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Acque reflue urbane: il miglioramento della raccolta e del trattamento in tutta l'UE aiuta a ridurre l'inquinamento ambientale

Report della Commissione europea











La Commissione europea ha pubblicato la decima relazione sull'attuazione della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane (UWWTD) che mostra un miglioramento generale nella raccolta e nel trattamento delle acque reflue nelle città e nei paesi europei, ma indica livelli di successo diversi tra gli Stati membri.

La direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane (di seguito "la direttiva") è uno strumento atto ad avvicinare l'UE all'obiettivo ambizioso di inquinamento zero proclamato nel Green Deal europeo.

Essa fa obbligo agli Stati membri di disporre affinché gli agglomerati (città, cittadine, centri urbani) raccolgano e trattino in modo adeguato le acque reflue che altrimenti inquinerebbero fiumi, laghi e mari. In tal modo, la direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane svolge un ruolo fondamentale nel proteggere la salute umana e nel sostenere la resilienza complessiva degli ecosistemi acquatici. Essa può inoltre apportare un contributo significativo all'economia circolare, grazie al riutilizzo dei fanghi di depurazione e delle acque reflue trattate, alla produzione di energia rinnovabile e al riciclaggio dei nutrienti.



La decima relazione biennale sull'applicazione, da parte degli Stati membri, della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane e dei relativi programmi di investimento presenta i dati relativi all'anno 2016 ed è riferita ad oltre 23.600 agglomerati la cui popolazione (e, in misura limitata, l'industria) genera acque reflue per un totale di 612 milioni di abitanti equivalenti (a.e.).

Negli ultimi dieci anni, l'UE ha registrato miglioramenti nella raccolta e nel trattamento delle acque reflue urbane, con tassi di conformità del 95% per la raccolta, dell'88% per il trattamento secondario (biologico) e dell'86% per il trattamento più spinto (eliminazione del fosforo e dell'azoto).



Ma rimane del lavoro da fare per conseguire la piena conformità alla direttiva. Lo scostamento dall'obiettivo rimane significativo in alcuni Stati membri: un quantitativo di acque reflue urbane corrispondente a 6,6 milioni di a.e. (1%) non è raccolto e oltre 37 milioni di a.e. (6%) di acque reflue raccolte non sono adeguatamente trattati conformemente alle norme sul trattamento secondario, mentre quasi 32 milioni di a.e. (8%) non sono conformi alle norme sul trattamento più spinto. Ciò significa che in alcuni agglomerati dell'UE è necessario costruire o migliorare le infrastrutture. Nei casi di inosservanza, sono sistematicamente avviati procedimenti di infrazione.





Il finanziamento e la pianificazione rimangono le principali problematiche cui deve far fronte il settore dei servizi idrici. Il fabbisogno di investimento totale per garantire il rispetto della direttiva, come stimato nel 2016 da tutti gli Stati membri (compreso il Regno Unito all'epoca), ammontano a quasi 229 miliardi di euro. Analogamente, secondo le stime dell'OCSE, tra il 2020 e il 2030 i paesi dell'UE e il Regno Unito dovranno spendere altri 253 miliardi di euro per raggiungere e mantenere la conformità alla direttiva. In molti Stati membri, l'attuale livello di spesa è stato ritenuto troppo basso per conseguire e mantenere la conformità a lungo termine.

fonte: www.arpat.toscana.it/


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Fanghi di depurazione, una spallata all’emergenza grazie al Recovery fund?

Utilitalia: "Le nostre associate hanno proposto progetti dal valore complessivo di quasi 2 miliardi di euro, 700 milioni dei quali incentrati sullo sviluppo della bioeconomia"




Recovery fund ed economia circolare possono andare d’accordo. La dimostrazione è quanto emerso all’assemblea annuale del Cluster SPRING dove Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia (la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche) ha spiegato il significativo valore degli investimenti in programma – si parla di due miliardi di euro – in particolare per la gestione dei rifiuti organici urbani (che in Italia ammontano a 7,1 milioni le tonnellate tra umido, verde e altre matrici organiche provenienti dalla raccolta differenziata) – e i fanghi di depurazione.

“Già oggi il mondo delle utilities è uno dei protagonisti della bioeconomia urbana – ha spiegato Colarullo – ora la sfida è quella di replicare in tutto il Paese le esperienze virtuose e di inquadrare gli investimenti necessari al suo sviluppo nel solco del Recovery fund”. Per Colarullo “l’utilizzo del Recovery fund contribuirà ad accelerare la transizione verso l’economia circolare e, in questo contesto, le nostre associate hanno proposto progetti dal valore complessivo di quasi 2 miliardi di euro, 700 milioni dei quali incentrati sullo sviluppo della bioeconomia”.

E il settore preponderante, come detto, è quello della gestione dei rifiuti organici urbani e i fanghi di depurazione, alla luce del forte impatto che possono avere sull’ambiente e sulla salute. Ricordiamo che nel 2018 in Italia la produzione annua di fanghi da depurazione si è avvicinata a 3 milioni di tonnellate, un numero destinato a crescere se saranno realizzati e messi in esercizio i depuratori nelle zone che ne sono carenti, per ottemperare agli obblighi derivanti dalla direttiva 91/271/CE in materia di trattamento delle acque reflue. Nello stesso anno i fanghi smaltiti sono stati il 56,3% e solo il 43,7% sono stati recuperati.

“Il nuovo pacchetto di direttive economia circolare – ha spiegato Colarullo – porterà ad un aumento della quantità di rifiuti organici da trattare, e al contempo a un incremento della produzione dei fanghi di depurazione, rispetto ai quali l’approccio attuale alla loro gestione non è in grado di sfruttare il loro potenziale per estrarre materiali come il fosforo e il potassio”.

