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Noleggio abiti da sposa, da cerimonia o da sera: ecco come avere un outfit fashion in maniera sostenibile e risparmiando

Gli abiti delle grandi occasioni sono tali perché vengono utilizzati soltanto pochissime volte. E allora perché acquistarli, quando si può noleggiarli? È la fashion renting, che tra app, portali e negozi fisici continua ad ampliarsi




Continuiamo il nostro viaggio nel mondo della moda circolare rispondendo alla domanda delle domande: “non ho nulla da mettermi, come faccio?”. Chi non ha pronunciato, almeno una volta, questa frase soprattutto quando c’è di mezzo una festa o un evento al quale partecipare?

La soluzione giusta potrebbe arrivare senza dover acquistare proprio nulla. Oltre al re-sale, ovverosia il grande mercato dell’abbigliamento e accessori di seconda mano, una delle mode che sta prendendo piede è quella del fashion renting e cioè il noleggio di vestiti, borse e scarpe, in particolar modo per le grandi occasioni ma non solo.

Perché noleggiare un vestito o una borsa

Se aprissimo il nostro guardaroba e decidessimo di dividere il contenuto in due macro gruppi, probabilmente potremmo individuare un esiguo numero di abiti che utilizziamo praticamente tutti i giorni e, accanto ad esso, troveremmo una montagna composta da tutti i vestiti indossati solo una o due volte. Questo accade a causa degli degli outfit pensati per occasioni particolari come matrimoni, battesimi, feste di laurea il tutto rigorosamente moltiplicato per quattro ovvero nel rispetto delle diverse stagioni. Se poi, come capita più o meno a tutti, cambia la forma fisica, tale tipologia di capi è presente anche in differenti taglie.

A ciò si aggiunge la collezione dedicata ad appuntamenti particolari come uno spettacolo estemporaneo realizzato con alcuni amici, l’imperdibile festa di carnevale e il compleanno a tema di un caro amico al quale non abbiamo potuto mancare . Se questa è la descrizione del vostro armadio, è arrivato forse il momento di cambiare strategia. Ciò che non indossate più potrà essere rimesso in circolo grazie al mondo second hand. Per le future esigenze, continuate a leggere l’articolo per scoprire dove noleggiare accessori e abiti. In tal modo, inoltre, riuscirete a ridurre l’impatto ambientale del vostro abbigliamento. Sarà infatti necessario acquistare meno capi, con un occhio magari anche alla qualità dei tessuti, contrastando così il fenomeno del fast fashion che, come noto, diventa un problema anche nella raccolta differenziata del settore del tessile. Si riduce poi l’uso delle materie prime (ad iniziare dall’acqua, considerato che il tessile è un settore con’elevata impronta idrica) che, come ci ricorda ogni anno l’Overshoot day, non è infinito.

Ma non solo gli altri indubbi vantaggi saranno i risparmi di soldi e spazio.

Quanto vale il fashion renting

L’espressione inglese tradisce un po’ le origini di questa tendenza che, per fortuna, si sta diffondendo sempre di più anche in Italia e che ha già preso piede in Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania e… la Cina.

Come segnalato anche dall’Eurispes, nel 2023 il mercato del noleggio dei vestiti potrà avere un giro d’affari di ben 1,9 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 10,6% tra il 2017 e il 2023. A farla da padroni gli americani con il 40% del valore (dati Allied Market Research).

Perché il noleggio degli abiti sta diventando così popolare

Consapevolezza ambientale, risparmio di soldi e di spazio: non sono gli unici ingredienti di del successo del noleggio di abiti e accessori. Il renting è sempre esistito ma era legato soprattutto ad eventi eccezionali come le feste in maschera o per esigenze teatrali. Tra le chiavi della diffusione del fenomeno vi è sicuramente anche il web: il fatto di poter ricevere comodamente a casa un capo, già lavato e stirato – anzi in tempi di covid, sanificato – ha reso questa opzione assai pratica. Oltre alle diverse boutique che, nelle varie città, offrono il servizio, infatti si sono moltiplicate app e portali per rendere il noleggio accessibile con un click e comunque consentendo sempre la possibilità di avere un riferimento fisico a beneficio di chi non vuol rinunciare a provare il capo.

Se non sapete da dove partire, vi diamo alcune indicazioni, aspettando le vostre nei commenti social.

DressYoucan: da Milano alla conquista dei cuori dei renters!

Nato da un’idea di Caterina Maestro – grande amante della moda e con anni di esperienza nel web marketing- DressYouCan è un po’ l’Airbnb dei guardaroba con in più una sede fisica a Milano pensata per offrire ad ogni donna l’abito dei propri sogni. Navigando sul portale è possibile creare il proprio outfit assolutamente unico con capi di alta moda, accessori inclusi, per qualsiasi occasione: da un matrimonio a un aperitivo di lavoro.

