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Rifiuti nucleari tra spese e ritardi in attesa del deposito nazionale

 













“Realizzare il Deposito nazionale, completare il più rapidamente possibile lo smantellamento degli impianti nucleari, mettere l’autorità di controllo nelle condizioni di operare con la massima efficacia: sono queste le priorità oggi in materia di radioattivi, a cui l’Italia non può sottrarsi”. È la sintesi del presidente della Commissione bicamerale Ecomafie, Stefano Vignaroli, alla presentazione della relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi in Italia, approvata ieri all’unanimità dalla Commissione e trasmessa ai presidenti delle Camere.

La relazione è giustamente impietosa: la gestione dei rifiuti radioattivi in Italia è un mezzo disastro. Manca un deposito nazionale adeguato, le scorie stanno sparse in tanti siti poco sicuri. I controlli sono carenti, la gestione discutibile, mancano perfino le normative.

La situazione dei depositi delle scorie

I siti che attualmente custodiscono le scorie sono sparsi lungo la Penisola, costano fino a 10 milioni all’anno l’uno, ma spesso sono vecchi, malridotti e insicuri. I casi più eclatanti sono gli impianti di Saluggia (Vercelli), il sito ITREC di Rotondella (Matera), il CEMERAD di Taranto (quest’ultimo addirittura un capannone abbandonato, senza sorveglianza).

La Commissione non usa parole lusinghiere per la società pubblica che gestisce gli impianti e le scorie nucleari, la Sogin, che negli anni ha visto “considerevoli aumenti di tempi e di costi, a carico della collettività”. E i costi e i tempi del decommissioning delle centrali nucleari (attualmente 7,9 miliardi di euro, con fine dello smantellamento nel 2035) rischiano di aumentare, se non si realizza presto il Deposito nazionale. Quanto all’ente di controllo sul nucleare in Italia, l’Isin, secondo l’Ecomafie soffre di cronica carenza di personale: “Appare quanto mai necessario un aumento delle risorse”.

Il Deposito nazionale

Sul tavolo della relazione, ovviamente, anche il deposito unico nazionale, per il quale a inizio anno è stata finalmente pubblicata la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi), ossia la mappa che individua le località che rispondono ai requisiti per ospitare l’infrastruttura. Una mappa temutissima, che ha messo in agitazione i Comuni che amministrano le 67 aree candidate. Le levate di scudi dei sindaci hanno indotto il Parlamento a concedere una proroga dei tempi per presentare le contro-deduzioni a Sogin. Ma si rischiano nuovi ritardi.

L’impianto è un’infrastruttura critica e urgente, prevede un investimento da 900 milioni e darebbe da lavorare a 4.000 persone all’anno nella costruzione e a 1000 persone nella gestione. È destinato ad accogliere 78mila metri cubi di rifiuti a bassa e media intensità. Non solo l’eredità del nucleare italiano, ma anche gli scarti che tuttora generano industrie, laboratori di ricerca o applicazioni sanitarie negli ospedali. Nel depositato finiranno anche i rifiuti che l’Italia ha spedito temporaneamente all’estero, dietro pagamento. E che ora, visti i ritardi, gli altri Paesi tentennano ad accollarsi. La Francia ha interrotto il trasferimento di 13 tonnellate di rifiuti dal deposito di Avogadro, in Piemonte, propria per via dell’incertezza sulla costruzione del deposito.

Le norme (dis)attese

Sui rifiuti radioattivi mancano pure le norme: l’anno scorso sono stati approvati il Programma Nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi e la Cnapi. Ma mancano ancora numerosi decreti attuativi. Il risultato è che spesso i vari enti pubblici non riescono a coordinarsi fra di loro e finiscono per non fare nulla.

fonte: www.recoverweb.it




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Come si ricicla una centrale nucleare



Vista dall’Italia – che con il referendum del 1987 fermò la produzione di energia nucleare sul territorio nazionale - la questione del decommissioning delle centrali è una vecchia storia che fatica a giungere ad una fine. La verità però è che, da un punto di vista globale, si tratta di una storia appena cominciata. Il parco nucleare mondiale sta invecchiando. Secondo dati della metà del 2020, i reattori attualmente operativi in tutto il mondo sono 440 distribuiti in una trentina di Paesi, con Stati Uniti (95 reattori), Francia (57) e Cina (47) in cima alla lista. Di questi, circa 270 hanno più di 30 anni. Se si considera che, fatta eccezione per gli impianti di ultima generazione, le centrali nucleari erano state originariamente progettate per una vita utile di una trentina d’anni, si capirà l’entità delle faccenda.
Gli esperti di IAEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ci forniscono qualche dato più preciso: “Oggi i reattori in stato di shutdown sono oltre 190 in 20 Paesi. Di questi, 17 sono stati completamente dismessi, mentre altri stanno per giungere alle fasi finali dello smantellamento. Nel prossimo decennio, stimiamo che verranno messi in stato di shutdown permanente altri 100 reattori in tutto il mondo”.
Insomma, che si voglia o meno continuare sulla strada del nucleare, quel che è certo è che ora bisogna fare i conti con i lasciti della prima stagione dell’energia atomica. Lasciti che, in realtà, sono costituiti da scorie radioattive solo in minima percentuale (5%) e la cui gran parte – non pericolosa - potrebbe invece essere recuperata ad altri usi. Aprendo così la porta, anche in campo di decommissioning nucleare, all’economia circolare.

