più tardi, quando avrà definitivamente azzerato la generazione di elettricità a carbone (se Berlino seguirà appieno le raccomandazioni della commissione speciale incaricata di elaborare una coal exitvedi qui).
Le rinnovabili stanno già producendo livelli particolarmente elevati di TWh in Germania: nel 2018 hanno eguagliato il contributo complessivo di carbone e lignite, mentre nella prima metà di marzo, secondo i dati preliminari del Fraunhofer ISE, sono balzate al 63% del mix elettrico grazie soprattutto all’output dei parchi eolici a terra e offshore, come riassume il grafico sotto.
Ma per affidarsi stabilmente alle rinnovabili, la cui produzione varia molto durante l’anno, in base alle condizioni meteorologiche, bisognerà intervenire su due fronti: potenziare le reti di trasmissione-distribuzione e installare accumulatori per fronteggiare i periodi di scarsa ventositàe/o scarso irraggiamento solare.
Tra l’altro, l’uscita dal carbone pone altre incognite, ad esempio come sorreggere l’economia delle regioni minerarie e come reimpiegare migliaia di lavoratori.
Ecco perché il DLR sta lavorando a un progetto pilota di taglia industriale per convertire ex unità a carbone in centrali di accumulo termico; in tre anni, come riporta un’analisi di GTM Research sull’argomento, un simile impianto potrebbe essere operativo.
In sintesi, il sistema di accumulo è una batteria di Carnot, che consente di sfruttare il surplus elettrico delle fonti rinnovabili; in pratica, converte l’elettricità in calore a elevata temperatura(500 gradi centigradi) tramite una pompa di calore, stoccando l’energia termica in serbatoi coibentati, pieni di sali fusi.
Quando c’è bisogno di energia elettrica, il sistema converte il calore in elettricità con un processo di generazione termica; va detto, citando l’analisi di GTM Research, che l’efficienza complessiva è intorno al 40% (si pensa però di raggiungere il 60% impiegando pompe di calore con un rendimento maggiore), quindi il “gioco” si regge solo grazie alla possibilità di riutilizzare impianti esistenti e grazie alla disponibilità di energia eccedente che altrimenti andrebbe persa/sprecata.
In teoria, convertendo diversi impianti a carbone in batterie di questo tipo, la rete elettrica potrebbe contare su decine di GWh di capacità di accumulo; una soluzione che potrebbe quindi affiancare lo storage di più breve durata con le installazioni di batterie al litio.
fonte: https://www.qualenergia.it

Greenpeace: in Europa 58 miliardi di finanziamenti a carbone, gas e nucleare “spenti”

Con il “capacity payment” vengono sovvenzionate vecchie centrali tenute in stand-by in caso di necessità, nonostante la capacità elettrica installata nell’Ue sia ben superiore alla domanda. Alle rinnovabili rimangono le briciole e i prezzi dei combustibili fossili rimangono bassi
















Una bolletta da 58 miliardi euro per i cittadini europei. Ecco a quanto ammonterebbe la quota di sussidi governativi elargiti alle aziende energetiche per mantenere in vita centrali a carbone, gas e nucleare. È quanto fa sapere Greenpeace, dopo aver analizzato i dati pubblici forniti dai vari operatori nazionali relativi ai meccanismi di capacità, un tipo di finanziamento adottato in Europa per garantire la fornitura di elettricità ed evitare eventuali black-out. Il 98 per cento dei sussidi sarebbe destinato a carbone, gas e nucleare, mentre alle rinnovabili resterebbe solo lo 0,5 per cento. 

CAPACITY PAYMENT? NO, SUSSIDI 
I meccanismi di capacità sono stati adottati per mantenere in attività alcune centrali a carbone, a gas o elettriche che dovrebbero produrre energia elettrica in caso di necessità o di estremo aumento della domanda. Ma, secondo l’associazione ambientalista, si tratterebbe di vecchie centrali inquinanti e spesso incapaci di sopperire alla domanda energetica in caso di eventi estremi, come ondate di caldo o di freddo eccezionali. “Si tratta di soldi pubblici che per la maggior parte vengono dati a centrali che paghiamo per rimanere spente o comunque a minor regime e chiamarle in causa in caso di picchi di domanda o problemi di offerta”, spiega Luca Iacoboni, responsabile energia di Greenpeace Italia. “Di tutti i dati analizzati, in solo la metà dei casi siamo riusciti a sapere a quali fonti energetiche fossero indirizzati i sussidi. Per gli altri invece abbiamo trovato che il 66 per cento va la carbone, il 25 per cento al gas e il 4 per cento al nucleare”. 

PAGHIAMO LE CENTRALI A CARBONE PER RIMANERE SPENTE 
Ma, nella maggior parte dei casi, accade che le centrali non entrino mai in funzione, come nel Regno Unito dove sono stati spesi 200 milioni di euro in tre anni per non attivarle mai. “O come è accaduto in Bulgaria nel 2017 quando si chiese un surplus di produzione alle centrali elettriche a carbone per fornire elettricità, ma queste non poterono andare a regime a causa del congelamento dell’acqua necessaria a raffreddare le centrali”, continua Iacoboni. Non solo, anche la recente ondata di caldo estivo ha portato l’utility francese Edf a spegnere quattro reattori in tre centrali elettriche, l’azienda svedese Vattenfall a chiudere un reattore e le centrali nucleari in Finlandia, Germania e Svizzera a ridurre la quantità di energia prodotta.  

INCENTIVI NASCOSTI CHE PESANO SULLO SVILUPPO DELLE RINNOVABILI 
Secondo i dati raccolti, in vent’anni questo tipo di sussidi alle fossili sarebbero costati ai cittadini 32,2 miliardi di euro, mentre sarebbero 25,7 i miliardi già impegnati da qui fino al 2040. Ad oggi a godere della maggior parte dei finanziamenti è la Spagna, con 17,9 miliardi di euro in meccanismi di capacità, nonostante la nazione abbia una sovracapacità del 30 per cento. Seguono la Polonia, con 14,4 miliardi e il Belgio, con 6,5 miliardi. L’associazione sottolinea come nella maggior parte dei Paesi che utilizzano i meccanismi di capacità, i fondi vengano raccolti tramite una tassa “coperta” sulla bolletta dell’elettricità, distorcendo in maniera artificiale il mercato a favore delle fonti fossili, che altrimenti non potrebbero competere con le rinnovabili. “In Europa – conclude Iacoboni - si sta finalizzando una discussione intorno a questo tema. Parlamento e Commissione vogliono delle restrizioni e delle regole al sistema, limitandolo nel tempo e fornendo i sussidi solo a chi è in grado di emettere al di sotto dei 550g CO2/kWh, escludendo di fatto il carbone”. Un meccanismo questo che dimostra come alcune fonti fossili come il carbone siano in grado di sopravvivere solo se sovvenzionate tramite sussidi, che finiscono poi per gravare sulle nostre bollette. 

fonte: www.lastampa.it