Al contempo “il biometano prodotto dai rifiuti organici e dai fanghi di depurazione rappresenta una fonte energetica rinnovabile, nazionale, sostenibile, la cui valorizzazione consente di promuovere un’economia circolare su scala locale, ecosostenibile e a basse emissioni: la produzione di biometano ha prospettive molto interessanti per il nostro Paese, che dispone di un sistema infrastrutturale capillarmente diffuso sul territorio e del più grande mercato europeo di veicoli a metano”.

In questo quadro, “Utilitalia intende essere un motore di spinta per lo sviluppo di una bioeconomia circolare nel settore dei servizi pubblici, lavorando sul fronte del ciclo idrico al potenziamento degli impianti di depurazione, a una gestione integrata dei fanghi e alla definizione di una strategia nazionale per la loro gestione; sul fronte della gestione dei rifiuti, l’obiettivo sarà quello di stimolare e consolidare lo sviluppo delle infrastrutture per il trattamento della frazione organica, incentivandone la valorizzazione di materia e la produzione di biometano, anche semplificando e riducendo i tempi delle procedure autorizzative”.

fonte: www.greenreport.it


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In futuro berremo sempre più acqua riciclata, per il cambiamento climatico e la popolazione in aumento. Impariamo a conoscerla

















Di fronte alle carenze idriche con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni, non è possibile essere schizzinosi: bisognerà abituarsi a bere anche l’acqua riciclata dagli impianti di depurazione, e dobbiamo tutti iniziare a familiarizzare con l’idea. Anche perché già oggi due miliardi di persone, il 70% delle quali residenti in grandi metropoli, prevalentemente in paesi dell’Africa e dell’Asia centrale, occidentale e meridionale, non hanno abbastanza acqua, e l’Onu prevede che entro il 2050 la domanda salirà del 20-30% a livello globale.
Inizia così un lungo articolo pubblicato su Nature nel quale Cecilia Tortajada, dell’Institute of Water Policy della Lee Kuan Yew School of Public Policy dell’Università di Singapore, e Pierre von Rensburg, del Department of Urban and Transport Planning di Windhoek (Namibia), raccontano le storie dei paesi dove la lavorazione delle acque reflue è molto avanzata, e dove percentuali non piccole della popolazione già oggi le usano per tutti gli impieghi domestici, compreso quello potabile.
Negli ultimi anni, spiegano gli autori, diverse città hanno iniziato a riutilizzare l’acqua proveniente dagli impianti di depurazione, che talvolta è l’unica opzione disponibile. Altrove si potrebbe fare lo stesso, ma la rappresentazione negativa data dai media e le informazioni scorrette o carenti fornite dalle autorità preposte hanno spesso generato una tale diffidenza nella popolazione interessata da impedire lo sviluppo di progetti che sarebbero stati all’insegna della sostenibilità.
Per avvicinarsi all’obbiettivo dell’accettazione piena bisognerebbe agire su più fronti, il primo dei quali è quello del trattamento. Oggi nei paesi occidentali la maggior parte delle acque reflue viene lavorata affinché non sia pericolosa, e poi scaricata nel mare o nei fiumi. Ma basterebbe migliorare il processo per poterla riutilizzare anche come acqua potabile, per esempio inviandola a un secondo ed eventualmente a un terzo impianto di depurazione (dopo quello classico) affinché venga trattata con agenti biologici, fisici o chimici in grado di depurarla del tutto. Da lì potrebbe essere reimmessa nel sistema degli acquedotti, oppure scaricata nei mari, nei laghi e nei fiumi, ma con un grado di purezza che la renderebbe indistinguibile da quella di sorgente, con evidenti vantaggi per l’ambiente, per la salute umana e soprattutto per i corsi di acqua dolce.
L’acqua riciclata è il prodotto del trattamento intensivo delle acque reflue
Un altro aspetto sul quale si potrebbe puntare è la conservazione: ovunque i sistemi vanno migliorati, avvalendosi anche di metodi moderni e basati sul controllo da parte dell’intelligenza artificiale, per migliorare la qualità e contenere sprechi e rischi. Allo stesso tempo, la popolazione andrebbe sensibilizzata molto di più affinché riduca gli sprechi, e conosca i benefici ambientali dell’acqua riciclata.
Quest’ultimo punto è particolarmente delicato, e potrebbe essere la chiave di tutto, scrivono gli autori, citando alcuni casi come quello della San Fernando Valley, in California. Lì già nel 1995 era stato proposto un piano per riutilizzare le acque, ma il Los Angeles Times aveva parlato del progetto con toni allarmistici, ripresi da alcuni politici locali, e alla fine l’unico impiego consentito era stato quello agricolo-industriale.
In Australia, nel 2006 i cittadini di Toowoomba (il 62% dei 95 mila residenti) hanno fermato un progetto simile, e nel 2009 è stato bocciato un grande programma, il Western Corridor Recycled Water Scheme, nonostante in quegli anni si fosse registrata la peggiore siccità mai riscontrata nella zona. Il progetto sarebbe costato 1,6 miliardi di dollari e avrebbe fornito 230 mila metri cubi d’acqua al giorno, pari al 30% del fabbisogno della zona, ma la mobilitazione popolare ha posto un limite: l’acqua riciclata per uso domestico avrebbe potuto essere prodotta solo quando i livelli del bacino idrico fossero scesi al di sotto del 40% del normale, ed è diventata quindi solo una sorta di misura di emergenza.
Bisogna quindi lavorare molto e con intelligenza sul fronte dell’informazione al pubblico, perché questo può fare la differenza. Esemplare, in tal senso, quanto accaduto a San Diego, in California, negli anni Novanta, dove era stato proposto un progetto di riciclo volto a diminuire la dipendenza dal fiume Colorado, anch’esso inquinato e soggetto a periodi di siccità ricorrenti e sempre più frequenti. Inizialmente la popolazione lo aveva appoggiato, ma in un secondo tempo l’orientamento era mutato per la scarsità delle informazioni sulla sicurezza fornite, oltreché per articoli e reportage con titoli come “berremo l’acqua di fogna”. Il risultato era stato che, anche in quel caso, era stato permesso solo un uso industriale o agricolo, e il problema dell’approvvigionamento idrico aveva continuato ad aggravarsi. Nel 2004, solo il 26% approvava il riutilizzo delle acque.
Pfas
Diversi progetti per il riutilizzo dell’acqua riciclata sono stati bloccati per l’ostilità e i timori della cittadinanza
Poi la svolta, basata su un’adeguata campagna informativa: nel 2012 la percentuale di cittadini favorevoli era salita al 72% e l’anno successivo la città ha approvato il Pure Water San Diego, un programma grazie al quale gli impianti di depurazione e riciclo dovrebbero produrre 114 mila metri cubi di acqua al giorno entro il 2023, e fornire un terzo dell’acqua necessaria alla città entro il 2035. Il successo è stato possibile grazie al continuo coinvolgimento dei cittadini, dell’amministrazione locale e nazionale, delle aziende coinvolte, di medici e scienziati ambientali, di leader religiosi e, non ultimo, dei media.
Lo stesso è accaduto durante la realizzazione di tre progetti analoghi. Il primo è il caso di Windhoek, in Namibia, città che sorge in una zona desertica, dove i lavori del Goreangab Water Reclamation Plant sono iniziati addirittura nel 1968: oggi l’impianto fornisce alla città il 24% dell’acqua potabile (21 mila metri cubi al giorno), quota che è salita al 30% nel biennio 2014-2016, flagellato da una tremenda siccità durante la quale le fonti normali avevano potuto fornire solo il 10% dell’acqua potabile.
Il secondo è quello della Contea di Orange, in California, nella quale dal 2008 è operativo l’Orange County Groundwater Replenishment System, ovvero il sistema di purificazione delle acque più grande del mondo, che produce ogni giorno 379 mila metri cubi d’acqua. Infine c’è Singapore, che ha lavorato per molti anni al suo NEWater prima di lanciarlo, nel 2003. Oggi il sistema fornisce addirittura il 40% di tutta l’acqua necessaria alla città, potabile e non, e dovrebbe salire al 55% nel 2060.
Va detto – ricordano Tortajada e von Rensburg – che i timori sulla sicurezza delle acque non sono del tutto infondati, e che è necessario quindi lavorare con particolare scrupolo su di esso. Uno dei casi più famosi è quello di Flint, in Michigan, che nel 2014 dovette fare i conti con acqua pesantemente contaminata con il piombo, e casi analoghi si sono avuti negli ultimi mesi in alcune cittadine canadesi. Nel 2019, invece, in alcune città della California l’acqua è risultata contaminata da Pfas. Anche per questo bisognerà mettere a punto sistemi di controllo sempre più efficaci e sensibili per le possibili contaminazioni batteriologiche o virali (in crescita a causa del riscaldamenti globale), ma anche chimiche, poiché è in costante aumento il numero e la varietà delle sostanze che vengono scaricate in acqua (si pensi, per esempio, a detersivi, cosmetici e farmaci).
Ma le esperienze dei paesi più avanzati e attenti dimostrano che fornire acqua riciclata del tutto sicura è possibile, e conveniente per tutti. E presto potrebbe essere necessario.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Oms: rafforzare la ricerca sugli impatti delle microplastiche sulla salute umana

