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Corso di Perfezionamento ``Economia Circolare - Da rifiuti a risorse: un'economia in transizione















Da qualche anno si parla di Economia Circolare, intesa come una radicale trasformazione dei cicli di produzione nella direzione della sostenibilità. Le esperienze condotte ad oggi in Italia sono prevalentemente limitate e circoscritte, senza quella estensione a sistema che il nuovo modello richiederebbe per essere efficace.

Da un lato cresce la percezione generale del tema, dall’altro si impone l’orizzonte sovranazionale della Transizione Ecologica e intervengono nuovi e concretissimi obblighi per le imprese.

Entrano con forza nel nostro ordinamento le nuove direttive europee che dettano regole vincolanti e generalizzate per una diversa organizzazione dei cicli di produzione, distribuzione, consumo e recupero dei materiali.

Il Corso è finalizzato a fornire un percorso formativo qualificato e integrato, rivolto prevalentemente al management delle imprese oggi più direttamente coinvolte nella Transizione Ecologica, con particolare riferimento a una gestione innovativa dei flussi di materia e dei rifiuti, in coerenza con le prospettive emergenti.
Il Corso offre una strumentazione concettuale e tecnica mirata alla trasformazione dei modelli organizzativi ed economici dell’impresa, nonché all’adozione di procedure idonee, anche alla luce delle nuove norme introdotte recentemente attraverso il recepimento delle recenti direttive europee in materia.

fonte e per info: http://www.poliedra.polimi.it/corso_ec/


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Plasmix nelle pavimentazioni

Accordo tra Iren e Mapei per la produzione di conglomerati bituminosi modificati con plastiche riciclate da raccolta differenziata.







La multiutility emiliana Iren, attraverso la controllata I.Blu, ha siglato un accordo con il fornitore di materiali da costruzione Mapei per utilizzare plastiche riciclate da rifiuti post-consumo nella produzione di conglomerati bituminosi destinati alla realizzazione di pavimentazioni stradali. L'obiettivo è sviluppare asfalti più sostenibili e duraturi per strade, autostrade, aree industriali, aeroporti, centri logistici e commerciali.

Negli anni scorsi Mapei e I.Blu hanno collaborato a progetti di pavimentazione di alcuni tra i principali scali aeroportuali del territorio nazionale, confermando la validità della tecnologia adottata. Formulazioni messe a punto anche grazie al supporto del Laboratorio Stradale del Politecnico di Milano.


“L’accordo stipulato con Mapei interpreta perfettamente il nostro concetto di multicircle economy, la nostra visione industriale a lungo termine focalizzata sull’uso consapevole ed efficiente delle risorse - commenta l'AD di Iren Massimiliano Bianco (a destra nella foto in alto) –. L’ingresso nel Gruppo Iren di I.Blu, avvenuto nel 2020 (leggi articolo), ci ha permesso di compiere un ulteriore passo avanti, sia in termini di innovazione industriale che nella valorizzazione economica ed ambientale del ciclo dei rifiuti, permettendoci di diventare leader nazionale nella selezione delle plastiche Corepla e nel trattamento del plasmix". "La partnership con Mapei aggiunge ulteriore valore a questo processo, permettendoci di chiudere il cerchio attraverso l’impiego dei polimeri termoplastici nei conglomerati bituminosi”.

"Mapei crede fortemente nello sviluppo di questo mercato ed ha recentemente creato la nuova linea Road Engineering dedicata proprio alle tecnologie e soluzioni per tutto quello che è il mondo dei conglomerati bituminosi, dalle grandi opere alle strade comunali o provinciali. L’economia circolare implica anche la ricerca di durabilità - aggiunge Marco Squinzi, CEO di Mapei (a sinsitra nella foto in alto) -. L’utilizzo di tecnologie innovative per interventi più risolutivi e più duraturi per estendere la vita delle strutture, sia nel nuovo che nel ripristino, deve diventare un impegno condiviso nell’ambito delle infrastrutture e dell’edilizia. Il fatto che questo si possa ottenere grazie all’utilizzo di materie prime seconde, aggiunge valore al progetto che si inserisce appieno nella scelta di Mapei di fare della sostenibilità un pilastro della propria attività”.

fonte: www.polimerica.it


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Raccolta differenziata, circa 3,2 milioni di tonnellate l’anno sono da ri-buttare

Politecnico di Milano: «Gli scarti generati dal trattamento di tutte le frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani costituiscono complessivamente circa il 19% del materiale raccolto per via differenziata»













Una peculiarità tutta italiana nel modello di gestione dei rifiuti (urbani) è stata incentrare, da più di vent’anni, l’intera impostazione sulla raccolta differenziata come obiettivo da raggiungere: non solo però non abbiamo ancora raggiunto il target che abbiamo stabilito per legge (65% al 2012, invece nel 2019 è al 61,3%) ma abbiamo perso di vista tutta la filiera impiantistica che c’è dopo la suddivisione della nostra spazzatura – o meglio di una piccola parte, sostanzialmente imballaggi e organico – in tanti sacchetti diversi. Per scoprire, ad esempio, che circa un quinto della raccolta differenziata è da buttare di nuovo.