Prodromi di economia circolare nel decommissioning nucleare italiano

“Pratiche di riciclo e riuso di componenti non sono in realtà nuove nel settore nucleare: si applicano sin dagli anni ‘90, prima che si cominciasse a parlare di economia circolare”, racconta Flaviano Bruno, responsabile del settore Rifiuti radioattivi di Sogin, la società pubblica che da oltre vent’anni si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari dismessi in Italia.
Dopo il referendum del 1987, l’Italia è stata tra i primi paesi al mondo a doversi confrontare con il decommissioning nucleare. Le quattro ex centrali di Trino, Caorso, Latina e Garigliano, l'impianto di produzione di combustibili a Bosco Marengo e gli ex impianti di ricerca e ritrattamento di Saluggia, Casaccia e Rotondella vennero subito messi in condizione di safe store o custodia protettiva passiva, seguendo la pratica internazionalmente riconosciuta di “smantellamento differito”. Solo nel 1999 si avviò il cosiddetto “decommissioning accelerato” con l’entrata in gioco di Sogin. Il termine “accelerato” suona un po’ ironico se si pensa alla ormai lunga storia della dismissione nucleare italiana, tra intoppi burocratici, avvicendamenti ai vertici, sindrome Nimby e mancate assunzioni di responsabilità da parte della politica. Le lungaggini, tuttavia, vanno rapportate agli orizzonti temporali lontanissimi della gestione dei rifiuti radioattivi, dove un sito di smaltimento (come il Deposito Nazionale per i rifiuti a bassa radioattività, di cui si sta discutendo in queste settimane) va progettato per una durata di centinaia di anni, mentre un deposito geologico deve essere adatto a custodire le scorie per millenni.
Scorie radioattive a parte, sin dall’inizio del processo si è tuttavia cercato di recuperare i materiali riutilizzabili secondo pratiche che, già nel 2001, un documento redatto da IAEA ha cominciato a individuare e standardizzare. Sull’onda della crescente attenzione per l’economia circolare, nel 2019 è stata poi la stessa Sogin, forte dell’esperienza accumulata, a organizzare in collaborazione con IAEA un workshop sulle pratiche circolari per il decommissioning. Un’occasione di incontro e discussione fra esperti da tutta Europa e dal Giappone, ma anche una specie di ingresso ufficiale dell’economia circolare nel mondo del nucleare.


Credits: Sogin
Di una centrale nucleare non si butta via (quasi) niente

Che cosa si recupera, in pratica, dallo smantellamento di una centrale nucleare?

La prima cosa da sapere, spiega Flaviano Bruno a Materia Rinnovabile, “è che solo il 5% del materiale dismesso da una centrale è radioattivo. Del restante, circa un 90% può essere recuperato o riciclato, mentre un altro 5% viene smaltito come rifiuto convenzionale”.
La gran parte del materiale smantellato è costituito da cemento e metallo, separati attraverso un processo di deferrizzazione del cemento armato. Ci sono poi quantità minori di altri materiali, soprattutto plastiche, più difficili da gestire. “Il motivo principale – continua Bruno – è che non esiste un unico tipo di plastica e ciascuna ha una diversa linea di gestione, senza contare poi che, essendo le centrali piuttosto vecchie, in alcuni casi le plastiche usate non hanno più una filiera di riferimento. Inoltre, le quantità minime presenti non ci consentono di raggiungere economie di scala e il processo diventa quindi inefficiente. Ci stiamo però lavorando per migliorare ulteriormente la percentuale di riciclo”.
Secondo le stime di Sogin, il decommissioning delle centrali e degli impianti nucleari italiani permetterà di recuperare oltre un milione di tonnellate di materiale. E il recupero è già cominciato. “Ad esempio a Caorso – racconta Bruno - dove nel 2014 lo smantellamento dell’edificio Off Gas (dove si trattavano gli scarichi gassosi prima della loro emissione in atmosfera ndr) ha prodotto circa 7.000 tonnellate di calcestruzzo, trasformate poi in materia prima seconda e riutilizzate per riempire gli scavi prodotti dallo smantellamento dei sistemi interrati attigui alla struttura”. Nel complesso, dalla dismissione dell’intera centrale di Caorso la società conta di recuperare 300mila tonnellate di materiali su 320mila, ovvero il 93% del totale.
Altro esempio recente è la gestione della lana di roccia che serviva per la coibentazione dell'impianto di Latina. “Una parte della lana di roccia è stata rilasciata, mentre la porzione contaminata è stata trattata con una super pressa per ridurne il volume - continua l’ingegner Bruno - Siamo partiti da 190 metri cubi di materiale: di questi, 120 metri cubi sono stati rilasciati per il riciclo e i restanti 70 compattati, arrivando a poco più di una decina di metri cubi di materiale da smaltire”.
Ridurre al minimo i volumi dei rifiuti radioattivi è infatti uno dei principi cardine del decomissioning nucleare: viste e considerate le problematiche legate al loro smaltimento in sicurezza e alla difficoltà nel trovare un sito dove stoccarle (in Europa, per il momento, solo Finlandia e Svezia stanno costruendo un deposito geologico permanente), è fondamentale che occupino meno spazio possibile.

