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Il riscaldamento globale sta mettendo a rischio la corrente del Golfo

Se il suo flusso dovesse fermarsi o rallentare, le temperature in Europa potrebbero abbassarsi di circa 8 gradi e si innescherebbero mutamenti climatici potenzialmente distruttivi per la vita sul pianeta Terra



La corrente del Golfo, che trasporta le calde acque tropicali verso il nord Europa mitigando il clima di tutta la regione, potrebbe essere prossima a fermarsi. Lo hanno denunciato gli scienziati dell’Istituto per la ricerca sull’impatto climatico di Potsdam, in Germania, che hanno rilevato una quasi completa perdita di stabilità della corrente. Se ciò dovesse accadere, o se il suo flusso dovesse rallentare ancora, le temperature del vecchio continente potrebbero abbassarsi di circa 8 gradi e si innescherebbero mutamenti climatici potenzialmente distruttivi per la vita sul pianeta Terra.

Cos’è la corrente del Golfo

Si tratta di una corrente di acqua calda che nasce nel golfo del Messico, da cui prende il nome, e attraversa l’oceano Atlantico settentrionale. Alla sua origine, grandi masse di acqua salata vengono riscaldate dall’azione diretta delle radiazioni solari e poi si spostano velocemente verso nord, grazie all’azione dei venti che ne aumentano l’accelerazione. Infatti, le acque calde si trovano nello strato più superficiale dei mari, a causa della loro minore densità rispetto a quelle più fredde. Una volta arrivate in prossimità del circolo polare Artico, le acque cominciano a raffreddarsi, inabissandosi e facendo ricominciare il ciclo.

Gli effetti sul clima

La corrente del Golfo influisce direttamente sul clima della parte orientale del nord America e di quella occidentale dell’Europa, mantenendo temperature miti lungo le zone costiere, anche in aree che altrimenti sarebbero coperte dai ghiacci, come nel caso delle coste norvegesi. Se il suo flusso dovesse rallentare significativamente o interrompersi, tuttavia, gli effetti negativi non colpirebbero solo queste zone geografiche, ma porterebbe conseguenze catastrofiche in tutto il mondo. Secondo gli scienziati potrebbe interrompere le piogge in India, sud America e Africa occidentale, aumentare il livello del mare sulla costa orientale del nord America e mettere in pericolo la foresta Amazzonica e la resistenza delle lastre di ghiaccio dell’Antartide.

Cosa hanno scoperto i ricercatori di Potsdam

Il flusso della corrente del Golfo si trova già al suo punto più lento in almeno 1600 anni, a causa degli effetti del riscaldamento globale che stanno sciogliendo grandi masse di acqua dolce della calotta glaciale groenlandese, facendole defluire nell’oceano e rallentando così il flusso delle acque calde salate. Il dottor Niklas Boer, che ha guidato la ricerca, ha analizzato otto insiemi di dati sulla temperatura e la salinità dell’acqua, relativi agli ultimi 150 anni, che gli hanno permesso di dimostrare come il riscaldamento globale stia diminuendo sia la velocità delle correnti che la loro direzione. Secondo Boer, se il declino osservato nell’ultimo secolo non si dovesse interrompere, potrebbe condurre a un crollo totale della velocità della corrente e addirittura a un suo totale collasso. La complessità dei fattori che regolano la corrente e l’incertezza sui livelli di riscaldamento globale che potremmo raggiungere nel futuro rendono impossibile prevedere una data esatta di questo collasso. Secondo la ricerca, potrebbero volerci un decennio o diversi secoli, ma l’impatto devastante che avrebbe sull’intero pianeta rende necessario impedire che ciò accada. “Non è chiaro quale livello di Co2 potrebbe portare al peggio” ha detto Boer intervistato dal Guardian “quindi l’unica cosa da fare è contenere il più possibile le emissioni, perché le probabilità che questo evento devastante ci colpisca, aumentano a ogni grammo di anidride carbonica che immettiamo nell’atmosfera”.

fonte: www.wired.it


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Inquinamento marino: le microplastiche di superficie sono solo l’1% del totale

Quelle galleggianti in superficie sono soltanto la punta dell’iceberg. Il 99% delle microplastiche che finiscono in mare si deposita sui fondali. Una nuova ricerca ha campionato una piccola area del Tirreno scoprendo i livelli di concentrazione più elevati mai registrati sul fondo






Quella in superficie è solo la punta dell’iceberg, cioè 1% del totale. La maggiore concentrazione di plastica e microplastiche si trova sul fondo del mare, trasportata dalle correnti oceaniche e lì accumulatasi.

