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CorrieredellaSera - SensoCivico: Il cibo che serve (Roma) - Recup (Milano)



Sensocivico - CorrieredellaSera



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Le Iene: Le app che ci aiutano a evitare lo spreco alimentare (e risparmiare)

 








Ogni anno un terzo di tutto il cibo prodotto nel mondo viene sprecato: circa 1,6 miliardi di tonnellate. In Italia secondo le stime vengono buttati via 27 kg di cibo a persona all'anno. Un danno ambientale, oltre che economico. Per fortuna però ci sono delle app che ci aiutano a evitare lo spreco alimentare: ce ne parlano Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli. E ce n'è una che si sta facendo particolarmente notare: Too good to go



fonte: www.iene.mediaset.it


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Spreco alimentare: storie di inclusione e senso di comunità

 

Durante la pandemia gli italiani hanno cambiato abitudini alimentari. Hanno cucinato di più, mangiato più spesso a casa e riscoperto il rito del pranzo, tutti insieme, tutti i giorni. Secondo un sondaggio commissionato da Waste Watcher International Observatory on Food and Sustainability (rilevazione Ipsos), siamo stati più bravi e attenti in cucina. Nel 2020 abbiamo buttato via l’11,78 per cento di cibo in meno rispetto all’anno prima: 529 grammi a settimana.


Il numero in sé sembra incoraggiante ma le nostre abitudini raccontano una realtà diversa. Sempre secondo i dati Ipsos, infatti, nel 2020 abbiamo comprato troppo, calcolato male quello che ci serviva e lasciato deperire il cibo acquistato. Frutta e verdura sono gli alimenti che più di tutti sono finiti nei rifiuti insieme a due cibi simbolo del lockdown: il pane e la pizza.

Cresce, quindi, la consapevolezza degli italiani sul tema dello spreco alimentare. Si inizia a comprendere che ridurre le perdite significa un minore impatto ambientale e più cibo per tutti, soprattutto per chi in questa fase di emergenza sta pagando il prezzo più caro. Ma la strada è ancora lunga e le soluzioni che favoriscono un reale cambio di abitudini, cultura e mentalità, che vanno oltre la colletta alimentare e le ricette anti spreco, sono ancora poche. Ma esistono e funzionano.

Spreco alimentare: oltre la semplice beneficenza

In Italia è al Sud che si cucina di più, si mangia di più e si butta via di più. Nelle regioni meridionali finisce tra i rifiuti il 15 per cento del cibo, circa 600 grammi a settimana. Ma è anche l’area del paese che sta dimostrando maggiore sensibilità su questo tema.

Il Parlamento europeo ha chiesto l’impegno collettivo e immediato per combattere lo spreco alimentare. Ed è proprio come una grande azione collettiva che è partita da Bari la macchina di Avanzi Popolo 2.0 , associazione impegnata nella raccolta e distribuzione delle eccedenze alimentari alle persone bisognose e premiata nel 2019 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la sua lotta allo spreco alimentare.

“Siamo un piccolo gruppo di volontari attivi nel territorio barese. La nostra missione è combattere gli sprechi ma anche diffondere la cultura del food sharing. Chi in casa ha di più può metterlo a disposizione sulla nostra piattaforma online e riempire ceste virtuali da scambiare, da privato a privato” spiega Marco Costantino, volontario e tra gli ideatori del progetto. “Oltre alle ceste virtuali abbiamo creato anche una rete che fa dialogare i luoghi dello spreco con i luoghi del bisogno. Andiamo personalmente a ritirare le eccedenze nei ristoranti, nelle aziende agricole, nei forni e nelle pasticcerie e consegniamo tutto alle comunità locali che poi distribuiscono a chi ha più bisogno. Oppure, riempiamo i nostri “frigoriferi solidali” che abbiamo attivato in luoghi strategici e controllati della provincia barese. Sono aperti a tutti, chi ha bisogno porta via cibo che altrimenti verrebbe buttato via da un supermercato o da un bar”, continua Marco che ci tiene però a precisare che non si tratta di semplice beneficenza o carità. È un meccanismo virtuoso che attraverso il recupero del cibo crea contatti, legami, condivisione e rinforza il senso di appartenenza alla comunità. Le persone costruiscono relazioni, imparano buone pratiche quotidiane che creano valore e forme di scambio e dono.
La soluzione della porta accanto

“Mi piace ricordare il caso di una sala ricevimenti e di un centro diurno”, racconta Marco. Nessuna delle due sapeva dell’esistenza dell’altro, alla porta accanto. La sala ricevimenti aveva eccedenze di cibo proveniente da eventi e banchetti e non sapeva come recuperarli. Noi li abbiamo messi in contatto e da allora le due realtà vicine dialogano, comunicano e scambiano in modo autonomo. E questa è la soddisfazione più grande. Abbiamo scoperto che a nessuno di loro piaceva buttare via il cibo ma non avevano strumenti ed esempi per fare diversamente. Creare questa rete virtuosa sul territorio è una soluzione che fa bene a tutti e crea un forte senso di comunità, fa sentire tutti parte della soluzione”, continua Marco.

Diventare tutti beneficiari

Il progetto di Avanzi Popolo piace perché ha costruito una rete virtuosa che informa educa e stimola buone pratiche sul territorio e per questo ha incuriosito gruppi di volontari in altre città italiane che si stanno organizzando per replicarlo. “Lavoriamo bene con tante aziende e commercianti ma ancora facciamo molta fatica a fare comprendere ai singoli e alle famiglie che in casa abbiamo troppo e che consumare cibo del giorno prima o in scadenza non è motivo di vergogna ma deve essere la normalità. Questo è ancora un grande limite. Praticare il food sharing e diventare tutti beneficiari, e non solo donatori, dovrebbe essere un comportamento normale. Vediamo che qui c’è ancora molta resistenza su questo. Si compra e si produce ancora troppo cibo”, dice Marco.