Radioattività e sicurezza

Tornando ai materiali riciclabili, il primo dubbio che sorge quando si parla di economia circolare applicata al settore nucleare è, ovviamente, la sicurezza. Si tratta, a dire il vero, di un dubbio profano, perché per gli addetti ai lavori è abbastanza scontato che il materiale “rilasciato” debba essere sottoposto a controlli scrupolosi per verificarne i livelli di radioattività. La trafila, anzi, comincia ben prima di partire con lo smantellamento. “Si fanno delle analisi preliminari e delle caratterizzazioni chimico-fisiche e radiologiche per riuscire a capire esattamente come gestire tutti i flussi di materiali – spiega Flaviano Bruno – È necessario infatti adottare metodi di segregazione puntuale per dividere i rifiuti radioattivi dai materiali ‘convenzionali’. Appena smontato un componente, se sappiamo che può essere rilasciato, dobbiamo gestirlo in maniera separata onde evitare che possa esserci una cross-contamination. La segregazione dei materiali avviene già a livello di logistica, con aree di stoccaggio separate, un po’ come si fa adesso negli ospedali con i rifiuti Covid. Il concetto di fondo è lo stesso: separare i flussi in modo da poter gestire il materiale in maniera coerente con quella che sarà la sua fine”.


Garigliano: smantellamento del turboalternatore (credits: Sogin)
Rilascio, riuso, riciclo

Una volta che i materiali sono stati rilasciati in sicurezza, per cosa e in quali settori si potranno riutilizzare e riciclare? La destinazione dipende dagli standard e dalle leggi vigenti in ciascun Paese. “In Italia ad esempio vige il rilascio incondizionato o free release - precisa Bruno - Significa che ciò che esce dal sistema del controllo radiologico e che quindi è rilasciabile, può essere riutilizzato senza condizioni d'uso”. In realtà, la responsabilità della società di decommissioning si estende anche oltre il momento del rilascio. “Per i metalli, secondo la legge, Sogin è responsabile fino all'atto della rifusione in fonderia. La fonderia, che ha l’obbligo di diluire di dieci volte il metallo che noi conferiamo, deve poi rimandarci indietro un certificato che attesti la procedura corretta”. Solo allora il metallo riciclato sarà effettivamente libero di rientrare nel ciclo produttivo.
Nonostante esistano degli standard europei e internazionali sulla gestione di questi materiali, la legge nazionale li supera sempre e così si possono riscontrare sostanziali differenze di gestione anche fra “vicini di casa”. Ad esempio in Francia non è ammesso nessun rilascio di materiale dal decommissioning delle centrali. Per un paese che ricava oltre il 70% della sua energia elettrica dal nucleare, la scelta di blindare tutti i materiali prodotti dalle dismissioni era sembrata inizialmente strategica per mantenere tranquilla l’opinione pubblica. “In realtà in questo modo si ottiene l’effetto contrario – commenta Bruno – La gran parte dei materiali non sono pericolosi, mentre proibendone il riutilizzo si alimenta l’idea che lo siano e quindi anche le preoccupazioni”.
In Germania, al contrario, ci sono degli standard di riutilizzo più larghi che in Italia. È permesso, infatti, il rilascio incondizionato per i materiali “puliti” e un rilascio condizionato con vari livelli, e in specifici ambiti industriali, per quelli lievemente contaminati (che in Italia non sarebbero rilasciabili). “In genere – precisa Bruno – si tratta di metalli leggermente contaminati che vengono riutilizzati ancora nel settore nucleare”.
Più difficile è fare un confronto con Paesi extra-europei, che non fanno riferimento a direttive UE che tendono a standardizzare molti approcci. “Ad esempio con gli Stati Uniti c’è proprio una differenza in alcuni aspetti gestionali, dovuti anche alla configurazione geografica: molti dei loro impianti sono in zone desertiche o comunque lontane dai centri abitati e quindi il loro approccio può essere più ‘rilassato’. Per noi europei, che abbiamo una situazione altamente antropizzata, la gestione dei materiali è più delicata perché deve sempre tenere conto degli impatti verso il sistema territoriale locale”.

