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Curare la casa comune

Non abbiamo bisogno soltanto della manutenzione delle cose e dei territori, ma anche delle relazioni sociali, quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in scarti quando non servono più. Per questo servono ovunque artigiani riparatori e conflitti per la tutela dei beni comuni. In realtà si tratta prima di tutto di rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: “La cura della casa comune – scrive Guido Viale – esige che quella gerarchia venga invertita, messa sottosopra”

Acquapendente (Viterbo). Foto di Antonio Citti

Sulla cura della casa comune è il sottotitolo dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, un documento che l’associazione di cui faccio parte ha adottato come testo di riferimento fondamentale, assumendone anche il nome.

La casa comune è la Terra, il nostro pianeta, l’insieme di tutto ciò che vive, i monti, i fiumi, il mare; ma anche il cielo che è l’immagine di un universo infinito che ci si presenta come firmamento e che, come tale, ha ispirato tutto il pensiero e i sentimenti che in vario modo hanno cercato di “trascendere” le vicende che si svolgono sulla superficie del globo. Ma sono casa comune anche le città, le strade, i porti e gli aeroporti e l’infinita serie di manufatti che riempiono la nostra vita quotidiana, comprese tutte le forme di inquinamento che ci avvelenano. La casa comune è fatta di persone e di cose tra loro indissolubilmente connesse come tutto ciò che fa parte del nostro mondo e questo intreccio lega indissolubilmente la giustizia sociale, cioè la lotta per ridurre o eliminare le mostruose diseguaglianze che separano tra loro gli esseri umani, e la giustizia ambientale: il rispetto per le condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita, degli ecosistemi, di tutte le specie di cui l’evoluzione ha dotato il pianeta.

Se i poveri della Terra sono le persone più colpite dal degrado dei territori che abitano e dell’ambiente in cui vivono, sono loro, anche, coloro che sono più interessati a risanarli, a tutelarli, a farli rivivere; e a operare per rendere compatibile e feconda la vita di entrambi.

La cura di cui parla l’enciclica è la manutenzione: delle persone, di tutto il vivente e di tutte le “cose”. Manutenzione innanzitutto delle relazioni tra gli esseri umani; quelle sui cui si fonda la vita di una comunità, per evitare che le persone vengano trasformate in “scarti” quando non servono più.

Ma manutenzione anche dei territori, degli ambienti e delle cose; anche di quelle che non ci piacciono o non ci servono più e di cui vorremmo sbarazzarci, ma di cui dobbiamo invece farci carico comunque, per impedire che continuino a danneggiare la vita.

Dall’operaio all’artigiano manutentore

Il più delle volte manutenzione vuol dire aggiustare, riparare, migliorare: sia un territorio che dei manufatti e delle apparecchiature. Il lavoro di chi è addetto a riparare non è un’attività seriale: ogni oggetto che gli si presenta di fronte è diverso dall’altro.

Per fare il suo mestiere l’artigiano riparatore deve sviluppare tre doti: la prima è una conoscenza tecnica acquisita in processi di istruzione formale o per affiancamento; la seconda è una forte “manualità”: saper mettere le mani dentro gli oggetti che ripara; la terza è un’attenzione, che a volte sconfina con l’amore, per l’oggetto di questa sua attività. Il tutto finalizzato a prolungare la vita delle cose a cui si applica, a dare loro una “seconda vita”, a consentirne il riuso secondo i principi dell’economia circolare, che non esclude innovazione e miglioramento, ma subordina entrambi alla salvaguardia del contesto. Tutte e tre quelle caratteristiche differenziano profondamente l’artigiano manutentore dall’operaio dell’era fordista impegnato alla catena di montaggio in un’attività seriale senza intelligenza, senza passione, senza abilità tecniche; ma anche dall’“uomo flessibile” dell’epoca post-fordista (come altro chiamarla?), totalmente deresponsabilizzato nei confronti di un lavoro precario, in un continuo cambiamento del “posto di lavoro”; ed entrambi impegnati a produrre o generare scarti lungo il percorso del loro prodotto, nel contesto di economia lineare che saccheggia le risorse dell’ambiente per restituirgliele sotto forma di rifiuti. Per questo l’artigiano manutentore è il paradigma di una nuova “civiltà”, di un nuovo modo di rapportarsi con il mondo.