A rivelarlo è un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science e condotta dalle Università di Manchester, di Durham e di Brema insieme al National Oceanography Centre e all’IFREMER. La ricerca ha mostrato come le correnti di acque profonde fungono da veri e propri “nastri trasportatori” che trascinano piccoli frammenti e fibre di plastica sui fondali profondi.

“Quasi tutti hanno sentito parlare delle famigerate isole di plastica galleggianti – ha spiegato Ian Kane, professore dell’Università di Manchester e autore principale dello studio – ma siamo rimasti scioccati dalle alte concentrazioni di microplastiche che abbiamo trovato nel mare profondo. Abbiamo scoperto che le microplastiche non sono distribuite uniformemente ma, al contrario, sparse dalle correnti profonde e concentrate in determinate aree”.

Le microplastiche depositate sui fondali sono costituite principalmente da fibre tessili e di abbigliamento: “frammenti” che, non essendo efficacemente filtrati dagli impianti di trattamento delle acque reflue domestiche, penetrano facilmente nei fiumi fino agli oceani. Qui, “catturati” dalle correnti, vengono trasportati lungo i canyon sottomarini, fino al fondale. Una volta nel mare profondo, le microplastiche sono “raccolte” dalle correnti di fondo, che le distribuiscono in modo non uniforme sui fondali.

Poiché tali correnti trasportano anche acqua ossigenata e sostanze nutritive, il rischio è che le microplastiche vadano a depositarsi in ecosistemi popolati da importanti comunità biologiche in grado di assorbirle.

Il team di ricercatori ha raccolto campioni di sedimenti dal fondo del Mar Tirreno combinandoli con modelli calibrati di correnti oceaniche profonde ed una dettagliata mappatura di fondali. In laboratorio, le microplastiche sono state separate dai sedimenti, contate al microscopio e ulteriormente analizzate mediante spettroscopia infrarossa per determinare i tipi di plastica e stabilire eventuali correlazioni con le aree in cui queste s’erano depositate. Oltre a dimostrare come le correnti controllano la ripartizione delle microplastiche sui fondali marini, lo studio ha anche rilevato i livelli di microplastiche più elevati mai registrati sul fondo, con concentrazioni fino a 1,9 milioni di frammenti su una superficie di un solo m2.

“La plastica è ormai diventata un nuovo tipo di sedimento che viene distribuito sul fondo del mare insieme a sabbia, fango e sostanze nutritive”, ha detto Florian Pohl del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Durham.
“La nostra ricerca – ha aggiunto il professor Mike Clare del National Oceanography Centre – ha dimostrato come studi dettagliati sulle correnti dei fondali marini possano aiutarci a collegare i percorsi di trasporto della microplastica in acque profonde e trovare così le microplastiche “mancanti”. I risultati evidenziano la necessità di interventi politici che limitino in futuro lo sversamento di plastica negli ambienti naturali riducano al minimo gli impatti sugli ecosistemi oceanici”.

Eppure, ricordano dall’IFREMER, ad oggi sono più di 10 milioni le tonnellate di rifiuti plastici che vengono ogni anno gettate negli oceani.

fonte: www.rinnovabili.it 


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Blue Energy: i progetti sull’energia ricavata dal mare

Lo sfruttamento dell’energia dal mare è a uno stadio di sviluppo meno avanzato rispetto a quello di altre risorse rinnovabili, tuttavia sono diversi i progetti che si stanno attivando per far decollare anche questo settore di energie green, o meglio blue.

