Ostacoli e buone pratiche: il futuro del decommissioning circolare

Se il decommissioning nucleare è già di per sé un settore pieno di difficoltà, la strada per renderlo più circolare ha i suoi ostacoli peculiari.
A livello italiano si tratta spesso di lacune del sistema di gestione rifiuti nazionale, come spiega Flaviano Bruno: “Il nostro problema è soprattutto la distribuzione dei centri di raccolta, che non è capillare. È quindi spesso difficile trovare un centro di raccolta vicino dove conferire i materiali che rilasciamo e questo comporta dei costi economici che vanno valutati. Un sistema più capillare e più strutturato a livello nazionale ci permetterebbe di essere più efficaci”.
Più in generale, a ostacolare la circolarità del settore è lo stesso fattore che renderà questo decennio l’epoca del decommissioning nucleare: l’età delle centrali. “Gli impianti più vecchi sono stati progettati e gestiti con poca o nulla considerazione per i principi dell’economia circolare e un loro decommissioning sostenibile pone sfide non banali. - spiegano gli esperti di IAEA interpellati da Materia Rinnovabile - D'altra parte, però, le nuove centrali nucleari vengono ora progettate tenendo già conto del futuro smantellamento, della gestione dei rifiuti e dell'economia circolare, che offre l'opportunità di utilizzare soluzioni innovative. Ad esempio, i componenti dell'edificio del reattore possono essere costruiti in maniera modulare per uno smantellamento più facile oppure possono essere utilizzati materiali da costruzione più facili da decontaminare”.
Sicuramente lo scambio di buone pratiche anche con altri settori dell’industria più avanti in materia di economia circolare potrà aiutare a migliorare. “L'industria petrolifera e del gas, l'industria della demolizione convenzionale e altri comparti offrono preziose esperienze in termini di tecnologie disponibili, valutazione dei costi, valutazione del rischio. - commentano da IAEA - Tecnologie di remote handling, robotica e digitalizzazione utilizzate per la gestione di progetti complessi sono alcune delle nuove soluzioni disponibili che l'industria nucleare può applicare. Le nuove tecniche digitali consentono, ad esempio, indagini fisiche e radiologiche 3D che supportano la gestione delle informazioni sugli impianti da smantellare”.
Naturalmente è fondamentale anche il confronto interno allo stesso settore, tant’è che, dopo il primo workshop internazionale organizzato con Sogin nel 2019, la IAEA ne proporrà un altro nel 2021 in versione webinar.
Insomma, l’interesse per la circolarità, anche nel settore nucleare, è alto. Soprattutto perché, al di là del pur importante recupero di risorse, massimizzare il riciclo vuol dire minimizzare i rifiuti e quindi ridurre, almeno in volume, l’entità del problema delle scorie nucleari. Nell’attesa che alcuni dei progetti avveniristici attualmente allo studio per riutilizzare le barre di combustibile nucleare usate vedano la luce. Ma questo è un altro capitolo della storia.

fonte: www.renewablematter.eu

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Bratti: «Bene nuovo Ministero, ma serve potenziamento degli organismi tecnici»

 

Dal Next Generation Eu al Deposito Nazionale delle scorie radioattive: intervista a tutto campo al direttore generale di Ispra Alessandro Bratti. «Potenziamento degli organi tecnico-scientifici è fondamentale per vincere le prossime sfide ambientali»




Ricicla.tv


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Nucleare, ecco le 67 aree idonee per il deposito dei rifiuti radioattivi italiani |La mappa

 



Dopo sei anni di attesa esce nel cuore della notte tra il 4 e il 5 gennaio la mappa delle aree che potranno ospitare il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani, la cosiddetta «Cnapi», Carta delle aree potenzialmente idonee. È il documento dove sono state individuate 67 aree che soddisfano i 25 criteri stabiliti nel 2014-2015. Si tratta di Comuni raccolti in cinque macrozone, che potremmo definire così: Piemonte con 8 aree tra le province di Torino e Alessandria (Comuni di Caluso, Mazzè, Rondissone, Carmagnola, Alessandria, Quargento, Bosco Marengo e così via); Toscana-Lazio con 24 aree tra Siena, Grosseto e Viterbo (che comprendono i Comuni di Pienza, Campagnatico, Ischia e Montalto di Castro, Canino, Tuscania, Tarquinia, Vignanello, Gallese, Corchiano); Basilicata-Puglia con 17 aree tra Potenza, Matera, Bari, Taranto (Comuni di Genzano, Irsina, Acerenza, Oppido Lucano, Gravina, Altamura, Matera, Laterza, Bernalda, Montalbano, Montescaglioso; poi le Isole, con la Sardegna (14 aree) in provincia di Oristano (Siapiccia, Albagiara, Assolo, Usellus, Mogorella, Villa Sant’Antonio) e nel Sud Sardegna (Nuragus, Nurri, Genuri, Setzu, Turri, Pauli Arbarei, Ortacesus, Guasila, Segariu, Villamar, Gergei e altri); e la Sicilia, 4 aree nelle province di Trapani, Palermo, Caltanissetta (Comuni di Trapani, Calatafimi, Segesta, Castellana, Petralia, Butera). La mappa nei dettagli si può consultare sul sito depositonazionale.it .
GUARDA IL GRAFICO
RIFIUTI NUCLEARI, LA MAPPA DEI POTENZIALI SITI PER IL DEPOSITO



Spesa prevista 900 milioni

Qualche giorno fa i ministeri dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente avevano finalmente dato il «nulla osta» alla pubblicazione della mappa, tenuta rigorosamente chiusa nei cassetti della Sogin, la società che si occupa dello smantellamento delle vecchie centrali, per tutto questo tempo. La Sogin ha tenuto un consiglio straordinario lo scorso 31 dicembre. Dalla pubblicazione del 5 gennaio inizia il processo che nel giro di qualche anno porterà alla localizzazione del sito che in un primo momento dovrà contenere 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media intensità e poi anche 17 mila metri cubi ad alta attività, questi ultimi per un massimo di 50 anni (per poi essere sistemati in un deposito geologico di profondità di cui al momento poco si sa). Spesa prevista? Per il Deposito e il Parco tecnologico è prevista una spesa di 900 milioni di euro, che saranno prelevati dalle componenti della bolletta elettrica pagata dai consumatori.