«Secondo le informazioni limitate di cui disponiamo non sembrano presentare dei rischi, almeno ai livelli attuali. Ma dobbiamo approfondire»


In seguito alla pubblicazione di un’analisi dello stato della ricerca sulle microplastiche nell’acqua potabile, oggi l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha lanciato un appello per  «condurre una valutazione approfondita  delle microplastiche presenti nell’ambiente e delle loro potenziali conseguenze sulla salute umana e ha chiesto anche di «ridurre l’inquinamento da plastica per proteggere l’ambiente e ridurre l’esposizione umana».
Maria Neira, direttrice del dipartimento salute pubblica, ambiente e determinanti sociali della salute dell’Oms, ha sottolineato che «E’ urgente saperne di più sulle conseguenze delle microplastiche sulla salute, perché sono presenti dappertutto, compreso nell’acqua che beviamo. Secondo le informazioni limitate di cui disponiamo, le microplastiche presenti nell’acqua potabile non sembrano presentare dei rischi per la salute, almeno ai livelli attuali. Ma dobbiamo approfondire la questione. Dobbiamo anche ostacolare l’aumento dell’inquinamento da plastica in tutto il mondo».
Secondo l’analisi, che presenta una sintesi delle ultime conoscenze sulle microplastiche nell’acqua potabile, «Quelle con una dimensione superiore ai 150 micron non sono in principio assorbite dall’organismo umano e l’assorbimento dei particolati più piccoli dovrebbe essere limitato. L’assorbimento e la distribuzione di particolato microplastico molto piccolo, in particolare di nanoparticolato, dovrebbe però essere più elevato, anche se i dati al riguardo sono molto limitati».
Secondo l’Oms sono necessarie nuove ricerche «per valutare più esattamente l’esposizione alle microplastiche e le loro potenziali conseguenze sulla salute umana. Bisognerà in particolare mettere a punto dei metodi standardizzati per misurare il particolato di microplastica nell’acqua, realizzare nuovi studi sulle fonti e la presenza di microplastiche nell’acqua dolce e valutare l’efficacia delle diverse procedure di trattamento».
L’Oms raccomanda I fornitori di acqua potabile e alle autorità che regolamentano il settore idrico di  «Dare la priorità alla rimozione degli agenti patogeni microbici e dei prodotti chimici che presentano dei rischi comprovati per la salute umana, per esempio quelli  che provocano malattie diarrotiche mortali. Questo approccio ha un duplice  vantaggio: infatti, i sistemi di trattamento delle acque reflue e di acqua potabile che trattano feci e sostanze chimiche contribuiscono efficacemente alla rimozione delle microplastiche. Il trattamento delle acque reflue è un mezzo per rimuovere oltre il 90% delle microplastiche presenti in queste acque, il metodo più efficace in questo senso è il trattamento terziario (ad esempio la filtrazione). Il trattamento convenzionale dell’acqua potabile permette di rimuove le particelle di dimensioni inferiori al micron».
Ma l’Oms conclude ricordando che «Tuttavia, gran parte della popolazione mondiale non beneficia attualmente di sistemi adeguati per il trattamento delle acque e delle acque reflue. Affrontando il problema dell’esposizione umana all’acqua contaminata con le feci, le comunità possono agire simultaneamente su quello posto dalle microplastiche».

