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Dal riciclo all’inclusione. La sfida vinta di K-pax

Grazie al progetto “Ri-vestiamoci” la cooperativa bresciana ha coinvolto 25 comuni della Valle Camonica per organizzare e potenziare la raccolta differenziata di abiti usati. Negli ultimi otto anni sono stati attivati 25 tirocini e borse lavoro e due case rifugio

Unsplash

Venticinque Comuni coinvolti sul territorio della Media e Bassa Valle Camonica (in provincia di Brescia), altrettanti tirocini attivati tra i giovani rifugiati e richiedenti asilo, un incremento della percentuale di raccolta differenziata di vestiti, scarpe e borse dismessi sul territorio grazie alle iniziative di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza e al posizionamento di centri di raccolta abiti (cassonetti ad hoc) dislocati sul territorio. Sono questi alcuni numeri del progetto “Ri-Vestiamoci” promosso dal giugno 2013 dalla cooperativa sociale K-pax.

“Abbiamo acquistato i cassonetti per la raccolta differenziata degli abiti usati, li puliamo e ne garantiamo la manutenzione periodica. A occuparsi del ritiro degli abiti dal cassonetto è poi una società specializzata, ma la cooperativa ottiene un utile da questa attività. Che noi ci siamo impegnati a investire sul territorio”, spiega Agostino Mastaglia, operatore di K-pax e responsabile del progetto.

“Ri-vestiamoci” è stato ideato e promosso dall’Unione dei Comuni antichi borghi e K-pax in collaborazione con Valle Camonica Servizi. L’obiettivo è quello di organizzare e mantenere un servizio di raccolta di vestiti vecchi, usati e rovinati, scarpe e borse dismesse. Inoltre, attraverso una campagna di sensibilizzazione e formazione sul territorio, K-pax ha lavorato per incrementare i volumi della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, indirizzando gli abiti vecchi verso i cassonetti dedicati alla raccolta per diminuire i costi di smaltimento. L’idea è quella di innescare, con il materiale così recuperato, un circolo virtuoso le cui basi costitutive sono il riuso e il riciclo, in chiave ecologica.


La gestione degli abiti “a fine vita” rappresenta infatti un problema particolarmente pressante per le amministrazioni locali. Secondo le stime del Parlamento europeo, dal 1996 a oggi la quantità di indumenti acquistati nella Ue per persona è aumentata del 40% a seguito del calo dei prezzi e della diffusione della fast fashion. Oggi, i cittadini del Vecchio Continente consumano ogni anno quasi 26 chilogrammi di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11. E nell’87% dei casi i vestiti di cui decidiamo di liberarci vengono inceneriti o portati in discarica. Per questo motivo, la direttiva rifiuti approvata dal Parlamento europeo nel 2018 prevede l’obbligo per i Paesi della Ue a provvedere alla raccolta differenziata dei tessili a partire dal 1° gennaio 2025.

Altro obiettivo del progetto, oltre a quello più propriamente ecologico, è quello di finanziare attraverso le entrate derivanti dalla gestione del riciclo degli abiti l’inserimento lavorativo di persone socialmente svantaggiate e nuovi progetti di housing sociale sul territorio. A otto anni dall’avvio del progetto l’esito è positivo: le risorse generate da “Ri-vestiamoci”, infatti, hanno permesso di finanziare 25 borse lavoro e tirocini per donne in difficoltà, a carico dell’azienda territoriale per i servizi alla persona della Valle Camonica; l’attivazione di due case rifugio, sotto forma di appartamenti protetti e servizi a disposizione della Rete territoriale antiviolenza della Valle Camonica. Ultimo, ma non meno importante, l’apertura de “La Soffitta del Re” nel comune di Breno, un laboratorio di smistamento e vendita di abiti usati che -oltre a creare lavoro- va a rafforzare l’impegno della cooperativa 