Collaborazione e scambio interculturale

Collaborazione, educazione e coinvolgimento. Sembra essere questa la soluzione anche per Recup un progetto nato a Milano che agisce in 11 mercati rionali della città per combattere non soltanto lo spreco alimentare ma anche l’esclusione sociale. “A fine mercato un gruppo di volontari recupera il cibo dai commercianti che liberamente decidono di donare i prodotti che altrimenti butterebbero via. Il cibo recuperato viene raggruppato e ogni volontario sarà poi libero di prendere ciò che preferisce, nel rispetto delle altre persone e delle esigenze di tutti”, spiega Lorenzo Di Stasi, volontario e uno dei responsabili di Recup. “Ci sono tanti ragazzi, ma abbiamo anche molti pensionati e persone straniere che partecipano attivamente. I gruppi sono formati da circa 20 persone per mercato e sono aperti e inclusivi. Non lavoriamo in un’ottica assistenzialista e di semplice recupero ma di collaborazione e di scambio interculturale e intergenerazionale. Ognuno prende quello che gli serve e aiuta gli altri”, continua Lorenzo.

I commercianti dei mercati li conoscono e li riconoscono, sono loro stessi a raggiungerli per regalare qualcosa. Di solito sono ortaggi che dovrebbero buttare. Molti di loro, infatti, non hanno celle frigorifere per conservare la frutta e la verdura più deperibile e preferiscono regalare piuttosto che buttare. Non si tratta di un progetto di semplice economia circolare ma crea un tessuto sociale collaborativo e sensibile ai bisogni di tutti, commercianti e le persone comuni.
Funziona subito ed è replicabile

“Nel 2020 Recup ha recuperano più di 25 tonnellate di cibo ma quello che ci ha dato più soddisfazione è la partecipazione attiva di donatori e beneficiari, la collaborazione con altre associazioni milanesi e le richieste che arrivano da tutta Italia per aiutarli a replicare il progetto in altre città. Quando ci chiedono “Vogliamo fare come voi, ci aiutate?” noi siamo felici di dare il nostro supporto. Significa che hanno visto nel nostro Recup una soluzione che può funzionare.

“Il bello di Recup è che fai qualcosa nell’immediato, nell’arco di 2 ore recuperi il cibo che altrimenti verrebbe buttato e ridistribuisci tra le persone che partecipano. Il risultato lo vedi subito e hai la possibilità di interagire con altre persone molto diverse da te. È un lavoro collettivo che coinvolge piccoli commercianti e persone comuni”, racconta Beatrice, una volontaria. Uno degli obiettivi di Recup è anche di restituire dignità a quanti, per necessità, sono costretti a mettere le mani nella spazzatura per cibarsi, per vivere. Ecco perché si lavora in gruppi, nessuno viene lasciato solo in questa attività.
Non è un sistema perfetto

Durante l’emergenza Covid, Recup ha partecipato al programma Dispositivo Aiuto Alimentare messo in campo dal Comune di Milano e ha lavorato nei centri di raccolta in cui vengono convogliati diversi generi alimentari destinati a chi per effetto dell’emergenza è in situazioni di fragilità sociale ed economica. Recup ha partecipato all’assemblaggio dei pacchi all’Ortomercato di Milano e ha salvato la frutta e la verdura che rischiavano di essere buttate per distribuirle a chi ne ha bisogno. “Questo sistema sta funzionando. Finora ha supportato oltre 6.300 nuclei familiari in difficoltà, movimentando complessivamente oltre 616 tonnellate di cibo ogni settimana ed effettuando quasi 50.000 consegne di aiuti alimentari. Ma sicuramente in un periodo così difficile a livello di inclusione si potrebbe fare di più. La distribuzione del cibo che raccogliamo, infatti, non tiene conto di tante persone meno visibili, senza fissa dimora, che spesso restano esclusi. Non riusciamo a raggiungere tutti, non è un sistema ancora perfetto”, sottolinea Lorenzo.

Le attività di queste associazioni, attive da Nord a Sud, possono aiutare a maturare la consapevolezza sul cibo, sull’ambiente e quindi sui problemi sociali generati e collegati allo spreco alimentare. Dimostrano anche che la strada più efficace non è solo quella della beneficenza, del dono e delle ricette per recuperare gli avanzi in casa, ma passa soprattutto dalla creazione di luoghi di scambio, di relazione, convivialità che valorizzano il cibo come strumento di dialogo e inclusione.

fonte: news48.it


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Recup: recupero di cibo nei mercati e inclusione sociale

 

Evitare lo spreco alimentare è ormai un’esigenza sentita da fasce sempre più ampie di popolazione, oltre che riconosciuta dalle istituzioni: come contributo nella lotta alla fame, anzitutto, ma anche per la riduzione dell’impatto ambientale legato alla produzione del cibo che altrimenti non verrebbe neanche consumato.


Da qui nel 2015 ha preso le mosse l’iniziativa di Rebecca Zaccarini, studentessa che decide di reagire davanti allo spreco di intere casse di frutta e verdura a fine giornata nei mercati di Milano: chili e chili di cibo, che come già avviene spesso nelle mense scolastiche poteva essere recuperato.

Nasce così, con un passaparola tra amici, “Recup”, progetto di economia circolare e inclusione sociale cresciuto tanto da arrivare a redistribuire, nel 2020, ben 25 tonnellate di alimenti.

Una risposta concreta, nata sul territorio, a diverse delle sfide identificate dai 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda ONU 2030: per questo Recup compare tra i progetti di “Lombardia 2030”, la sezione di questa piattaforma dedicata da Regione Lombardia alle realtà che si muovono nella direzione di una maggiore sostenibilità economica, sociale, ambientale.