Tramite il portale si può verificare la disponibilità dell’outfit scelto che verrà recapitato a domicilio. Il reso può essere fatto direttamente in store o mediante corriere. Se vuoi provare prima gli abiti esiste un servizio apposito per fare tutto a domicilio. Tra gli altri vantaggi v’è anche la possibilità di far eseguire piccoli lavori sartoriali come l’orlo. Alla tintoria? Pensa direttamente Dress you can. Avete il timore di macchiare il vestito o di danneggiarlo? Attivando la copertura assicurativa obbligatoria di soli 5 euro avrete una garanzia “no stress”. Non indossi l’abito? Semplicemente non paghi.

Se avete uno stilista preferito, potrete effettuare la ricerca per designer. Tra le sezioni assolutamente da segnare per future spose, quella degli abiti per il matrimonio: con poche centinaia di euro potrete avere l’abito dei vostri sogni e, al termine dei festeggiamenti, non dovrete porvi la domanda “dove lo metto?”.

Troppo semplice per non provarlo!

Drexcode e l’abito da cerimonia si affitta

Cerimonia, pranzo con le amiche o weekend elegante: qualsiasi sia l’occasione che vi spinge a cercare l’abito giusto, drexcode, portale di fashion renting dedicato alle donne, sarà al vostro fianco per trovarlo. Partite dalla scelta del look, selezionate il periodo e decidete anche se volerlo provare prima. Il gioco è fatto. Non siete sicure della taglia? Potrete gratuitamente chiederne una seconda per trovare la vestibilità perfetta. Dopo l’evento? Potrete comodamente restituirlo o se ve ne sei innamorate, potreste addirittura acquistarlo.

Pleasedonotbuy: ma guarda i modelli online e noleggiali in boutique

Nasce in casa Twinset il progetto Pleasedontbuy per consentire il noleggio di abiti d’occasione rivolgendosi in particolar modo ai giovani. La collezione è pensata proprio per il noleggio – con 21 modelli in più colori – ed è visibile sul portale. Scelto il capo, si fissa un appuntamento in una delle boutique Twinset con la linea pleasedontby.

Da Milano a Bari passando per Roma, Torino, Bergamo, Genova e Firenze (le sedi sono indicate sul portale) potreste scoprire di avere uno dei punti proprio nella vostra città. Il costo per noleggio non è indicato ma nelle faq vi sono una serie di informazioni utili e si specifica che esso varia dai 40 € fino a 100 € a seconda della tipologia del capo scelto. Tra le news riportate v’è anche che, in futuro, il renting sarà disponibile anche direttamente via portale.

Quando il noleggio è in abbonamento

Tra le formule previste per il fashion ranting una di quelle che sta avendo più successo è la modalità in abbonamento: si paga un importo fisso e si hanno gli abiti per un certo arco temporale. All’estero questa formula sta spopolando come dimostrano portali come Onloan che, in Gran Bretagna, chiede 69 o 99 sterline per avere 2-4 capi per volta o Banana Republic Style Passport negli Stati Uniti. Ralf Lauren ha lanciato “the Lauren look” che consente di avere il look della nota marca a partire da 125 dollari al mese.

In Italia un servizio in abbonamento è offerto da Drexcode: con la formula unlimited, al costo di 139€ al mese, si possono effettuare noleggi illimitati su tutti gli abiti con prezzo boutique inferiore ai 2.000€ ma bisogna prima rendere l’eventuale abito che si ha in noleggio.

Per gli accessori segnaliamo Rent Fashion Bag attraverso il quale potrete noleggiare uno degli accessori più amati dalle donne ovverosia le borse dei più grandi marchi: grazie al servizio di abbonamento potrete avere al vostro braccio una Hermès, una Louis Vuitton o una Chanel a prezzi abbordabili, specie per le grandi occasioni.

fonte: economiacircolare.com


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OneMore: tute da sci da scarti di mele e rifiuti oceanici

È l’abbigliamento ecologico del brand altoatesino OneMore, oggi in cerca di capitali su crowdfundme per continuare a crescere





Abbigliamento sportivo e da sci in similpelle ricavato dagli scarti industriali delle mele dell’Alto Adige e da un filo di nylon rigenerato, interamente realizzato con rifiuti oceanici e di discarica; capi con imbottiture create unicamente dal riciclo di bottiglie PET (polietilene tereftalato). Sono questi i cavalli di battaglia del brand altoatesino OneMore, protagonista di una campagna di equity crowdfunding su CrowdFundMe – unica piattaforma di Crowdinvesting (Equity Crowdfunding, Real Estate Crowdfunding e Corporate Debt) quotata a Piazza Affari.