fonte: www.greenreport.it

Miliardi di pezzi di microplastica sfuggono ai depuratori

Stiamo irrorando il terreno con tonnellate di microplastiche. Uno studio condotto in Italia, il primo nel suo genere, rivela la dimensione di questa microscopica minaccia non solo per gli ecosistemi, ma anche per la nostra salute















Dalle lavatrici di casa finiscono nei terreni coltivati una enorme quantità di microplastiche. Non è necessario passare per gli oceani, che sappiamo essere contaminati; le microplastiche possono rientrare nella catena alimentare e sui nostri piatti già dietro a casa nostra, quando non finiscono nelle falde acquifere o nei fiumi. Ci arriverebbero dopo aver superato i filtri anche dei migliori depuratori, che comunque non sono concepiti per il trattamento di queste fibre. Uno studio condotto in Italia, primo nel suo genere, ha infatti rivelato la dimensione di questa microscopica minaccia non solo per gli ecosistemi, ma anche per la nostra salute dimostrando che stiamo irrorando il terreno con tonnellate di microplastiche.
“Il tema è noto negli oceani, e sta preoccupando i cittadini a livello europeo e globale”, spiega Andrea Binelli, co-autore dello studio pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment. “Ma da dove arrivino queste microplastiche, o come giungano in mare attraverso le acque continentali, sono domande ancora aperte. L’80% dell’inquinamento marino da microplastiche proviene dai continenti, in particolare attraverso i fiumi.”
Lo studio dimostra, in breve, che i depuratori non sono sempre una barriera assoluta contro le microplastiche. Anzi. Milioni di particelle sintentiche fuoriescono quotidianamente dagli impianti, e vengono in parte poi sparsi nei campi come fertilizzanti.
I ricercatori della Università di Milano, della Università Politecnica delle Marche, e del Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare, hanno selezionato uno dei migliori e più grandi impianti di depurazione del nord Italia.L’impianto si occupa dei servizi idrici di una vasta area urbana in Lombardia e depura una media di 400 milioni di litri di acque reflue al giorno.
I test compiuti sugli impianti hanno rivelato una efficienza particolarmente buona nel trattenere le microplastiche, scrivono i ricercatori. Secondo cui l’84% delle microplastiche entrate negli impianti non erano presenti nelle acque che ne fuoriuscivano.
Nelle acque prodotte quotidianamente dal depuratore abbiamo trovato una media di 160 milioni di microplastiche, mentre nei fanghi si saliva a 3 miliardi e quattrocento milioni.” Un residuo importante, perché le acque e i fanghi, se non inceneriti o smaltiti in discarica, possono essere utilizzati come fertilizzanti in agricoltura.
A penetrare i terreni agricoli sono decine di milioni di brandelli minuscoli di pellicole trasparenti, fibre o frammenti plastici di cui ancora non si conosce la tossicità ma che, come altri inquinanti persistenti (ovvero resistenti alla decomposizione) sono ora ritrovati in tutto il mondo. Fino ai più remoti, e apparentemente immacolati, ghiacci artici.
Si tratta di frammenti di prodotti come il poliestere, il nylon, l’acrilico non più grandi di mezzo millimetro, e piccoli fino ad essere invisibili a occhio nudo.
Queste forme di plastica, rappresentano circa il 60% del materiale di cui sono composti i nostri capi d’abbigliamento. Che sono robusti, leggeri, caldi per l’inverno ed economici, ma nocivi per gli ecosistemi, di cui facciamo parte anche noi. Ad ogni lavaggio si staccano minute parti di tessuto e da qui comincia il viaggio della microplastica fino al terreno agricolo.
Oltre che nei capi che indossiamo, microsfere di plastica sono talvolta aggiunte a prodotti per la salute e la bellezza, come alcuni detergenti e dentifrici.
Le microplastiche ingerite potrebbero trasmettere sostanze chimiche nocive per l ’organismo e gli ecosistemi.
“Sulla tossicità delle microplastiche siamo all’anno zero. Ne sappiamo pochissimo”, spiega ancora Binelli. Tanto che la EU non li ha ancora inseriti come nuovi contaminanti da ricercare nelle acque potabili. Alcuni Paesi cominciano a bandire o regolamentare l’uso di microsfere plastiche, ma mancano ancora conoscenze sufficienti per una normativa efficace.
Stranamente, fa notare Binelli, una normativa manca perfino sui composti farmaceutici di cui si trovano tracce ovunque, che sono sicuramente nocivi e noti alla scienza, ma su cui le istituzioni non prendono posizione. “Questi sono assolutamente tossici ma a differenza delle plastiche non si vedono, fanno meno paura ed hanno quindi meno presa sulla opinione pubblica.”
Le plastiche, macro o micro che siano ci preoccupano in mare, dove vengono ingerite dai pesci e, con loro, possono arrivare sulle nostre tavole. Il nuovo studio riporta l’attenzione dai mari ai continenti, avvertendoci che è a rischio la salute del terreno in cui coltiviamo il nostro cibo.
fonte: www.lastampa.it