Cinque anni di attività

Nel 2016 Recup diventa un’associazione, via via si espande fino a ‘coprire’ 11 mercati rionali di Milano. “Qui i volontari, in media una quarantina - spiega Lorenzo Di Stasi, portavoce e membro del Direttivo di Recup - fanno prima un sopralluogo per presentarsi ai commercianti, quindi passano a fine attività per raccogliere casse di cibo che altrimenti andrebbe buttato: frutta e verdura ancora buona, anche se magari troppo matura, che in ogni caso gli ambulanti non avrebbero modo di conservare”. Da potenziali rifiuti a risorse, insomma, grazie all’azione di Recup.

Alla raccolta e redistribuzione di tutto ciò partecipano anche - e qui sta la novità - le stesse persone che di quel cibo hanno bisogno”: persone di tutte le età, anche giovani, italiane e straniere, ognuno prende quello che gli serve, e aiuta altri. Altro valore aggiunto, chi è in difficoltà riceve alimenti freschi, ricchi di vitamine: un contributo diverso dunque dai cibi a lunga conservazione che spesso per questioni pratiche compongono gli aiuti alimentari.

Circa il 70% dei beneficiari della raccolta è donna, così come sono in maggioranza donne le socie dell’associazione. Quella che si crea è quindi una collaborazione virtuosa, a volte alcuni dei beneficiari diventano anche soci dell’associazione e comunque sul territorio si creano relazioni e nuove reti di conoscenza e solidarietà.
I numeri di una scommessa vincente

A oggi Recup conta 125 soci, “ma sono più che raddoppiati nel 2020 - racconta Di Stasi -: è stato uno degli effetti della pandemia, in tanti hanno voluto mettersi in gioco e dare una mano di fronte al crescere dei bisogni”. Partecipare alle singole giornate di raccolta del resto è facile, si può farlo anche in modo occasionale a seconda delle proprie disponibilità, contattando l’associazione o recandosi direttamente nei punti di raccolta nei mercati rionali.

Nel 2020 però è arrivato anche un altro passo in avanti: “Con il lockdown, ai primi di aprile abbiamo spostato la nostra base operativa all’Ortomercato di Milano, l’ingrosso ortofrutticolo più grande d’Italia - spiega ancora Di Stasi -. In rete con altre 15 associazioni, tra aprile e maggio con i nostri pacchi alimentari abbiamo aiutato 4.900 famiglie, con l’attività di giugno e luglio siamo arrivati a raccogliere e distribuire 17 tonnellate di frutta e verdura, per un totale di 25 tonnellate a fine 2020, raccolte anche nei 7 mercati cittadini in cui l’associazione è riuscita a tornare a settembre, dopo il lockdown.

Non solo: Recup è attiva anche sul fronte della formazione, con laboratori e comunicazione sui principi basilari dell’economia circolare e dell’educazione alimentare: una strategia anti spreco efficace parte anche da una corretta conservazione dei cibi, come da una pianificazione della spesa alimentare.

Scopri questo e altri progetti - e promuovi anche tu la tua iniziativa per uno Sviluppo Sostenibile - nella sezione “Lombardia 2030” della nostra piattaforma.

fonte: www.openinnovation.regione.lombardia.it


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Babaco Market: ecco come evitare spreco di frutta e verdura

















Evitare lo spreco facendo ricorso alla tecnologia, dando una mano ai piccoli agricoltori. Una frontiera sempre più esplorata e preziosa nell'ottica dei progetti di sviluppo sostenibile e di economia circolare. Così è nata Babaco Market, l’ultima creazione in casa MyFoody, start up impegnata ormai da un paio d’anni nel recupero delle eccedenze alimentari prossime alla scadenza. Babaco è un delivery antispreco di frutta e verdura che consegna a casa tutti quei prodotti che andrebbero gettati per piccoli difetti di buccia o con forme e misure più piccole del solito che non vengono accettati dai canali tradizionali, come i supermercati.

Come funziona il servizio antispreco



Il meccanismo per ordinare è semplice: si puoi scegliere tra la Bonsai Box, 6 kg di prodotti a 19 euro o la Jungle Box, 10 kg a 27 euro (consegna 1.90 euro), con un risparmio del 30% circa sul prezzo normale di quei generi: ogni box contiene almeno 8/10 tipi di frutta o verdura fresche, imballate senza l’utilizzo di plastica a favore di materiali riciclabili ed eco-sostenibili. Al momento dell’iscrizione si può scegliere fra un abbonamento settimanale o quindicinale e nell’eventualità disdirlo liberamente quando si vuole. Già di per sé progetto interessante, a valorizzare la mission di MyFoody è la provenienza dei prodotti: i babaco box contengono esclusivamente frutta e verdura di stagione acquistata da agricoltori attenti alla qualità e agli standard di coltivazione e piccoli produttori italiani.

Una mano ai piccoli agricoltori


Nella selezione dei fornitori, infatti, Babaco preferisce i piccoli coltivatori o comunque chi si impegna a preservare, attraverso il proprio lavoro, le specificità del proprio territorio. Per questo potreste avere la fortuna di trovare nelle box prodotti unici provenienti anche da presidi Slow Food. Il servizio è attualmente attivo solo a Milano ma l’intenzione è di renderlo esteso al resto d’Italia. I prodotti rimasti invenduti dalle babaco box saranno devoluti a Recup, associazione charity che combatte lo spreco alimentare e l’esclusione sociale redistribuendo i prodotti attraverso la rete dei mercati rionali.

fonte: https://www.impakter.it


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Prodotti in plastica monouso: chi è preparato per la Direttiva Eu? I progetti che funzionano in Europa



