OneMore è un marchio di skiwear ecosostenibile nato nel 2018 in provincia di Bolzano, nel cuore delle Dolomiti, per volontà di una squadra con oltre 20 anni di esperienza nel settore moda e con l’intento di rappresentare un esempio internazionale di design ultracontemporaneo, unito all’innovazione di prodotto, al rigore tecnico, alla perfetta vestibilità e soprattutto a una forte vocazione alla sostenibilità. Vocazione che si traduce nella rinuncia a pellicce e piume e nella ricerca di materiali riciclati o riciclabili, comeAppleSkin, similpelle prodotta dagli scarti industriali delle mele provenienti per la maggior parte dall’Alto Adige, ed ECONYL®, un filo di nylon rigenerato dai rifiuti. A oggi questi tessuti ecologici sono utilizzati per una parte della produzione, ma l’obiettivo è diventare 100% green nei prossimi anni.

La società, che ha realizzato un raddoppio dei ricavi dal primo al secondo anno di attività, passando da 300mila euro del 2018 a circa 600.000 del 2019, attende per il 2024 un fatturato quintuplicato rispetto al 2019, con un CAGR (tasso di crescita annuo composto) del 50% e conta su una forte espansione sul mercato mondiale entro i prossimi sette anni.

Dalla sua costituzione a oggi, OneMore, marchio registrato a livello internazionale, ha sviluppato una collezione completa uomo, donna e bambino (per gli sci-club), ha raggiunto una presenza nei negozi di tendenza delle più note località sciistiche (Courchevel, Meribel, Val d’Isere, Corvara in Badia, Ortisei, Livigno, Bormio, Schladming, Kitzbühel) e in quelle asiatiche di maggiore richiamo (Chongli – Cina, Tokyo – Giappone). Nel 2020 ha servito 27 punti vendita sportivi in 13 Paesi nel mondo, 9 scuole sci, 11 sci-club e un atleta di Coppa del Mondo. Anche se la pandemia ne ha rallentato l’avanzata, l’azienda è riuscita a confermare lo scorso anno un fatturato analogo a quello del 2019, con un incremento nel mese di dicembre, in virtù del potenziamento dell’e-commerce e dell’operatività online.




Forte di questi risultati e di una previsione di crescita globale annua dell’abbigliamento sportivo del 10%, nel periodo 2019-2025, secondo le stime di GrandViewReasearch, OneMore sta pianificando, sin da ora, tre potenziali scenari di Exit, da percorrere al termine dell’attuale piano di investimenti: cessione delle quote a un competitor di dimensione maggiore, a un fondo di Private Equity/Venture Capital (sul mercato sono presenti soggetti “aggregatori” di iniziative come quella di OneMore) e quotazione in Borsa.

I capitali raccolti su CrowdFundMe, con un obiettivo minimo di 350mila euro, saranno principalmente impiegati per la crescita digitale e il rafforzamento della conoscenza del marchio, anche tramite l’ampliamento della collezione che, senza rinnegare l’elemento tecnico, abbraccerà ambiti più ampi del tempo libero, fino a strizzare l’occhio allo street style.

fonte: www.rinnovabili.it


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Una rete di famiglie genovesi condivide oggetti, vestiti e buone pratiche per bimbi “a basso impatto”

Un’associazione di famiglie green ha creato TOORNA (“turna” in genovese vuol dire: di nuovo), una web app per scambiare e regalare oggetti, libri e vestiti dei propri bambini e che si avvale anche di trentacinque punti di ritiro a Genova. Perché “di nuovo è meglio che nuovo”.




Quando nasce un bambino, ci si trova inondati da giochi e vestitini passati da amici, regalati o prestati. Ci si rende conto di cosa serva effettivamente, solo imparando a conoscere il proprio figlio: c’è chi non userà mai le sdraiette e chi invece le amerà, c’è chi apprezzerà molto quel giochino musicale, chi invece lo ritroverà sempre in giro, lanciato come una pallina da baseball. Ogni bimbo ha i suoi gusti e il proprio carattere, certo è che le case sono sempre più piccole e lo spazio è sempre più ridotto.

Preziosa in queste situazioni è TOORNA, una vivace rete di scambi gratuiti che favorisce il riuso di oggetti e abbigliamento per l’infanzia: «Inizialmente veniva gestita su una chat Whatsapp, ma poi abbiamo visto quanto stimolava l’interesse, così, nel 2018, è diventata web app», racconta Marta Prisco, p.r. dell’associazione tRiciclo – Bimbi a Basso Impatto, ricordando gli esordi di quest’App, usatissima a Genova.

L’APP

Grazie al bando “Partecipa digitale”, lanciato dall’associazione Open Genova, l’associazione tRiciclo ha vinto con il progetto TOORNA e oggi l’iniziativa è sostenuta dal Comune di Genova e da Amiu: «La web app è stata sviluppata grazie al supporto tecnico dell’azienda genovese Dot Next e il giorno del lancio ha visto una bella partecipazione da parte delle istituzioni che si sono fatte portavoce insieme a noi di questo messaggio importante per l’ambiente e la città».