“K-pax è nata nel 2008 per iniziativa di un gruppo di operatori e ospiti di strutture di prima e seconda accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo -spiega Agostino Mastaglia -. Nel corso degli anni, siamo arrivati ad accogliere, tra progetti Sprar (oggi Sai, ndr) e centri di accoglienza straordinaria gestiti dalla prefettura, più di cento persone tra la Valle Camonica e il Comune di Brescia”. Oggi la cooperativa ha rinunciato alla gestione dei Cas per concentrarsi su altri progetti. Come la gestione dell’hotel “Giardino” di Breno, rilevato nel 2013, con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro per i richiedenti asilo e i rifugiati accolti dalla cooperativa. Oggi la struttura dà lavoro a tre persone e, nonostante le difficoltà legate all’emergenza Covid-19, continua le sue attività: “Abbiamo tenuto duro e stiamo ripartendo -sintetizza Mastaglia- Il Covid-19 ha avuto un grosso impatto, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento lavorativo. E senza lavoro costruire percorsi di autonomia per i rifugiati è impensabile. Fortunatamente, in questo momento le aziende stanno riprendendo le loro attività e anche le richieste per assumere i nostri ragazzi sono riprese”.

fonte: altreconomia.it


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Raccolta, riuso e riciclo degli abiti usati: nasce l’Associazione UNIRAU


Obiettivo dell’Unione Imprese Raccolta, Riuso e Riciclo Abbigliamento Usato: rafforzare la rappresentanza di un settore pilastro dell’economia circolare.

Nasce all’interno di FISE UNICIRCULAR, associazione che rappresenta “le industrie dell’economia circolare”, UNIRAU, l’associazione delle aziende e delle cooperative che svolgono le attività di raccolta e valorizzazione della frazione tessile dei rifiuti urbani.

UNIRAU costituisce un’evoluzione della storica sigla CONAU, il “consorzio” nato nel 2008 e che, durante la propria attività ultradecennale, ha ottenuto importanti risultati per il settore, come l’aggiornamento delle norme del DM 5 febbraio 98 per le parti relative al recupero dei rifiuti di abbigliamento, diverse circolari interpretative da parte degli Enti competenti e la norma relativa alle donazioni inserita nella legge contro lo spreco alimentare (cosiddetta “Legge Gadda”), fondamentale per chiarire la differenza tra raccolta differenziata e dono.

Negli scorsi giorni l’Assemblea di CONAU ha deciso di compiere un ulteriore passo avanti sul fronte della rappresentanza, trasformando il consorzio in associazione, in considerazione della forte accelerazione verso la conversione del settore tessile in senso “circolare”, impressa dal pacchetto di direttive europee e dal nuovo piano d’azione UE sull’economia circolare, nonché dalla pubblicazione (prevista entro l’anno) della strategia europea sul tessile.

“L’obiettivo – ha dichiarato il Presidente UNIRAU Andrea Fluttero – è di riorganizzare e ampliare la base associativa, coinvolgendo gli operatori della raccolta, del commercio, dell’intermediazione e della selezione, anelli indispensabili alla valorizzazione delle raccolte, puntando anzitutto alla preparazione per il riuso dei capi e degli accessori di abbigliamento tal quali e, in via secondaria, al riciclo di materia delle frazioni che non possono essere destinate direttamente al riutilizzo. La trasformazione in Associazione nasce inoltre dall’esigenza, in considerazione della probabile nascita di un regime di EPR (responsabilità estesa del produttore) e della conseguente costituzione di ‘Consorzi di produttori’, di evitare la possibile confusione dei rispettivi ruoli in ragione della definizione di ‘Consorzio’ che caratterizzava il CONAU”.

La nuova Associazione si è dotata di uno Statuto, del relativo Regolamento e di un Codice etico, in linea con gli standard organizzativi e i principi di correttezza e trasparenza di Fise UNICIRCULAR. “È quanto mai importante che, in questa fase di costruzione del quadro normativo di riferimento per la gestione “circolare” del settore tessile, i protagonisti e i pionieri delle attività di raccolta e valorizzazione della frazione tessile dei rifiuti urbani siano rappresentati in modo autorevole per dare il proprio contributo di esperienza e conoscenza del settore, nonché per tutelare attività ed occupazione costruite con impegno e fatica negli ultimi decenni – ha concluso Fluttero – Molta parte della raccolta è oggi svolta dal mondo delle cooperative sociali, che garantiscono centinaia di posti di lavoro alle categorie protette, svolgendo in questo modo anche un importante ruolo a vantaggio della collettività”.

fonte: www.recoverweb.it

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Ridurre i rifiuti tessili con il noleggio e la rivendita

Noleggio e la rivendita di abbigliamento aumenteranno l’uso dei capi, riducendo la quantità di rifiuti tessili prodotti e soprattutto favoriscono l'economia circolare, uno dei perni per la ripresa post Covid 19











Il noleggio di abbigliamento, nonostante abbia subito un colpo iniziale, sia a causa del confinamento delle persone che per alcune preoccupazioni sull'igiene dei capi, ha vissuto una ripresa piuttosto veloce dopo l'allentamento delle misure di lock down (ovvero chiusure e confinamento in casa).