Il tema della plastica monouso è ormai oggetto di forte discussione. Proprio in questi giorni il ministero dell’Ambiente sta cercando di definire le basi per avviare una strategia green che consenta al Paese di arginare il problema della plastica allineandosi a decisioni già prese in altre nazioni europee.
Ma le pressioni, provenienti da più parti, sono fortissime: diverse associazioni di categoria come quella dei riciclatori (Assorimap), dell’industria dei trasformatori delle materie plastiche (Unionplast) e della grande distribuzione (Federdistribuzione) chiedono un maggiore coinvolgimento, lasciando intendere che interventi troppo bruschi o non calibrati potrebbero avere gravi impatti economici ed occupazionali. Anche Confindustria ha espresso “forte contrarietà” in merito a un’eventuale tassa sugli imballaggi in plastica che il Governo vuole introdurre.
Tuttavia la consapevolezza della crisi ambientale dovuta alla plastica è cresciuta tra i consumatori. Recenti sondaggi mostrano che, all’interno dell’Unione Europea, il 92% dei cittadini approva le azioni per ridurre prodotti in plastica monouso, l’87% è preoccupato per l’impatto di questo materiale sull’ambiente e il 74% teme riscontri negativi  per la salute.
Tra l’altro, l’Europa è una delle regioni a più alto consumo di materie plastiche, il 40% delle quali viene utilizzato per gli imballaggi e meno del 30% viene riciclato.
La Commissione europea nel gennaio 2018 ha avviato la propria battaglia lanciando la “Strategia per la plastica nell’economia circolare”, per ridurre l’inquinamento da plastica monouso. Nel giugno 2019 la direttiva UE sulla “Riduzione dell’impatto di determinati prodotti di plastica sull’ambiente” (Sup) ha delineato le misure politiche che i paesi dell’UE dovranno adottare per  il problema degli “articoli in plastica monouso trovati sulle spiagge”.
Say No to Plastic Straws, Plastic Pollution Concept, Top ViewLa Direttiva invita ad incentivare un’economia associata a prodotti riutilizzabili e a sistemi che ne stimolino l’utilizzo. Il riuso è una delle soluzioni più efficienti per affrontare il problema dell’usa e getta. Si stima che i vantaggi del riuso superano di gran lunga quelli provenienti da un alleggerimento degli imballaggi e dall’aumento dei tassi di riciclaggio o dalla semplice sostituzione con materiali a base bio.
Un recente rapporto, pubblicato dal movimento Break free from plastic Europe e l’alleanza con Ong europee Rethink Plastic, mostra come sia effettivamente possibile abbandonare la plastica monouso e passare a materiali riutilizzabili. Lo studio si concentra, in particolare, su cinque tipi di articoli monouso coinvolti nella direttiva Sup, oggi ampiamente utilizzati nella vendita al dettaglio di alimenti e bevande, mostrando alcuni progetti sul riuso, avviati in diversi Stati europei che stanno funzionando.
Le tazze monouso  realizzate in polistirene espanso (Eps) sono bandite dalla Direttiva Sup dal luglio 2021. Entro la stessa data le tazze monouso per bevande dovranno essere marchiate indicando la presenza di plastica, la modalità di gestione quando diventa rifiuto e il potenziale impatto ambientale negativo in caso di smaltimento inappropriato. Gli Stati Membri devono inoltre   sostenere la riduzione del consumo entro il 2026. Oggi si trovano generalmente in commercio bicchieri per caffè o bibite calde più o meno grandi e altri contenitori realizzati in plastica (polistirene o polipropilene) o cartone, foderati internamente con polimeri.
Nei negozi si trovano anche alternative realizzate in bioplastica (in Pla per esempio) che per la direttiva Sup non vanno bene. Il principio su cui si fonda la norma è che un polimero modificato chimicamente, anche derivante totalmente o parzialmente da fonti rinnovabili, deve essere ritenuto un materiale vietato. Il costo di uno di questi contenitori monouso in carta accoppiata da 300 ml è di circa 5 centesimi di euro, mentre il corrispondente prodotto realizzato in polistirene ne costa all’incirca 2.
Un bicchiere dello stesso tipo in polipropilene (Pp) costa 3 centesimi di euro e il prezzo lievita fino a 7 centesimi nel caso di prodotti in Pet o in Pla.
Plastic and paper cups in contrastPer capire le dimensioni del problema basta dire che in Germania si usano 2,8 miliardi di tazze da caffè monouso all’anno, mentre nel Regno Unito si arriva a 3 miliardi. Meno dell’1% di queste tazze viene riciclato per le difficoltà di separare il rivestimento in plastica dalla carta. Secondo un recente studio di Lca, la produzione e lo smaltimento di 1000 tazze di caffè monouso, dotate di coperchio, ha un impatto equivalente alle emissioni rilasciate da un’auto di media cilindrata per percorrere 350 km. Considerando una tazza la percorrenza è 350 metri (63 KgCO2e). I medesimi articoli riutilizzabili, sono prodotti usando plastiche come il polipropilene, oppure acciaio, vetro o porcellana. Per i coperchi invece vengono usati materiali come il silicone o la plastica.
Il costo varia in relazione al materiale e al volume del recipiente ma mediamente oscilla intorno ai 13 euro. Esistono anche soluzioni come le tazze in polistirene, lavabili fino a 100 volte, che costano circa 0,30 € o in policarbonato (500 cicli di lavaggio) 0,65 €. Il modello di business oggi considerato più vantaggioso è l’impiego di articoli monouso, anche se politiche a favore di tazze riutilizzabili possono invertire la rotta. In Svizzera e Germania per esempio è stato avviato il sistema Drs (dalla sigla inglese deposit-refund system) basato su un deposito su cauzione denominato “ReCup”. In Germania 3.000 distributori di bevande, localizzati in 450 città, utilizzano questo sistema. I cittadini pagano un deposito di € 1 a tazza, rimborsabile quando viene restituito. Mezzo milione di queste tazze sono in circolazione e ognuna può essere riutilizzata fino e 500 volte.
La produzione di plastica sarà raddoppiata nel 2034 se non si interviene
Anche i contenitori per alimenti monouso a forma di vaschetta (per esempio ) in polistirene espanso o polipropilene saranno banditi a partire da luglio 2021. Il coperchio è in Pvc, polietilene oppure in carta abbinata a strati di alluminio e plastica, soprattutto quando i contenitori da asporto sono in alluminio. Il costo di una vaschetta in polipropilene da 700 ml è di circa 20 centesimi, ma si può arrivare a 80 in relazione al materiale.
L’Italia, assieme a Regno Unito, Germania, Francia e Spagna è nella lista dei 13 paesi al mondo che consumano il numero maggiore di pasti da asporto. Il 50% delle vaschette in polistirene espanso viene incenerito, mentre la quasi totalità della quota restante finisce in discarica. I contenitori riutilizzabili vengono ottenuti plastiche adatte a resistere a più cicli come il Pbt (polibutilene tereftalato), oppure si usano quelle in vetro o acciaio inossidabile.