Come funziona in concreto? TooRNA consente di donare, prestare e chiedere in regalo oggetti per i bimbi nella fascia d’età 0-12 anni e per le mamme in dolce attesa. E sono quasi 5000 gli oggetti scambiati in questi primi due anni, dallo scaldabiberon alle tutine fino al triciclo, passando anche per oggetti più “strani”: «C’è una tortiera – sorride Marta – a forma di 3, che può essere usata per il terzo compleanno, ma anche per il tredicesimo o il trentatreesimo, e sta viaggiando molto, ce la siamo passata un po’ tutti… anche questo è il bello di TOORNA».

L’ASSOCIAZIONE

tRiciclo è un’associazione di genitori volontari nata da un gruppo di famiglie genovesi che ha deciso di crescere i propri figli all’insegna della sostenibilità ambientale. «Dal 2016, promuoviamo comportamenti virtuosi per la riduzione dei rifiuti, incoraggiando la condivisione di cose e saperi». Ed è iniziata con gruppi di acquisto solidale, per poi evolversi sempre di più.

GLI ALTRI PROGETTI

Oltre all’app, l’associazione porta avanti altre iniziative, come PANNOLINI VERDI, che promuove l’uso di pannolini lavabili e di pannolini biodegradabili, attraverso gruppi di acquisto e la sperimentazione negli asili nido genovesi. Risale, poi, al 2019 un grande censimento svolto dai volontari per indagare e mappare le abitudini dei vari istituti scolastici del territorio e diffondere l’uso di stoviglie lavabili. «In diversi casi, siamo riusciti a far virare nella direzione più ecosostenibile diversi plessi, facendo adottare borracce in metallo da ogni alunno, sostenendo le famiglie organizzando gruppi di acquisto dedicati».



«A breve lanceremo un video animato di presentazione dell’associazione che verrà proiettato nei corsi prenascita negli ospedali di Genova: Carla Signoris ci ha prestato la sua voce ed è stato realizzato da YOGE, un’agenzia genovese di comunicazione sensibile, grazie al sostegno di ERG e al supporto di IREN».

Altro tema molto sentito dall’associazione è quello della mobilità. Proprio in queste settimane stanno promuovendo il pedibus, con l’hashtag #desideriodipedibus, un “trenino” di bambini e genitori diretti a scuola nel modo più ecologico e divertente: a piedi! E vedere questi bambini camminare insieme fino alla scuola, attraversando in sicurezza il centro città, è emozionante.

«Quello che desideriamo è che diventi la regola: stiamo lavorando per istituire “zone 30”, dove non si possono superare i 30km/h nei pressi delle scuole, e sensibilizzare le scuole sulla necessità di investire tempo ed energie sull’importanza della mobilità sostenibile».

E i piani per il futuro riguardano l’adozione di TOORNA da realtà associative non genovesi: «Vorremmo condividere l’App, essendo opensource, con associazioni simili alla nostra in altre città, liguri e d’Italia: in soli due anni abbiamo risparmiato alla discarica quasi 5000 oggetti, quindi la nostra iniziativa può essere importante per tante famiglie che si vogliono aprire agli scambi anche al di fuori dai confini regionali».

Grandi idee combinate a piccole azioni, che danno un segnale forte alla cittadinanza: per l’ambiente e per vivere meglio.

fonte: www.italiachecambia.org


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FabricAID, l’idea di un 24enne libanese per riciclare gli abiti usati

Omar Itani ha vinto il premio Young Champions of the Earth delle Nazioni Unite grazie alla creazione del primo hub di riciclo e ridistribuzione dell’abbigliamento nell’Asia occidentale a favore delle comunità svantaggiate



















Si chiama FabricAID ed è la realtà creata dal giovane libanese Omar Itani per riciclare abiti usati dando una mano alle comunità più svantaggiate. L’obiettivo è quello di fornire indumenti di buona qualità nelle mani delle persone che ne hanno bisogno, riducendo allo stesso tempo i rifiuti tessili. L’idea è semplice ma curata, come si legge sul sito del progetto. La struttura raccoglie vestiti e scarpe dai vari cassonetti della differenziata tessile sparsi in Libano e attraverso donazioni o partnership con aziende e associazioni di settore; quindi gli indumenti vengono puliti, riparati e classificati, scartando quelli in cattive condizioni. I capi di buona qualità sono rivenduti a micro prezzi tra 0,3 centesimi e 2 dollari. “FabricAID ridisegna il modo in cui pensiamo alla moda”, ha dichiarato Itani. “Le persone più bisognose hanno pochi vestiti o proprietà. Eppure c’è anche un eccesso di indumenti buoni che vengono bruciati o gettati in discarica, inquinando l’ambiente e creando rifiuti inutili”


Ad oggi FabricAID ha riciclato 75.000 chilogrammi di abiti usati e rivenduto oltre 50.000 articoli a più di 10.000 persone, per lo più rifugiati o comunità a basso reddito reddito. Diventando a tutti gli effetti, il primo grande hub di raccolta e ridistribuzione dell’abbigliamento nell’Asia occidentale e creando nuove opportunità di lavoro locale.