Il dato è noto, stavolta confermato da uno studio commissionato da Ricicla.tv al Politecnico di Milano.

«Nella gestione dei rifiuti urbani – sottolinea il Polimi – si è sempre posta particolare attenzione al raggiungimento di determinati obiettivi di raccolta differenziata. Più recentemente sono stati definiti obiettivi relativi alla quantità di rifiuti avviati ad effettivo recupero, nella consapevolezza che la raccolta differenziata rappresenta solo la prima fase di una virtuosa gestione dei rifiuti. I rifiuti raccolti in modo differenziato non possono essere avviati tal quali agli impianti di riciclo, ma necessitano di selezione, in modo da rendere il più omogeneo possibile il flusso destinato al riciclo. Ciò comporta la generazione di scarti, ossia rifiuti che non sono idonei all’avvio a recupero di materia. Anche nella fase di riciclo è possibile che si generino degli scarti dal processo di recupero vero e proprio». O meglio è certo, dato che il secondo principio della termodinamica naturalmente è valido anche per i processi industriali che hanno a che fare con l’economia circolare.

«L’attuale gestione e trattamento delle principali frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani genera – argomenta il Polimi – circa 3,2 milioni di tonnellate di scarti, di cui 3 milioni di tonnellate sono idonei al recupero energetico, che rappresenta la forma di gestione prioritaria rispetto allo smaltimento in discarica per i rifiuti che non possono essere sottoposti a recupero di materia. A questi si aggiungono 203.000 tonnellate di scarti derivanti dal trattamento delle altre frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani e non approfonditi in questa analisi (RAEE, raccolta selettiva, tessili, rifiuti da costruzione e demolizione e spazzamento stradale a recupero). Gli scarti generati dal trattamento di tutte le frazioni della raccolta differenziata dei rifiuti urbani costituiscono complessivamente circa il 19% del materiale raccolto per via differenziata, e se sommati al RUR attualmente generato lo incrementano del 26%, portando il quantitativo complessivo a sfiorare le 16 milioni di tonnellate all’anno».

Come riassumono dunque da Ricicla-tv, i numeri messi in fila dal Polimi «dicono che nel 2018 il trattamento di 17,5 milioni di tonnellate di rifiuti differenziati ha generato ben 3,2 milioni di tonnellate di scarti, circa un quinto del totale raccolto. Non tutte le filiere però generano uguale quantità di residui non riciclabili: per il vetro è il 14,8% del totale, per l’umido il 18,2%, per la carta il 22,6% mentre per alluminio e acciaio la percentuale supera di poco il 30%. Ma il dato più allarmante è quello sulla raccolta differenziata della plastica, che dallo studio è risultata generare, tra scarti di selezione e riciclo, oltre 778mila tonnellate di frazioni non riciclabili, pari al 66,3% del totale raccolto. Scarti che, quando non possono essere collocati in impianti sul territorio nazionale devono essere esportati a costi esorbitanti e che, quando anche la valvola dell’export viene meno, si accumulano negli impianti di selezione e riciclo fino a saturarli e a metterne a rischio il funzionamento».

Che fare dunque? La soluzione passa dagli elementi emersi ieri nel corso del webinar ‘Comparazione ambientale di scenari di sviluppo infrastrutturale nella gestione dei rifiuti’ organizzato da Utilitalia (la Federazione delle imprese di acqua, ambiente e energia).