Un’interessante iniziativa adottata in Svizzera si chiama “Recircle”,  prevede il pagamento da parte dei clienti di bar, locali e ristoranti di un deposito di 10 franchi, che viene restituito al termine del pasto consegnando il contenitore a uno degli 800 locali aderenti all’iniziativa. L’alternativa è avere un contenitore pulito da usare per il pasto successivo. Le vaschette attualmente in circolazione sono  70.000.
plastica bottiglie riciclo raccolta differenziata vuoto a rendereBottiglie e tappi sono gli oggetti più comunemente rinvenuti sulle spiagge. Il problema tocca da vicino l’Italia. A livello europeo il consumo annuale di bottiglie monouso per bevande è di 46 miliardi. L’Italia si aggiudica la vetta della classifica essendo il primo paese al mondo per quanto riguarda il consumo di bottiglie di acqua minerale. Con 13,5 miliardi di litri, pari a 224 litri a testa (a cui si sommano 1,5 miliardi di litri esportati), il parco di bottiglie in plastica è di circa 11 miliardi di pezzi, che nel 80-90% dei casi finiscono nei termovalorizzatori, negli impianti di incenerimento, in discarica e in parte vengono dispersi nell’ambiente.
La Direttiva Sup prevede che entro il 2024 le bottiglie siano dotate di un dispositivo in modo che i tappi dopo l’utilizzo rimangono attaccati e che siano ottenute con almeno il 25% da plastica riciclata, entro il 2025,  per arrivare al 30% nel 2030. Contro questa decisione  le multinazionali del settore (Coca-Cola, Danone, Nestlé e PepsiCo)  hanno chiesto un ripensamento per via dei costi che sarebbero superiori ai benefici.
Sulla raccolta differenziata l’Ue ha deciso che entro il 2025 dovrà essere recuperato almeno il 77% (in peso) delle bottiglie che dovrà arrivare al 90% entro il 2029. Il costo di una bottiglia in Pet monouso da 500 ml è variabile, ma mediamente oscilla intorno ai 4 centesimi di euro. Un prezzo decisamente più basso rispetto al vetro che invece arriva a 50 centesimi. Le soluzioni riutilizzabili possono prevedere anche l’uso di Pet, in un formato più resistente rispetto alle monouso. Un progetto interessante è attivo in Germania dove ogni bottiglia di plastica e vetro ha un sovrapprezzo che si può riscuotere alla riconsegna del vuoto (pfand). Per le bottiglie che non possono essere riciclate (riconoscibili da un logo sulla confezione) il deposito è di 0,25 €, per quelle di birra da 30 o 50 cc è di 8 o 15 centesimi a seconda del tipo di vetro, per quelle di plastica rigida è di 15 centesimi. Tutti gli esercizi che vendono le bibite devono accettare i vuoti e catalogarli come “pfand” anche se la bottiglia non è stata acquistata nel punto vendita. Oltre alle macchine automatizzate per il recupero ci sono persone indigenti (Pfandsammler) che raccolgono quelle abbandonate nei cestini o per strade per garantirsi i soldi del reso. Il sistema funziona e permette di ripulire la città senza spese per i comuni, anticipando e velocizzando il lavoro dei netturbini.
Le bottiglie di vetro vengono pulite e riempite fino a 50 volte, quelle in plastica resistente 25 e secondo le statistiche il tasso di riconsegna dei contenitori, grazie a questo sistema, è del 99%. Un confronto fatto in Germania ci mostra tra l’altro che l’impatto ambientale delle bottiglie riutilizzabili (calcolato sulla base dell’impronta di carbonio) è inferiore rispetto a quello associato ai medesimi prodotti in plastica monouso:
➔ 68,7 kgCO2e/1000litri per contenitore in Pet riutilizzabile
➔ 85 kgCO2e/1000litri per contenitore in vetro riutilizzabile
➔ 139 kgCO2e/1000litri per contenitore in Pet monouso
Il sistema può essere esportato anche in altri Paesi europei.
La direttiva europea colloca le posate e i piatti al settimo posto tra gli oggetti monouso più spesso presenti sulle spiagge e forse per questo motivo l’associazione per la difesa degli oceani “Ocean Conservancy” le considera il rifiuto di plastica monouso più letale per la vita di uccelli marini, mammiferi e tartarughe. Dal mese di luglio 2021 questi oggetti non potranno essere commercializzati, e questo ha destato qualche perplessità essendo l’Italia tra primi produttori in Europa, con una quota di export del 30%.
Le posate in polistirene hanno un prezzo intorno ai 0,15 euro (0,45  per un set costituito da coltello, forchetta e cucchiaio), ben inferiore al costo di quelle riutilizzabili, in acciaio o in bamboo, che può aggirarsi intorno ai 5/10 euro. I piatti monouso sono in genere realizzati in polistirene o in carta abbinata a un polimero e costano circa 5 centesimi. In commercio si trovano molte alternative monouso, realizzate con materiali compostabili. Il brevissimo ciclo di vita di questi oggetti non giustifica il dispendio di risorse necessario per produrle. Nel Regno Unito (LessMess) e in Germania (ReCircle) ci sono sistemi basati sul pagamento di una cauzione da versare quando si compra il pasto che viene restituita alla consegna. In caso di eventi all’aperto o festival un certo numero di stoviglie riutilizzabili vengono messe a disposizione di tutti i locali e dei venditori ambulanti. La fase successiva è la creazione di un unico punto di riconsegna, in cui i piatti vengono lavati ed igienizzati per essere reimmessi  nel circuito di vendita.
I vari progetti in corso evidenziano che il successo è correlato  al numero di riutilizzi del contenitore. A questo punto entra in gioco la disponibilità del consumatore ad accettare di consumare un pasto in un piatto che può risultare leggermente usurato (non in maniera tale da inficiare le caratteristiche organolettiche dell’alimento). Oltre a ciò bisogna considerare la capacità delle aziende di realizzare articoli adatti al riuso, utilizzando materiali durevoli e facilmente lavabili. Allo stesso tempo bisogna progettare sistemi di lavaggio, di trasporto e di deposito in grado di garantire la sicurezza in ogni fase del ciclo di riutilizzo. Nel calcolo dell’impatto ambientale bisogna considerare  l’incremento delle risorse idriche, elettriche o di altro tipo, necessarie per il lavaggio e per il trasporto dei contenitori, impatto che potrebbe essere ridotto mediante l’impiego di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili e l’uso di veicoli elettrici).
Ultimo aspetto non secondario riguarda la necessità di dare incentivi economici per sostenere il passaggio ai  contenitori  riutilizzabili, attraverso la tassazione degli articoli monouso e sgravi fiscali a favore delle alternative, sostenendo così l’innovazione e i cambiamenti comportamentali dei consumatori.
Legenda:
Eps: Polistirene espanso
Pp: Polipropilene
Pet: Polietilene Tereftalato
Pmma: Polimetilmetacrilato
Ps: Polistirene
Pvc: Polivinilcloruro
Hdpe: Polietilene ad alta densità
Pbt: Polibutilentereftalato
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Come un’associazione milanese sta combattendo attivamente lo spreco alimentare