Il progetto che ha fatto meritare al 24enne libanese il titolo ONU di Young Champions of the Earth, riconoscimento assegnato a livello mondiale ai giovani under 30 impegnati in grandi idee per la tutela e il cambiamento ambientale.
Spiega Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) “Il cambiamento climatico è la sfida principale del nostro tempo e invita tutti noi a ridurre, riutilizzare e riciclare per eliminare gli sprechi. L’industria della moda ha bisogno di modelli di business innovativi e leader come Omar per aiutarci ad abbracciare e passare a un’economia a zero sprechi e basse emissioni di carbonio”.
Un passo fondamentale se si considera l’impatto ambientale di questo settore: oggi l’industria della moda impiega le stesse risorse idriche necessarie per soddisfare le esigenze di cinque milioni di persone, mettendo sul mercato ogni anno l’equivalente di 3 milioni di barili di petrolio in microfibra.

fonte: www.rinnovabili.it

#StopMicrofibre, un'alleanza per un'industria tessile competitiva e sostenibile. La proposta di legge di Marevivo

























Si terrà mercoledì 3 luglio 2019 alle ore 10:30 all’Accademia Costume & Moda in Via della Rondinella, 2 a Roma l’incontro sul tema: “#STOPMICROFIBRE. Un’alleanza per un’industria tessile, competitiva e sostenibile. La proposta di Legge di Marevivo” organizzato dall’associazione Marevivo e dall’Accademia Costume & Moda, con il patrocinio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
Ad introdurre: Raffaella Giugni, Responsabile Relazioni Istituzionali Marevivo; Lupo Lanzara, Vice Presidente Accademia Costume & Moda e Marta Ferri, Dressmaker e Cavaliere del Mare di Marevivo.
Interverranno:
Giusy Bettoni, CEO and Founder C.L.A.S.S. (Creativity Lifestyle and Sustainable Synergy)
Moda: l’importanza di innovare responsabilmente
Riccardo Andrea Carletto, Ricercatore CNR-STIIMA Biella 
Nuove fibre sostenibili per l'industria tessile
Maria Cristina Cocca, IPCB- CNR Pozzuoli 
Il rilascio delle microfibre dai tessuti: impatto e soluzioni
Giorgio De Montis, Banor Capital
Investimenti e sostenibilità: perché il mercato premia le aziende responsabili
Pierluigi Fusco Girard, Amministratore Delegato Linificio e Canapificio Nazionale Marzotto Lab
Il lino: una fibra europea, sostenibile e polifunzionale
Francesco Regoli, Vice Direttore del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente, Università Politecnica delle Marche
Microplastiche negli oceani: da contaminanti emergenti ad emergenza ambientale
Stefania Ricci, Direttore Museo e Fondazione Ferragamo
Mostra Sustainable Thinking
Giovanni Schneider, Amministratore Delegato del Gruppo Schneider, leader nella prima lavorazione e nella commercializzazione di fibre tessili naturali pregiate
Etichettatura dei capi d'abbigliamento

La campagna #StopMicrofibre
Marevivo, che da oltre trent’anni si batte in difesa del mare e delle sue risorse, ha lanciato la campagna #STOPMICROFIBRE per sensibilizzare sul problema delle microplastiche rilasciate dai tessuti sintetici in lavatrice. Il 40% delle microfibre non viene trattenuto dagli impianti di trattamento e finisce nell’ambiente naturale. Diversi studi dimostrano come ogni lavaggio liberi milioni di fibre microplastiche, particelle inferiori ai 5 millimetri di lunghezza, che vengono ingerite dagli organismi marini, entrando così nella catena alimentare. La fondazione Ellen MacArthur nello studio “A New textiles economy” ha denunciato come gli abiti scarichino ogni anno mezzo milione di tonnellate di microfibre negli oceani, una quantità pari a oltre 50 miliardi di bottiglie di plastica. Tra i tessuti peggiori c’è l'acrilico, cinque volte più inquinante del tessuto misto cotone-poliestere.
È indispensabile investire nella ricerca e nell’innovazione. Per questo Marevivo chiede l'approvazione di una legge che renda obbligatoria l’etichettatura dei capi d’abbigliamento che contengono oltre il 50% di fibre sintetiche e propone alle aziende di progettare sistemi di filtraggio più efficaci per lavatrici e di produrre tessuti che rilascino meno microfibre. É importante anche contrastare il problema della “fast fashion” preferendo prodotti di migliore qualità rispetto alla quantità, e porre attenzione anche ai materiali utilizzati durante la produzione (es: tessuto, filo, etichetta).
Diventare un’azienda sostenibile non è solo marketing, ma un’esigenza vitale per la salvaguardia dell’ambiente.
#STOPMICROFIBRE avrà come partner l’Accademia di Costume & Moda, che aderisce e condivide l’impegno di Marevivo attraverso la sensibilizzazione degli studenti, esortandoli a lavorare per un sistema produttivo rispettoso dell’ambiente e dell’ecosistema marino.
fonte: https://marevivo.it