«Il messaggio che vorremmo lanciare – dichiara il vicepresidente Filippo Brandolini – è di ‘evitare le semplificazioni’, cioè evitare di raccontare soltanto quello che fa comodo; è assolutamente indispensabile per affrontare la complessità che abbiamo di fronte. Dopo 20 anni di dibattito incentrato principalmente sul modello di raccolta differenziata da adottare, dobbiamo prendere decisioni urgenti e fare scelte coraggiose, cercando di recuperare un gap che se possibile è anche aumentato in questi anni; un divario sia culturale che industriale, oltre che di organizzazione e dotazione impiantistica. Abbiamo degli scenari di riferimento sulla base dei quali orientare le decisioni: il Programma nazionale di Gestione dei Rifiuti, il Piano Energia e Clima e la Tassonomia. Dobbiamo essere consapevoli – continua Brandolini – che la gestione dei rifiuti è parte dell’economia circolare, ma questa innanzitutto si può verificare o meno con l’immissione dei prodotti nel mercato, e quindi dalla loro progettazione, dall’eco-design, dalla loro riutilizzabilità o riciclabilità Nello studio presentato oggi, che punta a individuare qual è la soluzione migliore per la gestione dei rifiuti, è stato evidenziato un passaggio fondamentale ovvero che la strategia del recupero energetico determina il rendimento ambientale di un sistema di gestione; in altre parole se non abbiamo chiaro come risolviamo il problema di quei rifiuti non riutilizzabili e non riciclabili rischiamo di ostacolare e rendere più difficile tutto il processo».

In questo contesto anche le discariche «rimarranno indispensabili ma devono svolgere un ruolo residuale, dovranno essere impianti specialistici, ben distribuiti sul territorio nazionale e che per essere efficienti non abbiano bacini. Per il rispetto dei target di economia circolare, occuparsi delle discariche è una priorità e conseguentemente, come evidenziato dallo studio, va limitato il ricorso a impianti intermedi come i Tmb. Poi è necessario fare una scelta sul trattamento dell’organico, per il quale abbiamo stimato che al 2035 servono capacità impiantistiche aggiuntive per circa 3,2 milioni di tonnellate di rifiuti. Occorre inoltre recuperare e reinterpretare il principio di prossimità. Abbiamo visto che il trasporto dei rifiuti non è indifferente rispetto agli impatti ambientali; oggi 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti vanno dalle regioni centro-meridionali a quelle settentrionali».

fonte: www.greenreport.it

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Premio #sprecozero, da birra ibrida a cibo sempre-fresco

 


Dalla Birra Ibrida prodotta con il pane invenduto nei forni milanesi creata da 4 studenti del Politecnico di Milano, alla tecnologia di un’azienda di Pordenone che attraverso sistemi di riscaldamento allunga la shelf life al cibo fresco, al processo di ultima generazione che risolve i problemi di gestione dei prodotti e delle scorte. Sono alcuni dei 21 progetti vincitori degli ‘Oscar’ 2020, l’ottava edizione del premio che promuove le buone pratiche di enti pubblici, imprese, cittadini, scuole e associazioni. Tanti esempi virtuosi e creativi che uniscono sostenibilità e spirito imprenditoriale, veicolando valori di aggregazione sociale che sono stati festeggiati il 26 novembre alla presenza della testimonial Veronica Pivetti e del fondatore Spreco Zero Andrea Segrè. Per vivere a #sprecozero nel segno della dieta mediterranea arriva il ricettario “La cucina del riciclo” di un Liceo di Portici scritto in collaborazione con il MedEatReserarch. Al turismo ecologico ci ha pensato la Regione Toscana con il progetto ‘Urban Waste’ per la diffusione dell’uso di doggy Bag in buffet e ristoranti e per aver favorito la donazione di cibo da parte degli hotel alle associazioni solidali. Menzione special poi alla Regione Emilia Romagna con il progetto ‘Stop allo spreco: il gusto del consumo consapevole’, che ha coinvolto studenti e fattorie didattiche. Tanti i riconoscimenti, come il premio Biodiversità ai video di casa Surace che sensibilizzano sulla varietà del gusto e dei cibi o il premio Ortofrutta al Gruppo Rivoira per la tecnologia Cherry Vision 3.0 che ha permesso di recuperare i raccolti di ciliegie danneggiate dal maltempo.


fonte: www.ansa.it


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Nuove sfide e scenari della transizione energetica

Si svolge il 25 settembre 2020 il seminario promosso dal Politecnico di Milano



Il seminario, a cui è possibile partecipare liberamente previa registrazione, è proposto con modalità online sulla piattaforma Teams.

I relatori sono Alberto Clò, Professore di Economia Applicata, e Maurizio Delfanti, Amministratore Delegato di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico) e Professore di Sistemi Elettrici per l’Energia al Politecnico di Milano.

Ulteriori informazioni su questo evento…

fonte: http://www.arpat.toscana.it/

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Mobilità elettrica in Italia: a che punto siamo?