Ogni anno, ognuno di noi getta nella spazzatura in media 149 kg di cibo ancora commestibile. L’ambiente domestico è il luogo dove avviene la maggior parte dello spreco alimentare – ben il 54% del totale – a causa di pratiche di consumo difficili da sradicare. Ma la filiera dello spreco parte prima di tutto dalla sovrapproduzione industriale, e trova un suo snodo importante anche nella vendita. I cibi sugli scaffali dei supermercati vicini alla data di scadenza finiscono spesso tra i rifiuti, con un tasso di recupero di appena il 10%, ma lo spreco avviene anche nei mercati rionali, quando i commercianti sono costretti a gettare decine di cestini di frutta e verdura invenduti a fine giornata.

Negli ultimi anni si stanno diffondendo in tutto il territorio nazionale gruppi di cittadinanza attiva che lavorano nella fase distributiva per riconvertire le eccedenze alimentari in cibo perfettamente commestibile. È questo l’obiettivo dell’associazione RECUP, che opera nei mercati rionali di Milano già da qualche anno, recuperando la merce avanzata e distribuendola a chi ne ha bisogno, ma anche a chi crede in uno stile di vita alimentare antispreco. Abbiamo intervistato Lorenzo Di Stasi, volontario e responsabile della comunicazione di RECUP, per capire meglio la nascita del progetto e il modo in cui si è sviluppato in città.



Come e quando nasce RECUP?

L’associazione nasce nel 2014 da Rebecca Zaccarini. Mentre si trovava in Erasmus a Lille, ha iniziato girare per i mercati della città, vedendo quanto spreco alimentare ci fosse. Così, ha iniziato a recarsi al mercato a fine giornata e a chiedere a ogni commerciante se ci fosse la possibilità di donare del cibo ancora edibile ma non più vendibile. Parliamo quindi di cibo commestibile ma non più in buone condizioni estetiche. Tornata a Milano ha deciso di continuare a farlo, partendo dal mercato di Papiniano, uno dei più grossi della città. In poco tempo si è creato un mini network di persone attive che si sono conosciute nel mercato e che hanno iniziato ad andare tra le bancarelle per chiedere la possibilità di utilizzare i prodotti in eccesso. Oggi questo network si è allargato ed è molto più organizzato. Siamo riusciti a espanderci innanzitutto per numero dei mercati, che attualmente sono 12 a Milano, 1 a Corsico e uno anche a Verona. In ogni mercato il processo si conclude quando prendiamo le cassette di frutta e verdura, le portiamo in un luogo specifico del mercato e iniziamo la distribuzione verso i beneficiari, che siamo sia noi, i volontari, sia le persone che ci conoscono e vengono lì perché sanno quello che facciamo e dove possono trovarci.

Quanto cibo riuscite a recuperare? C’è disponibilità da parte dei commercianti del mercato, oppure qualcuno non vuole collaborare?

Facciamo un gran lavoro perché per costruire la fiducia con i commercianti ci vuole tempo. A volte può essere più difficile, alcuni ci rifiutano; altri ci dicono che lo spreco non c’è e per noi è una cosa positiva, anche perché il nostro obiettivo resta quello di abbattere lo spreco alimentare, quindi se una bancarella non ha prodotti in eccedenza è la situazione migliore. Tendenzialmente però troviamo tanta disponibilità, anche perché ci siamo fatti conoscere e ora ci facciamo riconoscere: all’inizio usavamo dei volantini, mentre ora siamo riconoscibili perché abbiamo le magliette dell’associazione, che diamo a chiunque voglia venire a darci una mano.