I criteri

Nel suo documento del 2014 l’Ispra aveva identificato almeno 28 tra criteri ed aree di esclusione. Criteri geologici a cui se ne aggiungono altri amministrativi. E altri ancora di convenienza e buon senso: anche se le isole, Sicilia e soprattutto Sardegna, sono comprese, per loro si unirebbe alle altre complessità anche il problema del trasporto. Le prime aree da scartare sono state comunque quelle vulcaniche, e poi quelle sismiche o interessate a fenomeni di faglia; quelle soggette a frane e inondazioni, o in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici; le aree al di sopra di 700 metri di altitudine o con pendenze superiori al 10%. E ancora: quelle sino alla distanza di 5 chilometri dalla costa, in zone carsiche o vicine a sorgenti o a Parchi nazionali o luoghi di interesse naturalistico; bisogna poi mantenere un’«adeguata distanza» dai centri abitati; almeno un chilometro da autostrade, strade statali o linee ferroviarie; bisogna tenersi lontani da attività industriali, dighe, aereoporti, poligoni militari, zone di sfruttamento minerario.

78mila metri cubi di scorie radioattive

La superficie necessaria al Deposito sarà tutto sommato modesta, e pari a 150 ettari, di cui 110 per il Deposito e 40 per il Parco tecnologico. Una volta riempito, il Deposito avrà tre barriere protettive, e sarà poi ricoperto da una collina artificiale, una quarta barriera, e da un manto erboso. Le barriere ingegneristiche dovranno garantire l’isolamento dei rifiuti radioattivi per più di 300 anni, ovvero fino al loro decadimento a livelli tali da non essere più nocivi per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Si tratterà di 78mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività: 50mila dallo smantellamento degli impianti nucleari italiani (ancora quasi tutto da fare, si parla del 2036) e 28mila dalla ricerca, medicina nucleare e industria. Circa 33mila sono già stati prodotti, gli altri 50mila sono previsti per il futuro. Bisognerà poi trovare posto, (compresi nei 17mila metri cubi ad alta attività) a circa 400 metri cubi assai pericolosi, costituiti da combustibile non riprocessabile o da combustibili mandati in Francia e Gran Bretagna (a pagamento) per essere riprocessati, e che decadono in migliaia di anni. Resteranno nel Deposito per essere avviati a uno stoccaggio di profondità, anche se per ora non si sa dove, come e quando. Di certo c’è che, ad esempio, ad oggi a Trisaia in Basilicata alcuni contenitori che hanno 50 anni contengono una soluzione liquida di uranio arricchito, mentre a Saluggia, vicino a Vercelli e in riva alla Dora Baltea, giacciono 230 metri cubi di rifiuti liquidi ad alta attività sempre dentro a contenitori di 50 anni fa. Dopo l’alluvione del 2000 l’allora commissario Enea e premio Nobel Carlo Rubbia dichiarò che si era «sfiorata una catastrofe planetaria».

L’iter e la consultazione pubblica. Poi la costruzione

Che cosa accadrà ora? Nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione del 5 gennaio parte la «consultazione pubblica». Le Regioni, gli enti locali e i soggetti interessati potranno formulare le loro osservazioni e proposte tecniche alla Sogin. È la prima consultazione pubblica che si svolge in Italia. In generale l’iter non si preannuncia facile, visto che bisognerà raccogliere il consenso delle comunità interessate e delle istituzioni locali. La consultazione pubblica durerà in tutto quattro mesi, compreso anche il «seminario nazionale» che Sogin dovrà organizzare, e una successiva rielaborazione di tre mesi che darà luogo alla «Carta nazionale delle aree idonee». Poi si passerà alla fase delle «manifestazioni di interesse» dei territori. Il tutto in un periodo di pandemia, con le immaginabili difficoltà che si aggiungeranno ad una procedura di per sé complessa. Una volta individuato il sito serviranno quattro anni per la costruzione.

Il peso su governo e politica

Ma dopo i rinvii «politici» per le Regionali del 2015, il referendum costituzionale del 2016, le elezioni del 2018, il cambio di governo con il Conte2, e dopo la procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea a fine ottobre scorso, non si poteva più aspettare. Qualche settimana fa molti comitati e associazioni ambientaliste piemontesi (in particolare del vercellese e della Valsesia) avevano scritto ai ministri Stefano Patuanelli e Sergio Costa proprio per sollecitare la pubblicazione della Carta. Ora, con il nulla osta, è verosimile che la questione della localizzazione, e del potenziale “nimby” che comporta (“not in my backyard”, non nel mio giardino) possa creare un motivo ulteriore di dibattito in un momento delicato per il governo Conte.

I dubbi sulle capacità Sogin

Infine resta l’interrogativo sulle capacità dell’attuale Sogin di condurre in porto la realizzazione. Nata nel 2001, costa agli italiani di sole spese di gestione circa 130 milioni l’anno, pagati in bolletta. Di rinvio in rinvio ha programmato la fine del decommissioning nucleare al 2036, 49 anni dopo il referendum del 1987. La società ha accumulato enormi ritardi nella messa in sicurezza dei rifiuti nucleari nazionali e nello smantellamento degli impianti, spendendo sinora, tutti prelevati sempre dalla bolletta elettrica, più di 4 miliardi di euro per completare circa il 30% dei lavori (che dovrebbero finire, appunto, nel 2036). Secondo fonti sindacali, solo due mesi fa la Sogin ha visto pressoché deserta l’ennesima gara per la realizzazione dell’impianto Cemex per la messa in sicurezza dei più pericolosi rifiuti radioattivi italiani, quelli liquidi di Saluggia. Nonostante il bando valesse 130 milioni di euro nessuno dei grandi operatori nazionali ha presentato un’offerta. L’unica pervenuta è stata da parte di un consorzio di manutentori del napoletano. In passato, secondo la stessa Sogin, un gruppo come Saipem non sarebbe stato in grado di accollarsi il compito, una questione poi finita nelle aule dei tribunali. Ora la società avrà il compito di convincere la popolazione di almeno uno dei 67 siti idonei a farsi carico di tutti i rifiuti radioattivi italiani.