Microplastiche, l’inquinamento parte dalle lavatrici di casa

Il 35% dei micro-frammenti di plastica che inquinano mari e oceani vengono dai lavaggi dei nostri capi d’abbigliamento: gli indumenti sintetici, che oggi rappresentano il 60% del consumo tessile globale, rilasciano grosse quantità di fibre. Contaminando la catena alimentare





Ogni giorno da un grande depuratore del Nord Italia fuoriescono verso i fiumi acque trattate contenenti 160 milioni di frammenti di microplastiche. Tantissimi, ma meno del 20% di quelli contenuti nei reflui in entrata. L’84%, pari a circa 3,4 miliardi di frammenti, rimane infatti nei fanghi di depurazione, gli scarti di pulitura che però in molti casi vengono sparsi nei campi come concime. Quando si parla di microplastica negli oceani, la maggior parte degli studiosi guarda all’ultimo anello della catena, il mare, mentre pochi provano a risalire i passaggi per cercare le fonti della contaminazione.
Una ricerca realizzata dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’università Politecnica delle Marche, coordinata dalla fondazione AquaLab e pubblicata a ottobre sulla rivista “Science of the Total Environment” ha studiato il fenomeno all’origine concentrandosi su un grande impianto di trattamento dei reflui e su ciò che finisce nelle acque dolci.

Oggi, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), tra il 15% e il 31% delle microplastiche presenti negli oceani ci finisce direttamente sotto forma di frammenti più piccoli di 5 millimetri, in un caso su quattro proprio attraverso i fiumi. La fonte principale (35% dei frammenti) sono i lavaggi in lavatrice: gli indumenti sintetici, che oggi rappresentano il 60% del consumo tessile globale, rilasciano grosse quantità di fibre, che dallo scarico domestico passano nei depuratori. Altra fonte significativa di particelle di microplastica è il logorio dei pneumatici (28%), le cui particelle arrivano nei mari tramite il vento e i reflui stradali. Infine, dai depuratori passano anche le microsfere contenute nei cosmetici, minuscole ma responsabili da sole del 2% dei frammenti totali.

Un’altra ricerca condotta dall’Istituto per gli studi ambientali dell’università Vrije di Amsterdam ha trovato concentrazioni di microplastiche comprese tra 9 e 91 particelle per litro nelle acque trattate da tre depuratori olandesi che scaricano in mare o nei fiumi. “Gli impianti di depurazione di recente costruzione, pur non essendo progettati per la separazione di piccoli frammenti di plastiche, riescono ad evitare che otto frammenti su dieci arrivino al fiume”, dice il direttore di AquaLab e docente presso l’università Bocconi di Milano, Alessandro De Carli guardando al bicchiere mezzo pieno. Certo, dove i depuratori sono vecchi o inesistenti, le cose vanno molto peggio. Per immaginare situazioni peggiori basta pensare che l’Italia a maggio scorso è stata multata dall’Europa per non aver ancora completato fognature e impianti di depurazione in 74 città.

Quando a casa chiudiamo l’oblò della lavatrice e premiamo il tasto “on”, difficilmente il nostro pensiero va alle microplastiche in mare. Eppure quel lavaggio sarà il punto di partenza di un lungo viaggio verso gli oceani per migliaia di fibre. Secondo la Fao (Fondo delle Nazioni Unite per l’alimentazione) e l’International Cotton Advisory Committee, tra il 1992 e il 2010 il consumo di fibre sintetiche è aumentato del 300%, passando da 16 a 42 milioni di tonnellate. Non esistono -al momento- dati scientifici completi sull’esatta quantità di microplastiche che, dai nostri maglioni o dai jeans, finisce nelle acque dei fiumi dopo i lavaggi. Ma i dati disponibili sono allarmanti.

Una ricerca guidata da Mark Browne dell’University College di Dublino nel 2011 ha dimostrato per esempio che un singolo capo può liberare in un lavaggio più di 1.900 microfibre. Uno studio dell’università di Plymouth pubblicato nel 2016 ha messo a confronto tessuti diversi e analizzato una serie di variabili di lavaggio. Se non si sono ottenuti risultati chiari rispetto al tipo di detersivo e all’aggiunta o meno di ammorbidente, è emerso però che dai capi completamente sintetici si staccano più microfibre: su un carico da 6 chilogrammi, infatti, capi in tessuti misti cotone e poliestere rilasciando quasi 138mila fibre, contro le oltre 496mila del poliestere e le quasi 729mila dell’acrilico. Di fronte a questi dati, alcuni grandi gruppi di abbigliamento stanno cercando di correre ai ripari prima che sia l’Europa a mettere dei paletti: tra questi, l’associazione di marchi per sport all’aperto European Outdoor Group, che sta conducendo ricerche sul tema, e aziende come Benetton.

© “Primary Microplastics in the Oceans”

Dal depuratore i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso l’assorbimento da parte dei pesci usati per l’alimentazione umana. Il gruppo scientifico coordinato dall’ecotossicologo dell’università statale di Milano (dipartimento di Bioscienze) Andrea Binelli ha studiato in che modo le microplastiche entrano negli organismi d’acqua dolce. Una prima ricerca, condotta in collaborazione con l’agenzia governativa canadese Eccc, ha mostrato come i piccoli frammenti penetrino in tutto l’organismo dei molluschi d’acqua dolce Dreissena polymorpha.