Armadio Verde, il recommerce di abbigliamento Made in Italy, lancia la collezione uomo



















Dopo un anno dall'introduzione della collezione femminile, Armadio Verde, il recommerce che permette di ridare valore ai capi di abbigliamento facendo leva sull'economia circolare, presenta la linea uomo che si aggiunge agli articoli donna e bambino. Da oggi, gli utenti avranno la possibilità di accedere al vasto assortimento maschile disponibile sul sito e acquistare giacche, jeans, pantaloni, maglie e camicie per dare una svolta al proprio guardaroba. Nata con l'idea di dare nuova vita ai capi d'abbigliamento, puntando sull'economia circolare per creare un mercato sostenibile dell'usato, Armadio Verde espande la propria collezione andando ad aggiungere la linea maschile per rispondere anche alle necessità degli uomini. Negli anni, la piattaforma ha integrato e aggiunto articoli per tutti, dai vestitini per i più piccoli, all'abbigliamento femminile, abiti e accessori, tra cui scarpe e borse. 
"Armadio Verde nasce con l'obiettivo di rimettere in circolo capi d'abbigliamento e accessori che non si utilizzano più, azzerando gli sprechi legati all'acquisto di nuovi vestiti e riducendo in questo modo i consumi e l'impatto sull'ambiente", commenta Eleonora Dellera, Founder, Communication & Brand Manager di Armadio Verde. "Nella nostra epoca siamo costantemente alla ricerca di qualcosa di nuovo che purtroppo usiamo sempre meno. Ciò che amiamo oggi è molto probabile non possa trovare il nostro gusto domani. Da qui la volontà di permettere a tutti – uomini, donne e bambini - di rinfrescare il proprio guardaroba a costi bassi e in maniera sostenibile, evitando di buttare via articoli nuovi ma semplicemente mettendoli a disposizione di altri utenti". 
Armadio Verde crea infatti un circolo virtuoso che vede lo scambio alla base del rinnovo. L'assortimento disponibile online è infatti alimentato da capi in ottime condizioni che gli utenti inviano alla piattaforma, permettendo loro di scegliere altri abiti presenti sul sito e rispondendo alle moderne esigenze dei consumatori. 
Scegliere e acquistare sul recommerce è semplice e veloce: 

  • Basta registrarsi sul sito Armadio Verde e prenotare il ritiro dei vestiti;
  • Riempire una scatola con gli articoli (abbigliamento e accessori) che si vogliono rimettere in circolo e l'azienda si occuperà del ritiro gratuitamente direttamente all'indirizzo indicato;
  • Una volta consegnato il pacco presso il magazzino di Armadio Verde, un team dedicato al controllo qualità verificherà attentamente ogni capo e, per ogni articolo approvato, verranno attribuite un numero di Stelline - la moneta virtuale alla base di ogni 'scambio' utilizzabile per gli acquisti sul sito. Le Stelline sono assegnate nello stesso modo a seconda di marca, taglie e tipologia del capo. I vestiti vengono messi così in collezione online mantenendo lo stesso valore in Stelline;
  • A questo punto, è possibile utilizzare le proprie Stelline per acquistare altri articoli, aggiungendo una cifra in euro.

fonte: https://www.greencity.it

Scarpe ecologiche: ecco le sneakers a base di caffè riciclato

Quelle ideate da nat-2 sono scarpe ecologiche unisex realizzate dagli scarti del caffè, con cui l’azienda punta a ridurre l’inquinamento e lo spreco globale che caratterizza il settore della moda






















Dopo la sneaker a base di funghi, le frontiere delle scarpe ecologiche si allargano con quelle a base di caffè. L’idea è del designer tedesco Sebastian Thies, appartenente alla sesta generazione di una famiglia che dal 1856 produce scarpe, e fondatore di nat-2, un marchio di calzature che utilizza materiali innovativi per la realizzazione di prodotti high-tech, progettati in Germania e realizzati principalmente in Italia e Spagna. Di Thies l’idea di realizzare una scarpa utilizzando come materiale i funghi, e sua l’idea di ampliare l’offerta di scarpe ecologiche della sua azienda con una sneakers realizzata dagli scarti del caffè. Quella ideata da nat-2, infatti, è una calzatura unisex che vuole contribuire a ridurre l’inquinamento e lo spreco globale, attraverso l’utilizzo di accortezze, di solito ignorate dal settore della moda, compresa l’industria calzaturiera.