fonte: www.corriere.it/

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Call di Sogin per la gestione dei rifiuti radioattivi. Il punto della situazione sul nucleare italiano

















Startup e PMI innovative cercasi, interessate a sviluppare tecnologie avanzate per la gestione dei rifiuti radioattivi. La Call lanciata da Sogin, società di Stato incaricata di smantellare gli impianti nucleari in Italia, punta a trovare nuove soluzioni nei processi di gestione dei rifiuti radioattivi, nella loro pianificazione, nella verifica dei risultati ottenuti e nella logistica.

Un lancio che arriva a stretto giro dalla recente audizione dei vertici di Sogin da parte della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo di rifiuti (Commissione Ecomafie), presieduta da Stefano Vignaroli. L’incontro si è tenuto in vista dell’aggiornamento del “piano a vita intera” che Sogin conta di presentare entro il 30 giugno. Un programma a lungo termine (2035) per la gestione dell’eredità atomica. Da quanto emerso, la mancata realizzazione del deposito nazionale, il non recepimento della direttiva europea e i ritardi cronici delle autorizzazioni per i cantieri continuano ad avere conseguenze pesanti su tempi e costi di gestione del decommissioning nucleare.


Rifiuti radioattivi e come gestirli

Sono tre gli ambiti di concorso della Call for Innovation “SARR – Soluzioni Avanzate per i Rifiuti Radioattivi”, lanciata da Sogin e realizzata il supporto di Digital Magics.
Bridge di interfaccia, sviluppo di soluzioni tecnologiche dedicate all’acquisizione delle informazioni raccolte dalle interfacce dei diversi sistemi, coinvolti nei processi di smantellamento e gestione dei rifiuti, da poter integrare nella piattaforma AIGOR.
Sistemi di posizionamento, sviluppo di tecnologie utili all’informazione sulla posizione indoor degli oggetti, a supporto della pianificazione e del monitoraggio della logistica interna.
Smart monitoring, fornire tecnologie per la sicurezza dei lavoratori e l’automatizzazione dei processi operativi quali il controllo dei rifiuti stoccati, la loro classificazione, anche attraverso smart label.

Le aziende interessate dovranno registrarsi entro il 26 luglio 2020 su openinnovation.sogin.it. I dieci progetti selezionati potranno presentare il loro pitch durante l’Innovation Day, programmato il 14 ottobre 2020. La startup vincitrice si aggiudicherà un premio di 12.000 euro e collaborerà con la Sogin per lo sviluppo del progetto.

Il punto sul nucleare italiano

Le incognite che pesano sulla dismissione delle centrali nucleari in Italia e sulla gestione delle scorie radioattive sono sostanzialmente due. La mancata realizzazione del deposito nazionale, ovvero l’impianto dove centralizzare le scorie, per il quale non è stato mai nemmeno avviato l’iter di scelta del sito di costruzione. I ritardi, altrettanto cronici, con cui Sogin ottiene le autorizzazioni per i cantieri dagli organi di controllo.

Il “piano a vita intera” di Sogin vale già 7,2 miliardi di euro, ma dal 2001 al 2018 il programma di smantellamento è stato realizzato per circa un terzo delle attività con costi per 3,8 miliardi di euro. Dati che suggeriscono le difficoltà cui sta andando incontro l’operazione. Secondo Vignaroli, l’Italia paga il prezzo di non aver ancora recepito la direttiva europea 59 del 2013 (Euratom) sulla la gestione dell’atomo e invita “tutte le istituzioni a fare la propria parte con il massimo impegno, perché anche il nostro Paese possa gestire i rifiuti radioattivi in sicurezza e in efficienza”.

L’ex centrale nucleare nella frazione di Borgo Sabotino del Comune di Latina
Il deposito nazionale

L’assenza del deposito nazionale è il punto nevralgico – ribadito in audizione – attorno a cui ruota il problema: un progetto da 1,5 miliardi di euro da completare entro il 2025, senza ancora un’idea su dove realizzarlo. La Cnapi, Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito, a gennaio 2015 ha individuato 100 possibili siti, ma da allora è rimasta chiusa in un cassetto. Come si può intuire, la sua pubblicazione avrà ricadute politiche importanti, perché aprirà un confronto pesante con le comunità locali, ma è il punto di partenza necessario e non procrastinabile. In attesa del deposito, infatti, l’Italia paga lo stoccaggio delle scorie presso altri Paesi europei.

A questo proposito, sono in corso trattative per il prolungamento dei contratti di mantenimento del combustibile esausto stoccato in Francia e Regno Unito, e destinato al deposito nazionale. Mentre si monitorano Paesi con quantità ridotta di scorie – Spagna, Repubblica Ceca e Ungheria – per consorziarsi nella costruzione di un deposito geologico, dove tombare i rifiuti ad alta intensità, senza passare dal deposito nazionale.