Secondo il rapporto della Fondazione Ellen MacArthur il noleggio e la rivendita di capi di abbigliamento si mostrano in crescita e continueranno ad esserlo anche in futuro, anche perché i consumatori sono più consapevoli, ma anche preoccupati, dell'impronta ambientale negativa dell'industria moda-tessile. Il comparto ha quindi urgente necessità di divenire più circolare, adottando nuovi modelli economici più sostenibili, tra questi anche la rivendita e il noleggio di capi di abbigliamento, nuovi modelli di economia circolare, in grado di produrre diversi vantaggi, ambientali e economici.

Partendo dai primi, che sono per noi particolarmente importanti, è dimostrato che:
estendere la vita del capo di abbigliamento di soli tre mesi riduce del 5-10% dell'impronta di carbonio, un risparmio di acqua e una riduzione della produzione di rifiuti,
l’acquisto di un capo di seconda mano, rispetto all'acquisto di un capo nuovo, permette di risparmiare in media 1 kg di rifiuti, 3.040 litri d'acqua e 22 kg di CO2.

Uno studio del 2019 ha rilevato che il 65% degli acquisti di vestiti di seconda mano negli Stati Uniti e nel Regno Unito e il 41% in Cina sono sostituti dell'acquisto di un capo nuovo. Questi minori impatti sull'ambiente sono fondamentali per la protezione dell’ambiente, visti gli attuali danni ambientali causati da questo settore.

Nel 2015, le emissioni di gas serra della produzione tessile hanno totalizzato 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, cioè più della quantità prodotta da tutti i voli internazionali e dal trasporto marittimo messi insieme. Al ritmo attuale, l'industria tessile potrebbe essere la causa di oltre il 26% del bilancio globale di carbonio entro il 2050.

Anche a livello politico, sta salendo l'attenzione per gli impatti ambientali dell'industria della moda. In Francia, ad esempio, la legge che disciplina l'economia circolare vieta la distruzione degli articoli invenduti o restituiti dai clienti, mentre gruppi come la UN Alliance for Sustainable Fashion e la OECD Due Diligence Guidance for Responsible Supply Chains in the Garment & Footwear Sector stanno investendo in formazione per affrontare i problemi di sostenibilità nel comparto moda.

Per ottenere ancora maggiori vantaggi dal punto di vista ambientale, molto potrà fare anche il design, infatti, l'abbigliamento dovrà essere progettato con materiali durevoli e non pericolosi che possano sostenere diversi cicli di utilizzo. Allo stesso tempo, il design dovrebbe mirare alla “durata emotiva” del capo acquistato, cioè i clienti dovrebbero potere continuare ad apprezzarlo e a volerlo indossare, altrimenti non verrà utilizzato al suo massimo potenziale. Per raggiungere questo obiettivo, si possono adottare soluzioni dette "senza tempo" (cioè design classici e senza stagione nei modelli e nelle silhouette), o una maggiore adattabilità dei capi per evitare l'obsolescenza prematura degli articoli d'abbigliamento.

Con il noleggio e la rivendita si possono ottenere anche vantaggi economici, lo stesso articolo, infatti, verrà utilizzato da molti clienti nel corso della sua vita, aumentando i ricavi per ogni singolo capo di abbigliamento, diversamente da quanto accade con i modelli lineare, produzione – vendita, che si basano, in modo esclusivo, sui volumi venduti per generare entrate. L'aumento del tasso di utilizzo, combinato con i costi più bassi che si possono ottenere con la riduzione del fabbisogno di materie prime, permetterebbe di vendere e/o noleggiare il capo d’abbigliamento ad un costo vantaggioso per il cliente, attraendo tutte quelle persone sensibili al prezzo. Tra i vantaggi dei servizi di noleggio di abbigliamento ci sarebbe anche la maggiore capacità di fidelizzazione dei clienti, come dimostrano i dati della piattaforma di noleggio di abbigliamento, CaaStle, che hanno rivelato come i loro clienti, nel tempo, abbiano aumentato gli acquisti del 125-175%.