“Le microplastiche somministrate ai bivalvi entrano non solo nel tratto digerente, ma riescono a infiltrarsi attraverso le pareti intestinali, venendo trasportate dal sistema circolatorio in altri organi, dove si accumulano nelle cellule”, spiega Binelli. In altre ricerche in corso di pubblicazione, gli scienziati milanesi hanno osservato l’infiltrarsi delle microplastiche negli embrioni di Danio rerio , un pesce di acqua dolce usato comunemente negli esperimenti di laboratorio: “Dopo solo 24 ore di esposizione, le microsfere di polistirene sono state rilevate nelle branchie, nel tubo digerente e, per la prima volta, anche in un organo di senso presente nella linea laterale dei pesci, chiamato neuromasto. Anche in questo caso le microplastiche sono riuscite a infiltrarsi nei tessuti dell’organismo, in quanto sono state rilevate nella muscolatura e in prossimità di un vaso sanguigno”, aggiunge lo studioso.

Sui possibili effetti ancora non ci sono informazioni esaustive, anche se dai test sui molluschi arrivano indizi interessanti. I ricercatori dell’università di Milano hanno esposto i bivalvi per sei giorni a concentrazioni di 1 milione e di 4 milioni di microsfere di polistirene per litro: se nel primo caso non si sono osservate variazioni significative delle proteine branchiali, nel secondo si è osservata l’alterazione di 78 diverse proteine, legate per lo più all’aumento o alla risposta allo stress ossidativo. “Questo sembrerebbe indicare la presenza di un valore-soglia oltre il quale si attiva una risposta dell’organismo nei confronti della presenza di microplastiche”, spiega ancora Binelli.

Una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche “è legata soprattutto ai contaminanti adsorbiti sulla loro superficie, raccolti in ambiente, e ai plasticizzanti che vengono impiegati per la loro produzione. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva degli organismi”, spiega ancora Binelli.

Aspetti da approfondire anche per capire che cosa davvero entra nella catena alimentare, sia attraverso i pesci, sia attraverso i fanghi di depurazione sparsi sui campi. Binelli ci tiene a non cadere in allarmismi al momento non supportati da evidenze scientifiche: “Nelle prove di esposizione eseguite in laboratorio abbiamo, comunque, impiegato concentrazioni di microplastiche decisamente superiori ai livelli ambientali, in quanto ci interessava capire se le microplastiche entrassero nei nostri modelli biologici, il loro eventuale trasporto all’interno degli organismi e il meccanismo d’azione tossicologico. Il passo successivo, sarà quello di comprendere il loro comportamento e la pericolosità a concentrazioni ambientali, con esposizioni più lunghe, che mimino l’esposizione reale degli organismi acquatici”. Altre ricerche dovranno essere fatte sulle microfibre tessili, che potrebbero avere comportamenti differenti dalle microsfere.

Due studiosi dell’università di Portsmouth, Paul Farrell e Kathryn Nelson, hanno dimostrato che le microplastiche assorbite dalle cozze sono in grado di passare nel sistema circolatorio del loro predatore, un comune granchio, passando così nella catena alimentare: “Questo pone una seria minaccia alla sicurezza dell’alimentazione umana, specialmente con i mitili marini edibili”, si legge nell’articolo scritto dai ricercatori italiani e canadesi.

fonte: https://altreconomia.it/

Croazia campione nella pulizia del mare grazie ai microorganismi biologici

Dal 2009 al 2015 la Croazia ha affrontato il problema dell’inquinamento del mare derivante dal turismo eccessivo. Ecco come e con quali risultati.















Rovinj, Meleda, Krk, Lesina, Dubrovnik, Bol. La Croazia pullula di località balneari rinomate. E per questo il litorale, ogni estate, è preso d’assalto dai visitatori provenienti da tutto il mondo. L’industria turistica è da anni in pieno sviluppo e rappresenta un autentico pilastro dell’economia nazionale. Ma tutto ciò ha un impatto sull’ambiente, ed in particolare sul mare.

















Molti edifici sulla costa della Croazia sversavano acque usate in mare

A lungo lo sversamento di acque usate nell’Adriatico, infatti, è stato effettuato in modo diretto e senza alcun trattamento preventivo. Il che ha comportato una minaccia diretta per l’equilibrio dell’ecosistema marino. È per questo che le autorità della Croazia, nel 2009, hanno lanciato un “Progetto di lotta contro l’inquinamento delle città costiere”. Il programma, terminato nel 2015, ha permesso di porre fine alle pratiche di scarico indiscriminato, ha consentito di testare soluzioni innovative e di migliorare il monitoraggio della qualità dell’acqua.












“Soltanto l’eliminazione delle fonti di inquinamento avrebbe potuto permettere di preservare il mare e ridurre i rischi sanitari”, ha spiegato sul proprio sito la Banca mondiale, che ha finanziato il progetto con 87,5 milioni di dollari, ai quali si sono aggiunti i 6,4 milioni del Global Environment Facility. Il resto, fino ad un totale di 175 milioni, è stato pagato dal governo di Zagabria.

Installate 14 centrali di depurazione “totalmente ecologiche”

In termini concreti, sotto la direzione del ministero della Protezione ambientale e dell’Agenzia nazionale idrica (Hrvatske vode), gli interventi hanno riguardato 23 comuni e complessivamente 230mila abitanti. Sono state aperte quattordici nuove stazioni di depurazione di ultima generazione, “che funzionano unicamente grazie a dei microorganismi biologici, null’altro. Un processo totalmente ecologico”, ha precisato Branka Viduka, tecnico del sito costruito a Zara, in Dalmazia.