I volumi dei rifiuti radioattivi

Il deposito nazionale dovrà ospitare 72 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui il 60% dagli ex impianti nucleari e il 40% dalle aziende che producono rifiuti radioattivi, stimate da Sogin in circa 350 tra laboratori, imprese e ospedali. Proprio i volumi sono il tema su cui insiste Emanuele Fontani, amministratore delegato di Sogin, secondo cui “è importante ridurre i volumi che andranno a finire nel deposito, insistendo su efficienza, processamento innovativo dei materiali e riciclo”. Secondo Sogin, il decommissioning di otto siti nucleari, consentirebbe di riciclare oltre un milione di tonnellate di materiali, pari circa all’89% di quelli complessivamente smantellati. Sul tema del recupero di efficienza Sogin ha annunciato anche la redazione di un nuovo piano industriale mirato.
Il problema delle autorizzazioni

Il nuovo “piano a vita intera” passerà al vaglio dell’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera). Per metterlo in atto servirà l’autorizzazione dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), che da due anni lamenta gravi carenze di risorse e competenze in organico. Sono 119 le autorizzazioni che serviranno a Sogin nel prossimo quadriennio, alcune delle quali richieste nel 2012 e 2014, ma non ancora chiuse.

Per esempio, ci sono voluti dieci anni – sottolinea Wired – per svincolare il progetto di estrazione a secco di 64 barre di uranio-torio ad alta attività, arrivate negli anni Sessanta dalla centrale statunitense di Elk River a Rotondella, in Basilicata, per motivi di ricerca. E sono in attesa di autorizzazione gli impianti di Saluggia, Casaccia e Rotondella (che hanno chiuso i battenti negli anni Ottanta) oltre al Reattore Ispra-1, recentemente entrato nel perimetro Sogin.
Cantiere del complesso Cemex impianto Eurex di Saluggia
I progetti sul tavolo

Tra progetti sul tavolo di Sogin – e poi di Isin – ci sono anche:
la pubblicazione del bando di gara per il Cemex, il complesso di cementazione e stoccaggio dei rifiuti liquidi dell’Eurex di Saluggia;
l’avvio di bonifiche a carattere ambientale sui siti di Latina e di Bosco Marengo;
la realizzazione dell’impianto per il trattamento dei fanghi e delle resine SiCoMor, presso la centrale di Trino.
Lo sviluppo di AIGOR (Applicativo informatico di gestione oggetti radioattivi) che consente di estendere le procedure di gestione dei rifiuti radioattivi a tutte le sorgenti e a tutti i materiali potenzialmente rilasciabili, già prodotti o che verranno generati dalle future attività di decommissioning nucleare.

fonte: http://www.recoverweb.it
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L’Italia non ha ancora idea di come gestire 78mila metri cubi di rifiuti nucleari

Oltre 30mila metri cubi sono sparsi in 7 regioni, una larga parte è finita (temporaneamente) all’estero e ne produciamo di nuovi ogni giorno. Nessuno ha il coraggio di dire dove finiranno





