Va da sé che questi nuovi modelli di economici, di tipo circolare, per determinare un cambiamento reale e concreti vantaggi economici necessitano di un diverso approccio culturale al consumo e l’abbandono dell'idea di “proprietà e possesso" del capo d’abbigliamento ma anche di un aumento dell'uso delle tecnologie digitali, tema non da poco, visto che si parla, in questo periodo, di digitalizzazione.

L'aumento dell'e-commerce ha subito un'accelerazione dall'inizio della pandemia. Uno studio sui clienti tedeschi e britannici, condotto nell'aprile 2020, ha rilevato che il 43% degli intervistati ha iniziato ad acquistare articoli di moda online per la prima volta all'inizio della pandemia, e il 28% prevede di ridurre i propri acquisti in luoghi fisici in futuro.

Durante la pandemia sono state adottate molte soluzioni digitali innovative, come il coinvolgimento dei clienti attraverso i social media, le sessioni livestream in grado di trasformare i negozi fisici in palcoscenici virtuali per lo shopping. Tutto questo si è mostrato prezioso per le aziende, garantendo le vendite, talvolta aumentandole e rendendo più partecipi i clienti anche se da casa. Tuttavia, per attrarre e incentivare i clienti ad usare queste piattaforme, queste dovranno essere progettate e sviluppate tenendo conto soprattutto dei bisogni della clientela, quindi dovranno essere messi in campo investimenti per potenziare le capacità digitali del Paese oltre che delle singole imprese.

fonte: www.arpat.toscana.it

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La filiera degli abiti usati, arrivano le Linee guida per le aziende dei rifiuti

Il documento messo a punto da Utilitalia. Il pacchetto di direttive europee sull’economia circolare ha stabilito che ogni Stato membro dovrà istituire la raccolta differenziata dei rifiuti tessili entro il primo gennaio del 2025, l’Italia ha anticipato questa scadenza al primo gennaio del prossimo anno. Questo significa che bisognerà accelerare lo sviluppo dei servizi di raccolta



Una filiera dei rifiuti tessili più trasparente e sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale, grazie ad alcune indicazioni per le aziende di igiene urbana. Questo l’obiettivo delle ‘Linee guida per l’affidamento del servizio di gestione degli indumenti usati’, messe a punto da Utilitalia (la Federazione delle imprese di acqua, ambiente e energia).

“Il 5 gennaio scorso la Commissione Europea ha pubblicato la Roadmap per la definizione della strategia europea per i prodotti tessili, mentre il pacchetto di direttive europee sull’economia circolare – osserva il vicepresidente di Utilitalia Filippo Brandolini – ha già da tempo stabilito che ogni Stato membro dovrà istituire la raccolta differenziata dei rifiuti tessili entro il primo gennaio del 2025, e l’Italia ha anticipato questa scadenza al primo gennaio del prossimo anno. Ciò comporterà lo sviluppo dei servizi di raccolta e quindi un incremento degli indumenti usati raccolti in modo differenziato e una crescente necessità da parte del sistema di assorbire nuovi flussi, e di conseguenza una maggiore capacità organizzativa non solo delle imprese della raccolta, ma di tutta la filiera”.

Le aziende di igiene urbana, nelle loro funzioni di stazioni appaltanti, possono svolgere un importante ruolo di promozione della trasparenza, della sostenibilità sociale e ambientale e di prevenzione dell’illegalità.

Il documento offre indicazioni che possono aiutare a selezionare operatori onesti, efficienti e trasparenti, e ad ampliare il livello della concorrenza, spostandola dal mero piano economico a quello della capacità tecnica, della qualità del servizio, della responsabilità sociale, della tutela ambientale e della solidarietà. Poi con le Linee guida si punta ad assicurare appropriati strumenti di rendicontazione e informazione, e a promuovere una più ampia tracciabilità dei rifiuti raccolti.

Il documento fornisce degli strumenti per organizzare il servizio di gestione assicurando la massima tracciabilità, trasparenza e legalità possibile, preservando al contempo le finalità solidali della filiera, che è quello che il cittadino si aspetta quando conferisce i propri indumenti usati nei contenitori stradali.