Quelle caratteristiche, che è facile rilevare nell’attività dell’artigiano riparatore – anche se pochi vi prestano attenzione – sono le stesse che dovrebbero presiedere alla manutenzione delle relazioni; anch’essa richiede conoscenza, studio del contesto, visione, basi di ogni vera politica; poi buone pratiche, frequentazione effettiva delle persone, soprattutto di quelle diverse da noi, che mettono alla prova la nostra capacità di comprenderle e relazionarci con loro; infine attenzione (se non amore) per la vicenda umana di ciascuno: ognuna diversa da tutte le altre, tanto da richiedere ogni volta di cambiare il nostro modo di rapportarci con loro.

Manutenzione delle cose, e di un territorio, e manutenzione delle relazioni tra le persone si rafforzano reciprocamente: una comunità si costituisce solo in un rapporto aperto e non esclusivo con un territorio dato, con il suo patrimonio di risorse naturali e di lasciti storici, sia fisici (monumenti e opere d’arte) che immateriali, cultura e tradizioni. Ma ogni territorio rinasce e si riqualifica solo se una comunità – non il singolo individuo, e nemmeno un’impresa o un gruppo di imprese a scopo di lucro – lo prende in carico, ne fa la condizione della propria costituzione.

Bene comune beni comuni non sono la stessa cosa

La casa comune è un bene comune – anzi, un insieme di beni comuni – che non appartiene a nessuno e di cui ciascuno ha ricevuto in prestito una parte, grande o piccola, o anche minima, che dovrà comunque restituire in buone condizioni, o possibilmente migliorata, alla “generazione futura”.

“Bene comune” – al singolare e con la maiuscola – e beni comuni non sono la stessa cosa. Il primo è un concetto etico di cui ciascuno dà una interpretazione in base ai suoi principi; il secondo è un concetto giuridico, se regolato da una norma, o politico, se reso operativo dall’iniziativa di un raggruppamento sociale più o meno ampio. Il primo rimanda alla ricerca di un’armonia di cui si presuppone la realizzabilità; il secondo rimanda al conflitto per impedire l’appropriazione privata – o anche pubblica, nel senso di statuale – di una risorsa, o per rivendicarne la condivisione.

Senza conflitto non possono esserci beni comuni: nessuno, secoli fa, pensava che l’acqua, o l’aria, o il cielo, potessero essere contesi; oggi di fronte al tentativo di appropriarsene (privatizzando l’acqua, mettendo sul mercato il diritto di inquinare l’aria, o occupando un’orbita terrestre con un satellite), il conflitto contro queste pratiche le trasforma in beni comuni. Tutto ciò fa sì che il confine tra i beni comuni e quelli che non lo sono ancora, o non lo sono più, sia mobile e non possa essere fissato una volta per sempre.

La cura della casa comune ci porta anche a rivedere la gerarchia che la cultura dominante ha stabilito – da parecchi secoli a questa parte; sicuramente dall’avvento della modernità, ovvero dalla nascita del capitalismo – tra lavoro produttivo, di merci, di valore di scambio, di profitti, e lavoro riproduttivo: non solo della vita biologica, ma anche delle relazioni sociali, della comunità. Il lavoro riproduttivo è cura: cura della casa comune; o di quella parte di essa che ci è dato di raggiungere, sempre che la visione che presiede ad essa sia aperta, proiettata verso l’esterno, l’altro, e verso l’avvenire, la “generazione futura”. Il lavoro produttivo, invece, è per lo più improntato all’incuria: della salute e della vita di chi vi è forzosamente impegnato; delle persone che subiscono gli impatti negativi dei processi produttivi o dei prodotti a cui essi mettono capo; dell’ambiente e della vita. La cura della casa comune esige che quella gerarchia venga invertita; messa sottosopra.