A che punto siamo con la diffusione della mobilità elettrica in Italia? Perché rispetto ad altri Paesi europei nel Belpaese l’emobility stenta ancora a decollare? Si risparmia o si inquina meno con un’auto elettrica? Risponde a queste ed altre domande uno dei massimi esperti del settore in Italia: Simone Franzò, Assistant Professor e Direttore Osservatorio Smart Mobility - Energy & Strategy del Politecnico di Milano.

















Professore, a che livello è la diffusione di mezzi elettrici e quali prospettive di sviluppo ci sono per la mobilità elettrica in Italia?


Nel 2018 sono state immatricolate 9.579 auto elettriche (+96% rispetto al 2017), di cui 5.010 veicoli elettrici “puri” (+150% rispetto al 2017) e 4.569 veicoli elettrici “ibridi plug-in” (+60% rispetto al 2017), pari complessivamente allo 0,5% delle immatricolazioni di auto registrate in Italia. Questo porta il totale delle auto elettriche circolanti in Italia a fine 2018 a circa 22.000 unità. Nei primi otto mesi del 2019, le immatricolazioni di BEV in Italia sono in crescita del 109% rispetto allo stesso periodo del 2018 e sono pari a oltre 6.000 unità trainate dall’entrata in vigore dell’Ecobonus, avvenuta ad aprile 2019. Gli scenari di diffusione delle auto elettriche che abbiamo elaborato sono molto interessanti: si prevede che il parco circolante di veicoli elettrici al 2030 (sia “puri” che “ibridi plug-in”) sarà di oltre 2,5 milioni nello scenario più conservativo, fino a quasi 7 milioni nello scenario di sviluppo “accelerato”.




Quali sono state finora le principali barriere all’emobility in Italia, rispetto ad altri Paesi europei?

La principale barriera all’acquisto di un veicolo elettrico in Italia è di tipo economico e fa riferimento all’elevato costo iniziale dell’auto elettrica (rispetto a modelli comparabili con motorizzazioni tradizionali). È una barriera su cui si sta lavorando, sia a livello italiano che internazionale, con l’introduzione di incentivi all’acquisto dei veicoli elettrici.Di minor incidenza invece i “problemi” relativi all’inadeguatezza della rete di ricarica, peraltro in diminuzione in virtù del significativo incremento del numero di punti di ricarica registrato nel nostro Paese, ed in secondo luogo all’autonomia limitata dei veicoli elettrici.




La diffusione dell’infrastruttura di ricarica in Europa è davvero così limitata?

L’Europa vede a fine 2018 la presenza di circa 160.000 punti di ricarica pubblici (pari al 30% dei punti di ricarica pubblici installati a livello globale), di cui circa il 15% «fast charge», complessivamente in crescita del 14% rispetto all’anno precedente. La crescita dei punti di ricarica «fast charge» è stata molto più accentuata rispetto a quella dei punti «normal charge» in termini percentuali (rispettivamente 30% e 12%). Tale fermento è confermato da quanto accaduto nei primi 8 mesi del 2019, quando sono stati installati più di 15.000 punti di ricarica pubblici, portando il totale dei punti di ricarica installati a circa 176.000. Guardando a livello di singolo Paese, la diffusione dei punti di ricarica a fine 2018 è estremamente disomogenea nei diversi Paesi europei, sia in termini assoluti che rapportando il numero di punti di ricarica agli abitanti, con una significativa predominanza dei Paesi del nord Europa.


Quando si ha un’auto elettrica si risparmia davvero?

I fattori che possono influenzare l’effettivo risparmio derivante dall’utilizzo di un veicolo elettrico sono molti: la tipologia di ricarica (ad esempio a pagamento piuttosto che gratuita), la possibilità di usufruire di agevolazioni per l’utilizzo del veicolo (come i parcheggi gratuiti su strisce blu o l’accesso a ZTL), lo stile di guida…giusto per citarne alcuni. All’interno dello Smart Mobility Report (ed. 2019) si è cercato di rispondere a questa domanda, analizzando il cosiddetto Total Cost of Ownership di un veicolo elettrico rispetto ad un veicolo «tradizionale» equivalente, basandosi su condizioni medie di mercato. Dall’analisi emerge che la «sola» presenza dell’incentivo all’acquisto nazionale a favore del veicolo elettrico fa sì che esso impieghi circa 5 anni per «pareggiare» il costo di un’auto a benzina, risultando in un risparmio di circa 7.000 € nell’arco dei 10 anni. Uno scenario più “favorevole” vede la presenza di un incentivo regionale all’acquisto di auto elettriche pari a €3.500, cumulabile con l’Ecobonus, in aggiunta alla presenza di incentivi all’uso del veicolo elettrico, fa sì che l’auto elettrica impieghi circa 2 anni per «pareggiare» il costo di un’auto a benzina.