Le Linee guida – rileva ancora Brandolini – “non vogliono e non possono sostituirsi al ruolo decisionale delle stazioni appaltanti, né possono per loro natura essere prescrittive. Hanno piuttosto l’obiettivo di porre l’attenzione sull’importanza di alcuni aspetti e indicare le peculiarità delle opzioni alternative proposte per l’affidamento del servizio”.

La pubblicazione delle Linee guida sono – dice il vicepresidente di Utilitalia – “il primo passo di un percorso” sui rifiuti tessili, “trattandosi di un settore soggetto a profondi cambiamenti normativi e di mercato, su cui è bene acquisire maggiori consapevolezza e conoscenze. I rifiuti tessili giocheranno sempre più un ruolo non marginale nell’economia circolare. Innanzitutto perché, grazie alla preparazione al riutilizzo, si consente di prolungare la vita di molti indumenti e quindi ridurre i volumi dei rifiuti da smaltire. Inoltre, gli sviluppi tecnologici futuri potranno consentire di riciclare ciò che non può essere riutilizzato, recuperando le fibre tessili, per esempio, attraverso il riciclo chimico”.

E’ per questo che – conclude Brandolini – “occorreranno ulteriori passaggi normativi, come un regolamento per l’End of Waste dei rifiuti tessili, e altresì si auspica la costituzione di sistemi di responsabilità estesa al fine di responsabilizzare i produttori riguardo alla durata e alla riciclabilità dei prodotti tessili che immettono sul mercato, oltre che più in generale alla loro sostenibilità”.

fonte: www.rinnovabili.it


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Cosa fare con i vestiti che non si usano più

Per chi ha fatto ordine nell'armadio e ora vorrebbe sbarazzarsene, ma non buttarli via








Spesso i vestiti che non usiamo più e di cui vogliamo sbarazzarci per fare spazio nell’armadio non sono rotti o da buttare, ma possono benissimo essere riutilizzati. Si possono ad esempio donare a enti benefici che li fanno avere a persone in difficoltà. Da qualche mese, però, a causa dei rischi legati alla pandemia, molte delle parrocchie e delle associazioni benefiche a cui era possibile portare vestiti usati hanno interrotto l’attività di raccolta. Abbiamo raccolto alcune alternative per liberarsene in modo sostenibile e senza rischi di contagio.

Cassonetti comunali

In molti comuni italiani, per strada, si trovano cassonetti che servono proprio alla raccolta di vestiti usati a scopo sociale: nella maggior parte dei casi sono gialli, ma esistono anche bianchi o di altri colori. Molte persone sono scettiche rispetto all’uso di questi punti di raccolta perché in passato sono state pubblicate diverse inchieste sulle attività che li legano ad aziende private che vendono vestiti usati all’ingrosso, talvolta con profitti e modalità non del tutto lecite. Chi vuole sapere con certezza dove finiranno i propri vestiti una volta lasciati nei cassonetti può fare due cose. La prima è visitare il sito del proprio Comune o contattarlo telefonicamente per chiedere quali cassonetti sono effettivamente autorizzati dall’amministrazione e destinati ad attività non profit. La seconda cosa è verificare che sul cassonetto siano indicati il nome e i contatti dell’ente che li gestisce, e poi cercare informazioni direttamente su quello.

Uno degli enti che gestiscono i cassonetti di alcune città è Humana, un’organizzazione umanitaria indipendente e laica nata nel 1998 per portare avanti vari progetti a scopo sociale in Italia e nel mondo. Tra le sue attività c’è la raccolta di vestiti usati, che avviene tramite oltre 5mila cassonetti distribuiti in circa 1.200 comuni italiani. I vestiti, le scarpe e le borse raccolte vengono smistate da un gruppo di addetti che ne decide la destinazione. La maggior parte viene destinata a persone che ne hanno bisogno, soprattutto in Africa. Gli abiti giudicati di particolare valore invece sono venduti nei negozi di abbigliamento vintage che Humana ha a Bologna, Milano, Roma e Torino. Il ricavato dei negozi viene poi investito nei progetti dell’organizzazione. I vestiti ritenuti inutilizzabili invece vengono destinati alle riciclerie. In nessun caso comunque Humana vende i propri vestiti ad altre aziende.