È stata poi costruita una rete di raccolta di dati lunga 162 chilometri, incrementato la raccolta di acque usate e non trattate dal 29 per cento del 2009 al 72 per cento del 2016. Sono state inoltre installate dodici sonde sottomarine. “I tanti edifici costruiti sul litorale ma non raccordati alla rete e che pertanto sversavano direttamente in mare le acque usate – ha affermato Alenka Turkovic, specialista dell’impianto di depurazione di Abbazia, in Istria – rappresentavano uno dei principali problemi. Con la costruzione delle stazioni di depurazione, i turisti possono ora tuffarsi in coste perfettamente pulite”.
fonte: www.lifegate.it

Studio sulle sostanze contaminanti nei rifiuti plastici galleggianti

In mare il 65% dei rifiuti monitorati nel 2017 da Goletta Verde è rappresentato da buste, teli e fogli di plastica. La presenza maggiore nell’Adriatico centrale, con il 25% del totale
















Lo studio sperimentale realizzato da Legambiente, in collaborazione con l’Università di Siena – progetto Plastic Busters (UfM – SDSN), sui rifiuti di plastica galleggianti in mare (in particolare buste, teli e fogli di plastica, oggetti del campionamento) e sulle sostanze contaminanti come organoclorurati (PCB, DDT, HCB) e mercurio, conferma che «Il rischio delle plastiche in mare non è legato solo alla loro presenza e agli effetti che hanno sulla fauna marina, ma soprattutto al fatto che possono anche veicolare sostanze tossiche che vi si accumulano sopra».

Lo studio è stato pubblicato in occasione  della Giornata mondiale degli oceani, l’8 giugno, una data importante per Legambiente che proprio un anno fa presentò all’Onu a New York, nell’ambito della conferenza mondiale sugli oceani, un impegno comune con l’università di Siena (Voluntary Commitment #OceanAction20169), sul tema del marine litter.

Secondo il Cigno Verde e l’Ateneo toscano, lo studio, il primo di questo tipo nel Mediterraneo, «apre la riflessione su un tema nuovo, anche alla luce degli effetti sulla catena alimentare legati all’ingestione delle plastiche in mare. I risultati, seppure preliminari, tracciano una quadro complessivo poco roseo per il mare italiano. Il dato più importante che emerge riguarda la presenza di sostanze inquinanti: su tutti i campioni analizzati sono presenti contaminanti come mercurio, policlorobifenili (PCB), DDT ed esaclorobenzene (HCB). La concentrazione di queste sostanze varia in base all’area di campionamento, la natura del polimero, il grado di invecchiamento del rifiuto. Il campionamento ha riguardato una sola tipologia di plastiche galleggianti le “sheetlike user plastic” (buste, fogli e teli), che rappresentano la frazione più abbondante del marine litter».

Lo confermano anche i dati raccolti nel 2017, durante la navigazione lungo le coste italiane, da Goletta Verde, affiancata dai ricercatori del progetto MedSeaLitter che prevede la sperimentazione di metodologie per l’osservazione dei rifiuti galleggianti, con l’obiettivo di sviluppare protocolli comuni per la quantificazione del marine litter. «Buste, teli e fogli di plastica, costituiscono il 65% dei rifiuti galleggianti monitorati e avvistati nel 2017 dall’imbarcazione ambientalista. Il 25% di questi è stato trovato nell’Adriatico centrale».

Il direttore generale di Legambiente, Giorgio Zampetti, spiega che «Il problema del marine litter e dei rifiuti galleggianti lungo le coste italiane sta assumendo proporzioni sempre più preoccupanti, come dimostrano i dati che raccogliamo ogni anno con Goletta Verde. La collaborazione tra Legambiente e Università di Siena che unisce il mondo della ricerca scientifica e quello del volontariato ambientale per condurre studi e sensibilizzare sul tema del marine litter, ha permesso di realizzare questo importante studio, il primo a livello del Mediterraneo. I dati dimostrano con evidenza che il rischio connesso con i rifiuti plastici presenti nell’ambiente marino non deriva solo dalla loro presenza, ma anche e soprattutto dal fatto che fanno da catalizzatori di sostanze tossiche che finiscono poi nell’ecosistema marino, fino al rischio di entrare nella catena alimentare. Purtroppo, la cattiva gestione dei rifiuti a monte e la maladepurazione restano la principale causa del fenomeno del marine litter. Prevenire il fenomeno e rimuovere le plastiche che oggi sono disperse in mare e sulle spiagge è dunque una priorità, non solo per la salvaguardia ambientale ma anche per la tutela della salute».

I rifiuti analizzati dai ricercatori dell’Università di Siena sono stati raccolti e campionati da Goletta Verde di Legambiente l’estate scorsa durante la navigazione lungo la Penisola. Per ogni campione, l’equipaggio dell’imbarcazione ambientalista ha preso la posizione GPS, scattato foto, compilato una scheda di campionamento, ed eseguito una procedura di raccolta e conservazione come previsto dal protocollo indicato dell’Università di Siena. I ricercatori, Cristina Panti e Matteo Baini, hanno poi effettuato le varie analisi in laboratorio. Qui la composizione polimerica di ciascun campione è stata valutata tramite la tecnica di spettrometria ad infrarossi. Dall’analisi è emerso che «l’86% delle macroplastiche analizzate è costituito da polietilene (PE) e il 14% da polipropilene». Inoltre, per quanto riguarda l’analisi dei contaminanti organoclorurati e del mercurio identificati sulle microplastiche galleggianti, dallo studio emerge che «Tutti i campioni hanno presentato livelli apprezzabili di questi contaminanti. I dati dimostrano un accrescimento delle concentrazioni con la permanenza in mare in una prima fase e una successiva diminuzione con l’invecchiamento: probabilmente, con l’avanzare dei processi degradativi a cui va incontro la plastica una volta in mare, essa rilascia parte del carico di contaminanti».