Al di là dei costi, è vero che un’auto elettrica inquina come quelle diesel o a benzina?

Le analisi del sopracitato Rapporto mostrano che le emissioni di anidride carbonica lungo il ciclo vita del veicolo risultano inferiori per i veicoli elettrici (BEV) rispetto ai veicoli con motore a combustione interna (ICEV). È da sottolineare, anche in questo caso, che i risultati risentono in maniera significativa ad esempio della localizzazione della produzione dei componenti del veicolo e del mix di generazione con cui il veicolo elettrico è alimentato. In entrambe le tipologie di veicolo (BEV ed ICEV), si identifica come «worst case» lo scenario in cui la produzione della batteria e l’assemblaggio del veicolo avvengono in Cina, in primis dovuto alle caratteristiche del mix di generazione di energia; viceversa, il «best case» è associato alla filiera «100% italiana», in cui tutti i componenti del veicolo sono prodotti ed assemblati in Italia. Passando da produzione ed assemblaggio cinese ad italiana, il «risparmio» è nell’ordine o superiore al 30% per i BEV ed al 15% per gli ICEV. Si evidenzia inoltre un margine di miglioramento rilevante per i veicoli elettrici nella fase di utilizzo analizzata per l’Italia, legato ad una potenziale maggiore penetrazione delle fonti di energia rinnovabile nel mix di generazione di elettricità, peraltro attesa nei prossimi anni in Italia sulla base di quanto previsto dal PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima).

@AndreaBertaglio

fonte: https://www.mondoabb.it

Le comunità energetiche e la nascita di nuovi sistemi socio-energetici

Il modello organizzativo delle imprese sociali a matrice comunitaria per migliorare la diffusione dell'energia distribuita da rinnovabili. Un’intervista a Luca Tricarico del Politecnico di Milano, che ha analizzato l’esperienza londinese della Banister House Solar.

