Tutti produciamo rifiuti, qualcosa che non vogliamo più avere tra le mani, ma più è alto il grado d’allarme e fastidio meno ne vogliamo sapere: i rifiuti radioattivi rappresentano dunque a buon ragione l’apice di questo paradigma, che in Italia accomuna una larga fetta dei cittadini come – soprattutto – della politica che li rappresenta, timorosa di perdere consenso. Negli ospedali, nelle industrie, nei laboratori di ricerca e nei vecchi impianti nucleari in via di smantellamento si producono ogni giorno rifiuti radioattivi, che non sappiamo però dove mettere. «La debolezza della politica è tutta qui – commenta la deputata LeU ed ex presidente di Legambiente, Rossella Muroni – nessuno vuole scegliere su cose difficili, si insegue il consenso e si evitano le decisioni scomode». Le audizioni in corso in questi giorni nella commissione parlamentare Ecomafie, guidata da Stefano Vignaroli, sembrano darle ragione.
Il direttore dell’Ispettorato per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin) Maurizio Pernice è stato audito oggi, ricordando che l’Isin ha realizzato un inventario nazionale dei rifiuti radioattivi: gli ultimi dati risalgono al 31 dicembre 2017, e testimoniano la presenza di 30.497 m3 sparsi in 7 regioni. Si tratta solo di una piccola parte rispetto al quantitativo iniziale, per la gran parte in attesa di rientrare in Italia dopo essere stato spedito temporaneamente all’estero. Dovranno finire tutti in un unico deposito nazionale per essere custoditi con maggiore sicurezza: un progetto da 1,5 miliardi di euro, ma nessuno ha ancora idea di dove sarà realizzato. Si tratta infatti di spiegare all’opinione pubblica che nel deposito saranno stoccati circa 78mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività – la cui radioattività decade a valori trascurabili nell’arco di 300 anni – 50mila dei quali rappresentano le pesante eredità degli impianti nucleari italiani in via di smantellamento, e altri 28mila arrivano dalla ricerca, dalla medicina nucleare (dalle lastre in su) e dall’industria. Sul totale di 78mila metri cubi circa 33mila sono già stati prodotti, mentre i restanti si stima verranno prodotti nei prossimi 50 anni.
L’attività di gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi in Italia è affidata alla Sogin, con costi individuati in 7,2 miliardi di euro, ovvero 400 milioni in più rispetto ai 6,8 miliardi stimati all’inizio. Di certo c’è che dal 2001 al 2018 il programma di smantellamento è stato realizzato per circa un terzo delle attività ma è già costato 3,8 miliardi di euro, pari a poco più del 50% del budget. Vanno aggiunti inoltre gli 1,5 miliardi previsti per la realizzazione del deposito nazionale, ma qui come già detto il problema principale non sono i soldi, ma il dove.
Nella Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitare il deposito sono stati individuati 100 possibili siti ormai dal gennaio 2015, ma da allora è sempre rimasta chiusa in un cassetto. E non ne uscirà a breve. Il sottosegretario Davide Crippa, audito ieri nella commissione Ecomafie, ha riferito che si prevede di concludere l’iter necessario alla pubblicazione della Carta entro la fine del 2019 e l’inizio del 2020; una speranza più che una certezza, visti i pregressi.
Non a caso Crippa spiegato che a gennaio scorso si è concordato di apportare una modifica allo schema di Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi – non ancora approvato – per garantire che lo smaltimento in sicurezza dei rifiuti radioattivi italiani possa avvenire parzialmente all’estero. Ma chi vorrà prenderli, e a quali costi per il contribuente italiano? Ad oggi sono state trasportate in Francia circa 222 tonnellate provenienti dalle ex centrali nucleari italiane, e altre 13 tonnellate sono in attesa dello stesso destino dal deposito Avogadro. L’esecuzione di questi ultimi trasporti è subordinata però da parte francese a precise garanzie del Governo italiano di ripresa in carico dei rifiuti: secondo gli accordi vigenti la scadenza è prevista nel 2025, ma per allora è praticamente impossibile che il nostro deposito nazionale possa essere pronto.
Tutto, pur di non gestire i propri rifiuti. Tanto che ad oggi sono tre le procedure di infrazione europee in corso: Crippa ha spiegato che la legge europea 2018 colma alcune lacune normative ed è il presupposto per chiudere la procedura 2018/2021. Nessuna novità invece sul fronte delle procedure 2016/2027 per la mancata trasmissione del Programma nazionale alla Commissione europea e 2018/2044 per la mancata attuazione della direttiva 2013/59/Euratom.
fonte: www.greenreport.it

Stoccaggio dei rifiuti radioattivi, siamo già in una crisi globale

Greenpeace lancia l’allarme: le strutture di deposito delle scorie nucleari sono ormai prossime alla saturazione



















Dall’inizio dell’era nucleare, circa 70 anni fa, a oggi il mondo ha continuato ad accumulare grandi quantità di pericolosi rifiuti radioattivi. Non solo quelli legati al processo di fissione ma anche tutte le scorie provenienti dalle fasi di estrazione mineraria e di generazione del combustibile. Questa iper-produzione ha portato ci ha condotto velocemente a un punto di non ritorno: negli storici Paesi a vocazione “atomica”, le strutture di stoccaggio temporaneo dei rifiuti sono oramai colme. A lanciare l’allarme è un report di Greenpeace (pdf in inglese), dal titolo La crisi globale delle scorie nucleari, che guarda da vicino alla situazione di Belgio, Francia, Giappone, Svezia, Finlandia, Regno Unito e Stati Unite. In queste nazioni i depositi, non solo sono prossimi alla saturazione, ma devono costantemente tenere alta la guardia contro il rischio di incendio, lo sfiato di gas radioattivi, la contaminazione ambientale, gli attacchi terroristici e costi in progressivo aumento.

“Trenta anni fa, – spiega Greenpeace Belgio, coautore del documento – gli ingegneri avevano assicurato che scaricare le scorie nucleari in mare fosse la migliore opzione possibile. Oggi suggeriscono che il sotterramento in strati geologici profondi sia una buona soluzione definitiva. Tuttavia, l‘opzione dello smaltimento geologico non è ancora operativa e presenta molte imperfezioni e rischi che la rendono inaccettabile, e meno che mai una soluzione”.


Le 100 pagine del rapporto analizzano tutta la catena del combustile nucleare, dalle miniere di uranio ai reattori, fino al riprocessamento del plutonio. Attualmente, stoccati in strutture temporanee di 14 Paesi vi sono circa 250.000 tonnellate di combustibile esaurito altamente radioattivo. La maggior parte di queste scorie rimane nelle “piscine di raffreddamento” delle centrali, quando non esiste nel sito una struttura di contenimento secondario. Al conto bisogna aggiungere anche oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti di uranio.

“Quando i cosiddetti ecorealisti parlano di ‘energia nucleare pulita’, nascondono la pericolosa eredità dei milioni di tonnellate di polvere radioattiva provenienti dalle miniere di uranio. E non parlano neppure della forma più rischiosa di rifiuti nucleari: il combustibile esaurito delle centrali. Una persona che si trova a meno di un metro di distanza da combustibile non protetto, scaricato da un reattore nucleare un anno prima, riceve una dose di radiazioni letali in meno di un minuto”, aggiunge Greenpeace. “Oggi non esiste in nessun luogo al mondo una soluzione accettabile a lungo termine per la gestione sicura di questi rifiuti radioattivi di alto livello”.

fonte: www.rinnovabili.it