Un altro logo che potreste aver visto sui cassonetti gialli se abitate tra le province di Como, Lecco, Milano, Monza-Brianza e Varese è quello di Dona Valore, la rete di cassonetti di Caritas Ambrosiana. La gestione dei cassonetti è affidata a varie cooperative sociali: dopo essere stati raccolti e smistati, alcuni vestiti vengono destinati a persone che ne hanno bisogno, altri vengono venduti ad aziende e il ricavato viene utilizzato per finanziare iniziative di solidarietà. Nello specifico, sul sito di Dona Valore si legge che «una parte viene commercializzata ad imprese autorizzate a svolgere il lavoro di selezione, cernita ed igienizzazione che sottoscrivono contratti commerciali ed etici con le nostre cooperative garantendo il pieno rispetto di tutte le normative nazionali ed internazionali». Altri vestiti della rete Dona Valore, invece, finiscono nei negozi di abbigliamento di seconda mano Share.

Una precisazione doverosa: i cassonetti non sono fatti per gettare abiti logori e non più utilizzabili, come i calzini bucati. Quelli si possono buttare nei bidoni dell’indifferenziata.

Negozi che raccolgono vestiti usati

Recentemente anche nel settore della moda sta aumentando l’attenzione alle tematiche ambientali e di sostenibilità. Molte catene di negozi hanno cominciato a utilizzare per la propria produzione i tessuti riciclati ricavati dai vestiti usati che i clienti possono lasciare nei negozi spesso in cambio di un buono o di uno sconto sugli acquisti.

Per esempio il programma “Garment Collecting” della catena di fast fashion H&M permette di consegnare alla cassa un sacchetto di abiti usati di qualsiasi marca, tipologia e stato di usura (vanno bene anche calzini spaiati e lenzuola rovinate). In cambio si riceve un buono da 5 euro che vale per una spesa minima di 40 euro. Il programma di riciclo di & Other Stories, che fa parte dello stesso gruppo di H&M, consente di portare in qualsiasi punto vendita un sacco con qualsiasi tipo di prodotto tessile: in cambio si riceve uno sconto del 10 per cento per un acquisto su qualsiasi spesa nei tre mesi successivi. Di tutti i negozi che promuovono iniziative di questo tipo avevamo scritto qui: per essere sicuri che la raccolta sia ancora attiva nonostante la pandemia, vi consigliamo di chiamare direttamente il negozio più vicino a voi.

Armadioverde

È una piattaforma italiana che raccoglie vestiti usati in buone condizioni e li rivende. Chi vuole può prenotare un ritiro di abiti usati direttamente a casa e poi sfruttare le “stelline” guadagnate (una specie di moneta virtuale della piattaforma) per acquistare altri abiti sul sito a pochi euro. Armadioverde accetta solo vestiti in ottime condizioni e non è interessato a biancheria intima, abbigliamento da notte, valigie e scarpe per bambini di taglia inferiore al 17: i vestiti ritirati e successivamente giudicati non adatti alla vendita sul sito vengono mandati a Humana, l’organizzazione citata sopra. Il ritiro è sempre gratuito, ma bisogna rispettare le dimensioni del pacco indicate al momento della prenotazione: la scatola grande per esempio deve avere una somma di lunghezza, larghezza e altezza non superiore a 130 centimetri.

App per la compravendita

Chi oltre a liberarsi dei propri vestiti usati vorrebbe provare a guadagnarci qualcosa, può provare a usare una app. Depop è forse la più usata in Italia e permette a chiunque di vendere i propri vestiti pubblicandone le foto e una breve descrizione. Per ogni vendita Depop trattiene il 10 per cento dell’importo. Chi vende si fa carico di tutto, dalla scelta del prezzo alla spedizione dell’articolo, perché Depop è solo una piattaforma che aiuta l’interazione tra venditori e compratori, ma non si occupa della logistica. Durante la pandemia è stata molto usata: ad aprile ha avuto un aumento del traffico del 100 per cento rispetto all’aprile dell’anno precedente.

Depop comunque non è l’unica app su cui si possono vendere vestiti e anzi ultimamente ne sono nate diverse: Vintag, Shpock e per il lusso Vestiaire Collective, solo per citarne alcune. A dicembre in Italia è arrivata anche Vinted, una app simile a Depop già molto diffusa in altri paesi europei: a differenza di Depop non trattiene commissioni, quindi ai venditori viene riconosciuto l’intero importo ricavato da ogni vendita.