Le questioni tecnologiche rappresentano solo una parte della discussione sull’energia. Il progressivo coinvolgimento delle comunità locali nella proprietà, nel processo decisionale e nell’organizzazione degli impianti di produzione di energia fa intravedere la nascita di un nuovo sistema socio-energetico basato sulla generazione distribuita da rinnovabili.
L’energia è dunque un ambito che pone sempre più spesso questioni di carattere sociale.
La sociologa Natalia Magnani rilevava, proprio in una nostra intervista su QualEnergia.it, il problema dell’accettabilità sociale delle rinnovabili, chiarendo che la loro pianificazione non dovrebbe più mirare all’accettazione di una tecnologia da parte delle comunità locali, quanto piuttosto a verificare la sua adeguatezza rispetto a un territorio inteso come comunità.
A livello europeo, l’evoluzione normativa in materia di energia è sempre più volta alla promozione di nuove modalità di sviluppo, efficienza e impiego delle rinnovabili. Per questo particolare attenzione è dedicata ad incrementare iniziative di produzione e consumo a livello locale.
In un articolo di recente pubblicazione dal titolo Community energy enterprises in the distributed energy geography: A review of issues and potential approaches” (allegato in basso), Luca Tricarico, dottore di ricerca in Urban Planning, Design and Policy al Politecnico di Milano e ricercatore della fondazione Nesta Italia, fa un ulteriore passo nel percorso di coinvolgimento delle comunità nella produzione di energia.
Basandosi su best practices e casi di studio del mondo anglosassone, Tricarico suggerisce la possibilità di adottare le Imprese Energetiche di Comunità (Community Energy Enterprises) come uno specifico modello organizzativo per migliorare la diffusione dell’energia distribuita, promuovendo nuovi approcci per i sistemi energetici basati sulla comunità.
Perché è così importante il coinvolgimento delle comunità nella transizione verso la generazione distribuita di energia?
«Le nuove tecnologie per la produzione distribuita di energia stanno raggiungendo un livello di maturità che lascia presagire un ampio sviluppo di iniziative dal basso nella costituzione di “sistemi energetici locali”, formule che giocano un ruolo cruciale nella ridiscussione dell’intero sistema infrastrutturale e del mercato dell’energia. Se questo tema è ampiamente trattato dal punto di vista tecnologico e ingegneristico, il dibattito sulle caratteristiche delle organizzazioni che dovranno guidare le iniziative locali è appena iniziato».
A quale modello ci si potrà ispirare?
«Per la natura di queste operazioni e per la capacità dimostrata in altri settori, quello delle imprese sociali a matrice comunitaria sembra essere un modello ampiamente valido per sostenere il potenziale di questa transizione. La nascita di queste imprese sociali è infatti possibile grazie a uno stretto legame con il territorio: le risorse e gli esiti delle attività prodotte si basano su una rete di attori locali. Il caso studio di Banister House Solar descritto nella ricerca è rappresentativo di progetti accomunati da un percorso di costruzione di trame di relazioni e asset territoriali essenziali al loro sviluppo. Il punto critico è rappresentato dagli aspetti normativi e regolatori relativi al “grande” mercato energetico, un ecosistema normativo basato su operatori, produzioni e reti centralizzate che poco si presta alle particolari esigenze delle iniziative locali».
QualEnergia.it ha riportato il caso dell’isola greca di Sifnos dove, con un progetto energetico ibrido dal basso, la Sifnos Island Cooperative è riuscita a modificare i quadri giuridici nazionali. Possiamo definire quello di Sifnos un caso di impresa di comunità?
«Sicuramente dal punto di vista tecnologico e organizzativo le soluzioni che troviamo in territori remoti come le isole richiamano in modo rilevante l’importanza di organizzazioni come le imprese di comunità. Da un punto di vista tecnologico, l’aspetto interessante delle energy communities è la tendenza a creare network locali non gerarchici, ma comunque competitivi con il grande mercato energetico. L’aumento dell’autonomia e della possibilità di scelta in termini di soluzioni più adatte alle esigenze locali generano la prevedibile riduzione dei costi per i consumatori finali. L’energia auto-consumata dai sistemi locali, inoltre, non è più trasportata tramite una rete pubblica di trasmissione e distribuzione, comportando così una riduzione delle perdite del sistema complessivo».
E da un punto di vista organizzativo?
«Qui l’aspetto più interessante è il tema della proprietà dei mezzi di produzione e degli spazi in cui questi si trovano: divisi tra i membri della cooperativa, organizzazioni terze e amministrazioni locali, tramite uno scambio di risorse utile alla costruzione di una sostenibilità economica e sociale. Una formula di proprietà degli impianti e del suo sistema di distribuzione che vede come condizione di successo la nascita di “patti di collaborazione” che giovano alla comunità in senso allargato e non solo relativo a quella partecipe all’impresa».
Il progetto inglese della Banister House Solar prevede di coprire i tetti di 14 edifici con pannelli solari per una potenza di quasi 102 kW. Come si differenzia questo progetto da quello di Sifnos?
«Nel caso della Banister House Solar si è trattato di un processo duplice. Da un lato la creazione di un’impresa sociale, basata su una campagna di crowdfunding che ha visto protagonisti in qualità di project manager Repowering London, un’organizzazione londinese che promuove progetti di community energy in stretta collaborazione con un’organizzazione locale, Hackney Energy, che ha contribuito alla mobilitazione della comunità locale con il suo patrimonio di conoscenza del territorio. Dall’altro lato, un patto di collaborazione con il borgo londinese di Hackney e con l’ente gestore del patrimonio di housing pubblico, con l’obiettivo di creare un’impresa sostenibile rispetto alle esigenze della comunità locale e che producesse benefici distribuiti».
Come si colloca un’impresa di comunità nel panorama normativo italiano? La Banister House Solar è anche B Corporation (Società Benefit) una forma giuridica esistente in Italia, ma poco praticata.
«Dal punto di vista delle norme italiane che regolano il campo d’azione delle imprese di comunità è evidente come la mancanza di un efficace recinto, ex-lege, in cui inquadrarne le attività allontani la possibilità di impostare un quadro di policy nazionale utile ad affermare il loro ruolo come attori chiave nei processi di diffusione: non risulta chiara la definizione dei servizi e degli obiettivi che si identificano di interesse generale e non è ben definita la presenza di strumenti che garantiscano ad organizzazioni identificabili come imprese di comunità le agevolazioni utili a promuoverne un’azione coordinata. Dal punto di vista delle misure di promozione di sistemi energetici locali, nonostante il potenziale di diffusione del mercato italiano, come evidenziato da una ricerca del Politecnico di Milano già quattro anni fa, la definizione normativa delle organizzazioni capaci di proporre veri e propri sistemi energetici locali considera modalità come i Sistemi Efficienti di Utenza e le Reti Interne di Utenza, di difficile applicazione a causa dei vincoli temporali di entrata in esercizio. Le misure di promozione si focalizzano inoltre sull’incentivazioni di soluzioni tecnologiche singole, come Titoli di Efficienza Energetica, Conto Energia o Conto Termico, trascurando di introdurre particolari misure su aggregazioni di tecnologie e utenti».
Un recente approfondimento sull’evoluzione del crowdfunding ci dice che il crowdfunding energetico nasce come risposta all’esigenza del coinvolgimento del cittadino nel settore energetico, proponendo inizialmente investimenti in progetti di comunità promossi dal basso.
I dati dello studio però mostrano come il settore si stia progressivamente differenziando, includendo tra i promotori di progetti non solo comunità energetiche locali, ma anche soggetti più istituzionali: al dicembre 2017 più del 92% dei progetti sono stati proposti da aziende e solo il 5% da iniziative di comunità.
Come valuta questa tendenza? Si tratta di uno spostamento verso un approccio capitalistico e meno comunitario, di una contaminazione positiva delle imprese rispetto alla opportunità di coinvolgere i cittadini nei loro progetti energetici o, più semplicemente, di una scelta opportunistica?
«Il crowdfunding è uno strumento e come tale va considerato. Se accompagnato da politiche utili a migliorarne la portata e l’accessibilità come strumento utilizzabile da tutti ha sicuramente un potenziale di “democratizzazione” del mercato energetico e tecnologico. La teoria dell’innovazione mainstream suggerisce che crescita economica e innovazione tecnologica sono strettamente intrecciate e che il progresso tecnologico provoca nuove traiettorie di sviluppo industriale e tecnologie dirompenti che contribuiscono alla creazione di nuove opportunità di mercato. L’introduzione di strumenti come il crowdfunding può guidare le comunità locali a penetrare mercati abitati solitamente da grandi player. Si tratta di un dato positivo perché arricchisce in senso plurale un mercato una volta considerato molto uniformato alle infrastrutture dominanti e di difficile innovazione “sociale” ».
Un discorso che può essere allargato anche ad altri strumenti e iniziative?
«Queste considerazioni sono valide anche per tanti altri settori di attività che giovano della platform economy, del digitale e delle emerging tech come blockchain e intelligenza artificiale: un campo di azione totalmente nuovo per le organizzazioni basate sulla comunità, con opportunità e minacce da valutare. Se ci concentriamo sugli aspetti positivi dell’innovazione notiamo come diversi strumenti digitali, in campo energetico ma non solo, possono promuovere la disintermediazione, favorendo la nascita di nuove imprese specializzate in filiere innovative in grado di ridurre i costi di distanza e di transazione del mercato energetico».