E invece il rapporto con i beneficiari come ve lo siete costruito?

Abbiamo creato un piccolo network in ogni mercato e la cosa bella è che si tratta di una rete eterogenea, a livello di età e di estrazione sociale. Un altro nostro obiettivo, infatti, è che il cibo recuperato acquisti anche un nuovo significato. Il nostro slogan è “Il cibo che perde valore economico acquista valore sociale”. Con questo intendiamo che abbattere lo spreco alimentare può diventare un modo anche di fare inclusione sociale: molti beneficiari diventano poi volontari, favorendo una presa di coscienza da parte della comunità riguardo questi problemi ed entrando in contatto con persone diverse per cultura e provenienza. Al mercato di Papiniano, per esempio, il recupero di cibo avveniva anche prima del nostro arrivo, quando le persone andavano a rovistare tra la spazzatura. Siamo molto soddisfatti di quello che abbiamo fatto perché oggi questo meccanismo è “istituzionalizzato” e in qualche modo tutela chi prima era costretto a mettere le mani tra i rifiuti per procurarsi da mangiare. Tra i beneficiari c’è molta collaborazione e scambio di idee: per esempio ci sono persone anziane che sono beneficiarie e loro stesse pur di essere utili agli altri partecipano alla distribuzione.


In quanti siete attualmente? Siete tutti volontari?

Siamo tutti volontari perché attualmente non possiamo pagare nessuno. Dal 2016 siamo un'associazione a promozione sociale. Abbiamo quaranta iscritti e un direttivo che viene rinnovato ogni tre anni. Per far funzionare il recupero nei mercati devono essere essere presenti almeno quattro o cinque persone: due che restano al banchetto con la merce e altri due che girino per recuperare le cassette. Nei mercati un po’ più grossi siamo anche otto-dieci persone, come quello di Papiniano. I beneficiari solitamente sono un minimo di 10, ma arrivano anche a 20-25.

Per il momento vi state rivolgendo solo ai mercati rionali, c’è la possibilità che arriviate a collaborare anche con i supermercati dove avviene uno spreco maggiore?

Abbiamo la volontà di diventare un’impresa sociale e siamo all’interno di un progetto di incubazione che potrebbe permetterci di diventarlo. A quel punto potremo pagare gli stipendi alle persone più attive ed espandere le nostre attività oltre i mercati rionali. Per il momento, però, non abbiamo alcun progetto ufficiale con i supermercati.


fonte: https://youmanist.it

McDonald’s prova in Germania nuove soluzioni green: zero plastica, posate in legno e bicchieri riutilizzabili

















McDonald’s si attrezza per essere più sostenibile, in previsione del bando ai materiali monouso che entrerà in vigore nel 2021, e lo fa sperimentando materiali e modalità con piccoli test circoscritti a singoli locali in diversi paesi, valutandone l’esito. Uno degli ultimi test in ordine di tempo è stato condotto in Germania, dove la catena gestisce circa  1.500 ristoranti.  Tra il 17 e il 26 giugno 2019, è stato realizzato il Better McDonald’s Store nel centro commerciale Mall of Berlin, ovvero un ristorante tutto improntato alla sostenibilità e totalmente privo di plastica.
Le cannucce erano di carta, le posate di legno, gli involucri e la carta (per avvolgere  hamburger e patatine) di materiale riciclabile al 100%, mentre le ciotole per le salse erano di wafer commestibili. Oltre a ciò, per limitare e, in prospettiva, azzerare l’uso di bicchieri monouso (anche se da tempo nei ristoranti tedeschi della catena si distribuiscano bibite solo in bicchieri di vetro o porcellana), si potevano portare bicchieri e tazze da casa ottenendo uno sconto di 10 centesimi. Oppure si poteva scegliere un bicchiere riutilizzabile, aderendo a un sistema chiamato ReCup, che prevede di pagare un euro per il contenitore da asporto, da  usare  in qualunque altro ristorante, e per il quale si viene rimborsati in caso non si voglia più usare.
L’iniziativa ne segue altre come quella di McDonald’s UK di eliminare tutti gli involucri di plastica dai McFlurry, decisione che ha permesso di evitare di impiegare 383 tonnellate di plastica all’anno, e quella di sostituire anche le ciotole in plastica per le insalate, usando solo stoviglie riciclabili al 100%. Analogamente, in Canada, la dimensione dei tovaglioli è stata ridotta del 20%, e si è passati a fibre del tutto riciclabili.
Non tutto, però, è semplice, come ricorda anche il sito Food and Wine. Dai riscontri dei clienti dei vari paesi emergono infatti numerose criticità.  Ben 53 mila inglesi, che secondo la BBC ogni giorno consumano 1,8 milioni di cannucce, hanno firmato una petizione per tornare alla plastica, perché le cannucce proposte finora non funzionerebbero bene, soprattutto con i frullati. L’azienda ha sperimentato altri tipi di materiali, che però non sono riciclabili al 100%. Inoltre, molti clienti tedeschi e non solo avrebbero fatto notare il sapore di legno delle stoviglie, e avrebbero detto di trovarlo poco gradevole e di sperare che ci siano presto alternative migliori.
mcdonald's recup
McDonald’s ha sperimentato il sistema ReCup, che permette di ottenere con un deposito di 1€ un bicchiere riutilizzabile in qualsiasi ristorante della catena
Nei comunicati ufficiali l’azienda insiste nel presentare questi tentativi come esperimenti migliorabili, grazie soprattutto alle indicazioni dei clienti, e in effetti prima del 2021 c’è ancora tempo per capire come rispettare le normative e non perdere clienti, almeno in Europa. Tuttavia è chiaro che la strada per la vera sostenibilità è ancora lunga e dovrà passare necessariamente anche per un ripensamento radicale di tutto il sistema della carne a bassissimo prezzo, oltreché degli imballaggi utilizzati. 
Fonte immagini: McDonald’s
fonte: www.ilfattoalimentare.it