Si sono individuate sei differenti fonti da cui trarre energia derivante dal mare: onde, maree, correnti di marea, correnti marine, gradienti di temperatura, gradienti di salinità. Il Mar Mediterraneo, avendo un bacino praticamente chiuso, non possiede le caratteristiche utili a sfruttare tutte queste fonti ma ricava energia principalmente dalle correnti di marea, dalle onde e dalla differenza di salinità. È necessario tenere in considerazione che l’energia del moto ondoso, utile per la conversione in energia elettrica, è relativamente più bassa se confrontata con quella che si può ottenere da un Paese che si affaccia sull’oceano.
Dal 1986 la Commissione Europea sostiene le attività di ricerca e sviluppo sulla conversione dell’energia marina. I primi risultati sono rintracciabili nel 1993 quando la stessa CE finanziò una serie di conferenze internazionali sull’energia del moto ondoso prima ad Edimburgo, poi a Lisbona, a seguire a Patrasso ed infine a Aalborg (DK, 2000). Ad oggi, tuttavia, lo sfruttamento della blue energy non è ancora totalmente decollato.
Nel 2017 nasce il progetto di ricerca PELAGOS Blue Energy Cluster (iniziativa all’interno del programma Interreg-Med e co-finanziata dal Fondo europeo di sviluppo regionale) che, coinvolgendo diversi Paesi quali Spagna, Francia, Italia, Grecia, Croazia, Cipro e Portogallo, ha lo scopo comune di incrementare la capacità di innovazione e di cooperazione internazionale in tema di energia marina, in tutte le sue possibili declinazioni.



A mostrare l’importanza e l’efficienza dell’utilizzo dell’energia marina è stato anche un gruppo di ricercatori dell’Università di Siena e dell’Istituto Tecnico Sarocchi che si sono recati a Malaga per spiegare agli studenti le potenzialità dell’energia derivata dal mare. È l’Università di Siena a coordinare il progetto di ricerca - denominato MAESTRALE - incentrato sulla divulgazione delle potenzialità della blue energy. Lo scopo non è solo diffondere una maggior consapevolezza tra i cittadini ma rivolgersi in particolar modo alle istituzioni, per porre al centro del dibattito non solo la quantità di energia che si può ricavare dal moto ondoso, dalle maree, dalla temperatura, ma anche la possibilità di sfruttare le biomasse acquatiche utilizzando impianti eolici off-shore.
L’utilizzo delle blue energy – spiega il professor Simone Bastianoni, responsabile scientifico del progetto MAESTRALE – è ancora ad uno stato embrionale nell’area del Mediterraneo. MAESTRALE vuole rafforzare la collaborazione fra centri di ricerca, imprese e istituzioni per promuovere il trasferimento tecnologico e generare la massa critica necessaria per farlo decollare, mantenendo alta l’attenzione sul valore ambientale e culturale. Siamo orgogliosi di trovarci oggi alla guida di questo importante progetto europeo” prosegue Bastianoni “Il nostro gruppo, team interdisciplinare composto da chimici, fisici, biologi, economisti e ingegneri, si occupa infatti da anni di ricerca sui temi della sostenibilità e potrà dare un contributo decisivo all’analisi”.
Questi sistemi di produzione di energia derivante dal mare possono essere particolarmente interessanti anche per le molteplici isole italiane (e non solo) in cui attualmente vengono sfruttate centrali termoelettriche a gasolio per l’approvvigionamento energetico, gravoso non solo a livello economico ma anche ambientale. Inoltre, lo sviluppo dei sistemi di assorbimento e conversione energetica di tipo costiero, sia di tipo galleggiante che a barriere sommerse poggiate su bassi fondali, può avere una valenza significativa per la riduzione dei fenomeni di erosione costiera.

Investire in questo “nuovo” campo energetico può essere uno degli obiettivi del nuovo anno, oltre che un ottimo punto di partenza in vista degli obiettivi dell'agenda 2030.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it