fonte: www.qualenergia.it

IDEA: vince mOOve, la pista ciclabile innovativa

A vincere la seconda edizione dell’Innovation Dream Engineering Award (IDEA) è mOOve, un sistema di pista ciclabile modulare e intelligente, realizzata dalla sturtup REVO con plastica e gomma riciclate





















Un sistema di pista ciclabile modulare e intelligente, realizzata con plastica e gomma riciclate, dotata di illuminazione integrata e adatta a qualsiasi tipologia di terreno. Con questo brevetto innovativo la REVO, startup milanese attiva nello sviluppo di infrastrutture e della mobilità leggera, si è aggiudicata il primo premio della seconda edizione dell’Innovation Dream Engineering Award (IDEA), il concorso rivolto a startupper e innovatori e dedicato a progetti innovativi sulle tematiche di smart living, smart cities, domotica e biotecnologie.

mOOve è, infatti, il nome del progetto vincitore, una pista ciclabile smart che, oltre a favorire l’utilizzo della bicicletta e a farlo diventare il primo mezzo di mobilità urbana, punta anche al riciclo della plastica, utilizzata come materia prima per la realizzazione delle strutture necessarie all’implemento della pista. Il team di startupper si è ispirato alle città del Nord Europa e ha cercato di sviluppare un progetto che punti alla bicicletta come mezzo di mobilità sostenibile. L’innovativa pista ciclabile è tra l’altro dotata di un sistema di sensori che non solo aiutano a tenerne d’occhio la manutenzione, ma forniscono anche dati e informazioni ambientali sulla qualità dell’aria e sulla concentrazione di polveri sottili. “Se prima la realizzazione di piste ciclabili era solo un costo – spiega il team di REVO – esso ora può diventare anche un ricavo per le amministrazioni pubbliche. Un vantaggio sia per i cittadini sia per i comuni”. 