Per il rivestimento della scarpa, l’azienda ha pensato di sostituire la pelle con un materiale proveniente dal riciclo di bottiglie di plastica, una scelta che offre un contributo concreto da una parte alla riduzione dei rifiuti di plastica dopo il consumo, e dall’altra alla riduzione dei problemi  ambientali associati alla lavorazione dei sottoprodotti della carne; la sua copertura color cioccolato proviene al 50% da caffè riciclato, che fornisce una texture simile alla pelle scamosciata. La società, tra l’altro, riferisce che le scarpe emanano un sottile profumo di caffè. Le suole di cui sono dotate queste originali scarpe ecologiche, invece, sono di vera gomma, preferita all’alternativa sintetica non sostenibile, utilizzata da molte aziende, per evitare sostanze chimiche aggressive pericolose per i lavoratori, che possono anche filtrare nel terreno. A base d’acqua e priva di ingredienti di origine animale anche la colla impiegata per l’assemblaggio dei vari componenti della sneakers; di sughero antibatterico naturale, invece, la soletta interna.

Anche il processo produttivo delle strutture in cui sono realizzate le sneakers cerca di abbattere gran parte dell’inquinamento da anidride carbonica proveniente dalle tradizionali strutture di combustione del carbone, che producono circa 20 miliardi di scarpe all’anno. La prima produzione delle sneakers al caffè è andata esaurita, ma l’azienda è già al lavoro per realizzare una seconda mandata.

fonte: www.rinnovabili.it

Microplastiche, l’inquinamento parte dalle lavatrici di casa

Il 35% dei micro-frammenti di plastica che inquinano mari e oceani vengono dai lavaggi dei nostri capi d’abbigliamento: gli indumenti sintetici, che oggi rappresentano il 60% del consumo tessile globale, rilasciano grosse quantità di fibre. Contaminando la catena alimentare





Ogni giorno da un grande depuratore del Nord Italia fuoriescono verso i fiumi acque trattate contenenti 160 milioni di frammenti di microplastiche. Tantissimi, ma meno del 20% di quelli contenuti nei reflui in entrata. L’84%, pari a circa 3,4 miliardi di frammenti, rimane infatti nei fanghi di depurazione, gli scarti di pulitura che però in molti casi vengono sparsi nei campi come concime. Quando si parla di microplastica negli oceani, la maggior parte degli studiosi guarda all’ultimo anello della catena, il mare, mentre pochi provano a risalire i passaggi per cercare le fonti della contaminazione.
Una ricerca realizzata dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’università Politecnica delle Marche, coordinata dalla fondazione AquaLab e pubblicata a ottobre sulla rivista “Science of the Total Environment” ha studiato il fenomeno all’origine concentrandosi su un grande impianto di trattamento dei reflui e su ciò che finisce nelle acque dolci.

Oggi, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), tra il 15% e il 31% delle microplastiche presenti negli oceani ci finisce direttamente sotto forma di frammenti più piccoli di 5 millimetri, in un caso su quattro proprio attraverso i fiumi. La fonte principale (35% dei frammenti) sono i lavaggi in lavatrice: gli indumenti sintetici, che oggi rappresentano il 60% del consumo tessile globale, rilasciano grosse quantità di fibre, che dallo scarico domestico passano nei depuratori. Altra fonte significativa di particelle di microplastica è il logorio dei pneumatici (28%), le cui particelle arrivano nei mari tramite il vento e i reflui stradali. Infine, dai depuratori passano anche le microsfere contenute nei cosmetici, minuscole ma responsabili da sole del 2% dei frammenti totali.

Un’altra ricerca condotta dall’Istituto per gli studi ambientali dell’università Vrije di Amsterdam ha trovato concentrazioni di microplastiche comprese tra 9 e 91 particelle per litro nelle acque trattate da tre depuratori olandesi che scaricano in mare o nei fiumi. “Gli impianti di depurazione di recente costruzione, pur non essendo progettati per la separazione di piccoli frammenti di plastiche, riescono ad evitare che otto frammenti su dieci arrivino al fiume”, dice il direttore di AquaLab e docente presso l’università Bocconi di Milano, Alessandro De Carli guardando al bicchiere mezzo pieno. Certo, dove i depuratori sono vecchi o inesistenti, le cose vanno molto peggio. Per immaginare situazioni peggiori basta pensare che l’Italia a maggio scorso è stata multata dall’Europa per non aver ancora completato fognature e impianti di depurazione in 74 città.

Quando a casa chiudiamo l’oblò della lavatrice e premiamo il tasto “on”, difficilmente il nostro pensiero va alle microplastiche in mare. Eppure quel lavaggio sarà il punto di partenza di un lungo viaggio verso gli oceani per migliaia di fibre. Secondo la Fao (Fondo delle Nazioni Unite per l’alimentazione) e l’International Cotton Advisory Committee, tra il 1992 e il 2010 il consumo di fibre sintetiche è aumentato del 300%, passando da 16 a 42 milioni di tonnellate. Non esistono -al momento- dati scientifici completi sull’esatta quantità di microplastiche che, dai nostri maglioni o dai jeans, finisce nelle acque dei fiumi dopo i lavaggi. Ma i dati disponibili sono allarmanti.