fonte: comune-info.net


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Abitare il desiderio di comunità
















Cresce il desiderio di cohousing. Vi sono sempre più persone e famiglie che cercano soluzioni abitative condivise. La gamma della casistica possibile è varia. Si va dalle comuni dove, oltre alla visione del mondo, si condividono i redditi, alle case-famiglia che ospitano persone in difficoltà, dai condomini solidali agli eco-villaggi, dagli appartamenti multipli in cui vivono, ad esempio, anziani e studenti, ai cohousing sociali in case in affitto di edilizia pubblica. Per tutti il motivo di base che spinge le famiglie a tale scelta è il desiderio di creare con il vicinato una comunità intenzionale, un gruppo legato da rapporti fiduciari e il più possibile solidali. Insomma, cresce l’avversione verso gli anonimi alveari residenziali che inducono relazioni anaffettive, oltre che a modi di abitare scomodi, ad alto impatto ambientale e costosi.
Nell’ambito di una ricerca sull’abitare sostenibile condotta dagli studenti durante il corso di Politica dell’Ambiente, tenuto dalla geografa Isabelle Dumont presso l’ateneo di Roma Tre,  è stato realizzato un documentario (un estratto è visionabile qui) su alcune significative esperienze italiane di condomini gestiti in modo partecipato in ambito urbano e di comunità ecosostenibili in contesto rurale.
La Comune di Bagnaia, vicino a Siena, e il Villaggio Verde di Cavallirio, vicino a Novara, sono esperienze storiche di comunità sorte a cavallo tra gli anni Settante e Ottanta per affinità ideali – decisamente anarchiche la prima, ecosofiche la seconda. Sono sorte in campagna, ognuna ospita circa venti persone e al loro interno sono nate due piccole aziende agricole.
Altre due esperienze documentate dalla ricerca sono invece cohousing urbani di ultima generazione: Numero Zero nel centro di Torino è un recupero di un fabbricato, Ecosol a Fidenza è un edificio di nuova costruzione. La loro prima preoccupazione è stata la sostenibilità ambientale: fabbisogno energetico minimizzato ed interamente autoprodotto con impianti fotovoltaici, acque piovane recuperate, materiali di bioedilizia. Ma la parte più impegnativa delle due realizzazioni è stata la progettazione dei distributivi interni. Le otto famiglie nel caso di Torino e le quattordici (con numerosi bambini) di Fidenza hanno dovuto faticare non poco per scegliere quali e quanti spazi dedicare a servizi e attività comuni (salone con possibilità di cucina, dispensa refrigerata, lavanderia, alloggio per ospiti, posti auto…) e quali invece preservare per garantire privacy e autonomia alle singole famiglie che sono proprietarie degli appartamenti. I progettisti assicurano che i maggiori costi sono ampiamente compensati dai risparmi ottenuti nei consumi. Ciò che più sorprende è che questi edifici sono diventati presto un punto di riferimento anche per il quartiere. Luogo di incontro per il locale gruppo di acquisto, per la banca del tempo, per il doposcuola…
Come ha sottolineato un abitante di Ecosol, non c’è pericolo che i cohousing diventino micro gate-comunity.

Paolo Cacciari

fonte: http://comune-info.net/

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LA CURA DELLA CASA COMUNE


Due giorni alla scuola estiva "Human Ecology - La cura della casa comune", tra le nebbie alpine di Champorcher, nel parco del Mont Avic (Aosta): un gruppo di una ventina di partecipanti molto competenti e coinvolti, docenti di scuole e università, ma pure con la curiosità e i punti di vista di professioni variegate. Ne è nato questo video breve ma intenso, sul nostro futuro.



Luca Mercalli