L’Innovation Dream Engineering Award è un’iniziativa promossa dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano, dalla Commissione Startup e Settori Innovativi, InnoVits e la Fondazione Ordine Ingegneri della Provincia di Milano in collaborazione con diversi partner regionali. La seconda edizione è stata lanciata nel 2018 e si è conclusa oggi al Politecnico di Milano con l’evento di premiazione. I finalisti sono stati valutati da una giuria di esperti che ha decretato il vincitore. Il premio aggiudicato prevede la partecipazione a SMAU 2019 (in programma a Milano dal 22 al 24 ottobre), la partecipazione in qualità di VIP alla nona edizione della Fiera di Parma 2019 SPS IPC Drives Italia (28-30 maggio), 50 ore di formazione a scelta dal catalogo corsi della Fondazione dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano (FOIM) e un canale aperto con le numerose Commissioni OIM per supportare lo sviluppo del progetto imprenditoriale.

fonte: www.rinnovabili.it

SIVEQ, il software del Politecnico di Milano per facilitare la ricezione delle donazioni alimentari

Le informazioni sui prodotti alimentari in scadenza verranno automaticamente caricate in internet dai negozi e le organizzazioni potranno visualizzare in tempo reale lo stato delle eccedenze loro assegnate e meglio prepararsi a riceverle















Ogni giorno un gran numero di prodotti alimentari rimane invenduto nei negozi, soprattutto nella grande distribuzione. Le eccedenze sono prodotti vicini alla data di scadenza che possono essere destinati alle persone in stato di bisogno, ma che per la maggior parte vengono purtroppo ancora distrutte, a causa delle inefficienze nell’organizzazione della raccolta.
Il team di SIVEQ, Sistema Integrato di Valorizzazione delle Eccedenze alimentari nel Quartiere, parte da questa paradossale coesistenza di povertà e spreco, e intende sviluppare metodi e tecnologie per organizzare efficientemente la redistribuzione agli enti caritatevoli operanti sul territorio che, a loro volta, li redistribuiranno alle persone indigenti.
Il progetto nasce dall’analisi della situazione del Municipio 9 di Milano, un territorio con tessuto sociale molto variegato. Al suo interno sono state mappate 233 onlus attive, con la volontà di coinvolgerne in futuro il maggior numero possibile.
L’obiettivo è utilizzare tecnologie emergenti per la collezione (5G, NB-IoT) e l’elaborazione (Big Data Analytics) dei dati sulle eccedenze alimentari dei supermercati e sviluppare un processo di raccolta che riduca al minimo gli sprechi. Lo scopo ultimo del progetto è la realizzazione di una piattaforma software e hardware per l’ottimizzazione del processo di recupero delle eccedenze che sia a basso costo, replicabile ed adattabile ad un ampio numero di contesti.
 SIVEQ, il software del Politecnico di Milano per facilitare la ricezione delle donazioni alimentari







Come è progettata questa piattaforma? SIVEQ prevede la raccolta delle informazioni sulla quantità, lo stato e la prossimità alla data di scadenza mediante l’utilizzo di scanner. Le informazioni vengono lette direttamente dall’imballaggio utilizzando il GS1-DataBar, un nuovo standard di codice a barre che permette di tenere traccia di informazioni aggiuntive per ogni prodotto come la data di scadenza. È possibile inoltre scattare foto per verificare lo stato dell’imballaggio. Mediante un software installato sui dispositivi in dotazione al personale, le informazioni verranno automaticamente caricate in internet. All’interno del cloud i dati provenienti dai vari punti vendita verranno raccolti e analizzati col fine di soddisfare al meglio i requisiti di cibo inseriti dalle organizzazioni benefiche. Sulla base dei dati raccolti sarà possibile individuare problematiche quali buchi di copertura e instaurare nuovi collegamenti logistici. Le organizzazioni potranno visualizzare in tempo reale, tramite interfaccia web o app, lo stato delle eccedenze loro assegnate e meglio prepararsi a riceverle, trasformarle ed eventualmente integrarle con acquisti.
SIVEQ è uno dei progetti vincitori di Polisocial Award 2017, sul tema della valorizzazione delle periferie urbane. Il responsabile scientifico è Maurizio Magarini del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, mentre la project manager è Giulia Bartezzaghi del Dipartimento di Ingegneria Gestionale. Collaborano Giacomo Verticale, Davide Scazzoli ed Atul Kumar del DEIB, e Marco Melacini del DIG.
Partner del progetto sono Coop Lombardia e Assolombarda.
fonte: www.ecodallecitta.it