Una ricerca guidata da Mark Browne dell’University College di Dublino nel 2011 ha dimostrato per esempio che un singolo capo può liberare in un lavaggio più di 1.900 microfibre. Uno studio dell’università di Plymouth pubblicato nel 2016 ha messo a confronto tessuti diversi e analizzato una serie di variabili di lavaggio. Se non si sono ottenuti risultati chiari rispetto al tipo di detersivo e all’aggiunta o meno di ammorbidente, è emerso però che dai capi completamente sintetici si staccano più microfibre: su un carico da 6 chilogrammi, infatti, capi in tessuti misti cotone e poliestere rilasciando quasi 138mila fibre, contro le oltre 496mila del poliestere e le quasi 729mila dell’acrilico. Di fronte a questi dati, alcuni grandi gruppi di abbigliamento stanno cercando di correre ai ripari prima che sia l’Europa a mettere dei paletti: tra questi, l’associazione di marchi per sport all’aperto European Outdoor Group, che sta conducendo ricerche sul tema, e aziende come Benetton.

© “Primary Microplastics in the Oceans”

Dal depuratore i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso l’assorbimento da parte dei pesci usati per l’alimentazione umana. Il gruppo scientifico coordinato dall’ecotossicologo dell’università statale di Milano (dipartimento di Bioscienze) Andrea Binelli ha studiato in che modo le microplastiche entrano negli organismi d’acqua dolce. Una prima ricerca, condotta in collaborazione con l’agenzia governativa canadese Eccc, ha mostrato come i piccoli frammenti penetrino in tutto l’organismo dei molluschi d’acqua dolce Dreissena polymorpha.

“Le microplastiche somministrate ai bivalvi entrano non solo nel tratto digerente, ma riescono a infiltrarsi attraverso le pareti intestinali, venendo trasportate dal sistema circolatorio in altri organi, dove si accumulano nelle cellule”, spiega Binelli. In altre ricerche in corso di pubblicazione, gli scienziati milanesi hanno osservato l’infiltrarsi delle microplastiche negli embrioni di Danio rerio , un pesce di acqua dolce usato comunemente negli esperimenti di laboratorio: “Dopo solo 24 ore di esposizione, le microsfere di polistirene sono state rilevate nelle branchie, nel tubo digerente e, per la prima volta, anche in un organo di senso presente nella linea laterale dei pesci, chiamato neuromasto. Anche in questo caso le microplastiche sono riuscite a infiltrarsi nei tessuti dell’organismo, in quanto sono state rilevate nella muscolatura e in prossimità di un vaso sanguigno”, aggiunge lo studioso.

Sui possibili effetti ancora non ci sono informazioni esaustive, anche se dai test sui molluschi arrivano indizi interessanti. I ricercatori dell’università di Milano hanno esposto i bivalvi per sei giorni a concentrazioni di 1 milione e di 4 milioni di microsfere di polistirene per litro: se nel primo caso non si sono osservate variazioni significative delle proteine branchiali, nel secondo si è osservata l’alterazione di 78 diverse proteine, legate per lo più all’aumento o alla risposta allo stress ossidativo. “Questo sembrerebbe indicare la presenza di un valore-soglia oltre il quale si attiva una risposta dell’organismo nei confronti della presenza di microplastiche”, spiega ancora Binelli.

Una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche “è legata soprattutto ai contaminanti adsorbiti sulla loro superficie, raccolti in ambiente, e ai plasticizzanti che vengono impiegati per la loro produzione. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva degli organismi”, spiega ancora Binelli.

Aspetti da approfondire anche per capire che cosa davvero entra nella catena alimentare, sia attraverso i pesci, sia attraverso i fanghi di depurazione sparsi sui campi. Binelli ci tiene a non cadere in allarmismi al momento non supportati da evidenze scientifiche: “Nelle prove di esposizione eseguite in laboratorio abbiamo, comunque, impiegato concentrazioni di microplastiche decisamente superiori ai livelli ambientali, in quanto ci interessava capire se le microplastiche entrassero nei nostri modelli biologici, il loro eventuale trasporto all’interno degli organismi e il meccanismo d’azione tossicologico. Il passo successivo, sarà quello di comprendere il loro comportamento e la pericolosità a concentrazioni ambientali, con esposizioni più lunghe, che mimino l’esposizione reale degli organismi acquatici”. Altre ricerche dovranno essere fatte sulle microfibre tessili, che potrebbero avere comportamenti differenti dalle microsfere.

Due studiosi dell’università di Portsmouth, Paul Farrell e Kathryn Nelson, hanno dimostrato che le microplastiche assorbite dalle cozze sono in grado di passare nel sistema circolatorio del loro predatore, un comune granchio, passando così nella catena alimentare: “Questo pone una seria minaccia alla sicurezza dell’alimentazione umana, specialmente con i mitili marini edibili”, si legge nell’articolo scritto dai ricercatori italiani e canadesi.

fonte: https://altreconomia.it/