RECUP: azioni efficaci e concrete contro lo spreco alimentare














Mercoledì in pausa pranzo sono andata al mercato rionale di zona. Ci sono andata con i ragazzi volontari di RECUP, ed è stata un’esperienza che ritengo necessario condividere.
Partiamo dal principio: cos’è RECUP?
E’ un progetto che nasce a Milano ed ha il duplice obbiettivo di combattere lo spreco alimentare da un lato e l’esclusione sociale dall’altro, due grandi piaghe della nostra epoca. L’attività inizia nel 2014 su iniziativa della fondatrice, Rebecca, la quale durante il suo soggiorno in Francia ha preso parte a gruppi di recupero di scarti alimentari (di fatto e in realtà ancora buoni e consumabili). Al rientro in Italia ha deciso di riproporre il modello su Milano fino ad arrivare, nel 2016, a costituire l’Associazione a Promozione Sociale (RECUP) che pian piano si sta allargando a sempre più zone della città. RECUP sostanzialmente recupera il cibo invenduto o danneggiato nei mercati rionali e messo gratuitamente a disposizione di chi lo voglia prendere.
Nel mezzo delle mie ricerche mi sono imbattuta in alcuni articoli che parlavano di questo meraviglioso progetto  e non ho potuto non contattare l’associazione per dare una mano.
Come funziona?
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RECUP ad oggi è attiva su 10 mercati rionali di Milano. Forse non tutti lo sanno, ma i mercati rionali a Milano sono circa NOVANTA, e quando ci si rende conto di quanto cibo ancora perfettamente commestibile venga sprecato in un solo mercato, e lo si moltiplica per novanta… e poi si tenta di moltiplicarlo per tutte le città del mondo, è inevitabile rendersi immediatamente conto delle tonnellate di cibo che quotidianamente vengano letteralmente sprecate sul nostro pianeta. Senza considerare, in aggiunta, la quantità di rifiuti domestici che, ad oggi, è una delle maggiori fonti di inquinamento ambientale.

Partecipare è semplice e per niente gravoso sugli impegni della vita quotidiana: ci siamo incontrati alle 13.30, ora della fine del mercato, e siamo passati da ogni bancarella domandando ai commercianti se avessero del cibo che stavano scartando o gettando 2.jpgpoiché, il giorno dopo, non sarebbe stato vendibile. Abbiamo raccolto casse intere di zucche, innumerevoli di mandarini, cachi, insalata, pere, pomodori… tutto cibo ancora buono ma, secondo i commercianti, invendibile i giorni a seguire. E il tempo che abbiamo impiegato è stato meno di un’ora.
Il cibo è stato raccolto e raggruppato su alcuni bancali e messo a disposizione di tutti coloro che volessero prenderlo: è andato a ruba in un istante tra gli abitanti del quartiere e persone (la maggior parte di questi erano anziani) che non possedendo grandi disponibilità economiche ne approfittano per mangiare risparmiando e senza sprecare.
Il valore enorme di questo progetto risiede negli innumerevoli benefici che apporta alla comunità sotto vari aspetti:
  • Primo tra tutti la lotta allo spreco alimentare: cibo che diventerebbe a breve un rifiuto viene invece utilizzato per sfamare chi ne abbia la necessità. Quindi da un lato è un aiuto a chi ne ha più bisogno, dall’altro un incentivo alla tutela dell’ambiente.
  • In secondo luogo, obbiettivo a lungo termine, dovrebbe fungere da deterrente per i commercianti al fine di evitare lo spreco: se infatti questi prendessero reale consapevolezza del fatto che esiste chi è disposto ad acquistare il cibo che loro ritengono invendibile i giorni a venire, sarebbero incentivati a venderlo a fine giornata, sottoprezzato, ma comunque traendone un profitto, per quanto piccolo, maggiore rispetto allo spreco e aiuterebbero chi ne ha più bisogno abbassando i prezzi.
  • Non da ultimo ha una importantissima funzione sociale in quanto i tra i volontari si incontrano sia studenti che disoccupati, pensionati, persone senza fissa dimora, richiedenti asilo, cittadini italiani residenti nel quartiere che hanno a cuore le politiche ambientali, extracomunitari e apolidi.
    Ciò permette a realtà di fatto lontane tra loro, di entrare in contatto e conoscersi e andare oltre le barriere sociali che, come ben sappiamo, ad oggi sono un enorme limite per lo sviluppo.
Il progetto RECUP è riuscito a creare un vero e proprio circolo virtuoso e divulgativo di buone pratiche. Il bello di questo progetto è che l’impegno richiesto è veramente irrisorio: ho impiegato circa 50 minuti della mia settimana per dare una mano. Non esistono obblighi di presenza o vincoli di nessuna sorta.
E grazie all’aiuto nel recupero di un cibo ritenuto senza valore economico, si riesce a creare un enorme valore sociale: inoltre RECUP, assumendo le vesti di un progetto associativo, previene l’umiliazione di tutte quelle persone costrette a frugare nei rifiuti per poter portarsi a casa del cibo, favorendo l’inclusione sociale.
Partecipare è semplicissimo: basta inviare una email a collabora.recup@gmail.com o tramite la pagina Facebook di RECUP, per entrare in contatto con il direttivo e partecipare alle raccolte nel mercato più comodo rispetto alle proprie esigenze.
Suggerisco inoltre, a tutti coloro che pur non risiedendo nell’area di Milano ritengano che il progetto sia degno di attenzione, di entrare comunque in contatto con l’associazione in quanto sarebbe auspicabile che pratiche simili si diffondessero anche altrove come buon esempio di rispetto dell’ambiente e di inclusione sociale.

 fonte: https://progettoimpattozero.home.blog