Maria Cristina Fossi, professore ordinario di ecologia ed ecotossicologia all’università di Siena, conclude: «I risultati prodotti, seppur parziali, dimostrano la necessità di approfondire i rischi sul biota e i possibili rischi sulla rete trofica legati alla presenza di plastiche in mare e all’accumulo di sostanze inquinanti sulla superficie dei macrorifiuti galleggianti.  Un aspetto molto interessante, infatti, sarebbe quello di integrare i dati ottenuti sulla tipologia di macroplastica e i relativi dati ecotossicologici, con quelli oceanografici sulla densità dei rifiuti galleggianti nelle diverse aree analizzate. Questo consentirebbe di individuare delle aree “hot spots” per una successiva analisi di rischio, soprattutto in relazione alla possibilità che queste aree coincidano con quelle di foraggiamento delle specie marine, come ad esempio le tartarughe marine».

fonte: www.greenreport.it

Creare energia dai rifiuti, Enea guida il progetto Ue



















BRUXELLES - Individuare soluzioni innovative per far funzionare con fonti rinnovabili gli impianti di depurazione e di smaltimento dei rifiuti urbani. E' l'obiettivo del progetto 'Interreg REEF 2W', un'iniziativa europea che vede capofila l'Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile) con altri 10 partner provenienti da 5 Paesi Ue. Per l'Italia partecipano anche Unioncamere Veneto e la Montefeltro Servizi, la società 'in house' di proprietà dei sette Comuni dell'Alta Valmarecchia (Emilia-Romagna).

"La sfida principale è quella di poter rendere la gestione di reflui e rifiuti organici una risorsa e non un problema" spiega in una nota Roberto Farina, esperto del Laboratorio biomasse e biotecnologie per l'energia dell'Enea. "L'obiettivo è di sviluppare soluzioni per aumentare l'efficienza energetica e la produzione di energia rinnovabile nelle piattaforme di smaltimento e di arrivare alla 'neutralità energetica' attraverso l'integrazione ottimale fra la catena dei rifiuti solidi urbani con gli impianti di depurazione", aggiunge Farina.

In particolare, REEF 2W cercherà di sviluppare modelli che permettano di massimizzare l'energia ottenibile dalla fermentazione biologica di biomasse di scarto. Il progetto triennale rientra all'interno del programma interregionale Ue (Interreg) Europa Centrale, al quale partecipano 9 stati dell'Unione, fra cui l'Italia.


fonte: www.ansa.it

Tonnellate di sostanze chimiche nell’acqua di Milano

I depuratori non trattengono numerose sostanze chimiche che dagli scarichi industriali, zootecnici o umani finiscono nell’acqua del capoluogo lombardo


















Un cocktail di farmaci e sostanze chimiche, droghe, nicotina e caffeina viaggia nella corrente dei fiumi di Milano. Lo ha scoperto uno studio condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri in collaborazione con il Servizio Idrico di MM (ex Metropolitana Milanese). La ricerca, condotta con il finanziamento della Fondazione Cariplo, si è concentrata sui cosiddetti “nuovi inquinanti” che finora non vengono compresi nelle statistiche ufficiali sulla qualità dell’acqua, ma che invece sono sempre più interessanti per un corretto monitoraggio scientifico.
I nuovi inquinanti vanno dai farmaci alle droghe, dai disinfettanti ai prodotti chimici per la cura della persona, da sostanze perfluorurate e plastificanti fino a caffeina e nicotina. La ricerca sul sistema acquifero milanese ha preso in esame gli ultimi 5 anni, per arrivare a conclusioni preoccupanti: ogni giorno la popolazione del capoluogo lombardo immette nei corsi d’acqua 6,5 kg di farmaci, 1,3 kg di disinfettanti e di sostanze chimiche utilizzate per la cura della persona, 200 g di sostanze perfluorurate, 600 g di plastificanti, 400 g di droghe di abuso, 13 kg di nicotina e caffeina.


L’analisi si è svolta sulle acque fognarie e quelle di falda, da cui deriva l’acqua potabile. In tutto, hanno cercato la presenza di 80 sostanze che, come ha spiegato Sara Castiglioni, che dirige l’Unità di biomarkers ambientali dell’Istituto Mario Negri, «Tutte queste sostanze vengono utilizzate quotidianamente in quantità elevate e possono essere immesse nell’ambiente tramite gli scarichi urbani. Parte del carico di inquinanti deriva dai depuratori che ricevono le acque fognarie prodotte dalla città di Milano contenti inquinanti in notevoli quantitativi. I depuratori contribuiscono a ripulirli prima del loro scarico nell’ambiente ma solo parzialmente e molti inquinanti, in particolare i farmaci, le droghe e i prodotti chimici utilizzati per la cura della persona permangono nelle acque trattate e sono riversati in canali e fiumi con ripercussioni sugli ecosistemi. A ciò si aggiungono anche altre fonti di inquinamento, tra cui gli scarichi diretti delle attività zootecniche ed industriali».
Per Ettore Zuccato, capo del Laboratorio di tossicologia alimentare dell’Istituto, «la contaminazione dei fiumi impatta sull’ambiente ma anche sull’uomo, dato che l’inquinamento dei fiumi è correlato a quello delle falde acquifere. Fortunatamente al momento il trasporto di inquinanti sembra riguardare più la falda superficiale e meno la profonda, da cui si ottiene l’acqua per il consumo umano e quindi ad oggi la qualità dell’acqua può definirsi buona».
Questo non esclude, tuttavia, un futuro inquinamento anche delle falde profonde, con ripercussioni possibili sulla salute umana. Per evitare i rischi peggiori, è necessario regolamentare più rigidamente gli scarichi in ambiente e fare un salto tecnologico nel settore della depurazione, con costosi investimenti per filtrare sostanze che oggi non riescono a trattenere.

fonte: www.rinnovabili.it