Negozi che comprano vestiti usati

Negli ultimi anni si sono diffusi in diverse città italiane i negozi di abbigliamento che comprano e rivendono vestiti usati. Alcuni, come Bivio a Milano, hanno momentaneamente interrotto l’acquisto di vestiti a causa della pandemia. Altri, come Ambroeus, sempre a Milano, continuano invece a ritirare vestiti nei giorni di apertura dalle 14 alle 18, previa telefonata. Gli addetti di Ambroeus fanno una selezione dei vestiti, scelgono il prezzo a cui li rivenderanno e pagano al venditore il 35 per cento di quel prezzo o il 50 per cento in forma di buono da spendere in negozio. Chi invece vuole vendere vestiti per bambini, può provare con Baby Bazar, che ha negozi in tutta Italia e che permette ai venditori di ottenere il 50 per cento del prezzo di ogni articolo venduto, oppure Secondamanina, che funziona in modo molto simile.

fonte: www.ilpost.it

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VinoKilo, l'abbigliamento sostenibile arriva a Milano: si paga al chilo e cashless














Vintage, eco-friendly e innovativo: arriva a Milano - e per la prima volta in Italia - VinoKilo, il nuovo concept di shopping dedicato alla moda sostenibile. L'e-commerce tedesco si presenta con un evento di vendita che si svolgerà sabato 19 Ottobre (dalle 10 alle 18) presso lo SpazioVetro di SuperStudio Group (Via Tortona 27). 
Più di 4.000 capi vintage - per un totale di circa 3 tonnellate di pezzi unici - saranno esposti su cremagliere e presentati al pubblico in maniera innovativa: si potrà fare shopping degustando vino e accompagnati da musica live. VinoKilo rappresenta un'alternativa sostenibile ed eco-friendly alla Fast-Fashion: l'azienda con sede a Magonza, in Germania, recupera vecchi abiti in disuso e smantellati e dona loro nuova vita.I capi, dimenticati in vere e proprie discariche tessili in ogni lato del globo, vengono accuratamente selezionati e quindi inseriti in un meticoloso processo di riqualificazione: lavati, riparati e piegati a mano e solo alla fine reimmessi nel ciclo di consumo attraverso l'e-commerce online o con speciali eventi pop-up organizzati nelle maggiori città d'Europa.
Non si paga il singolo pezzo ma, naturalmente, si paga al chilo.
 In poco più di 4 anni di attività e 194 eventi, Vinokilo è riuscita ad ottenere notevoli risultati in fatto di vendite, con un impatto ambientale concreto e significativo dando nuova vita a oltre 150 tonnellate di vestiti. Significa che sono stati risparmiati più di 3,5 milioni di cicli di lavaggi, che tradotto in impatto idrico sono pari all'acqua necessaria per riempire 2,3 milioni di vasche da bagno, ed evitate emissioni di CO2 pari a quelle emesse percorrendo circa 30 milioni di km alla guida di un'automobile, praticamente 8 volte andata e ritorno verso la luna.
L'obiettivo è quello di stimolare un ciclo di vita infinito per questi indumenti, rendendoli accessibili al grande pubblico: non un "semplice" negozio vintage, ma un negozio in cui si mette in evidenza come la moda di seconda mano non sia né diversa né di minor valore rispetto alla moda di ultima tendenza.   
Per rendere l'esperienza della moda sostenibile il più semplice, innovativa e cool possibile, VinoKilo ha scelto inoltre di mettere a disposizione degli shopping addicted la possibilità di pagare senza contanti ma, più velocemente, con la carta, grazie ai lettori di carte SumUp Air, pensati per essere utilizzati in ogni luogo e situazione: realizzati dalla fintech britannica che sta rivoluzionando il mercato dei pagamenti elettronici, si collegano tramite bluetooth ad uno smartphone o un tablet con connessione 3G e permettono di accettare pagamenti ovunque, senza bisogno di contanti.
Senza dimenticare, anche in questo caso, la sostenibilità: secondo due studi olandesi commissionati dalla De Nederlandsche Bank ed analizzati per SumUp da Rete Clima, le transazioni in contanti sarebbero più inquinanti delle transazioni con carta di debito. Per quanto riguarda il pagamento in contanti, l'impatto ambientale di ogni transazione è infatti pari a 4,6 g di CO2 equivalenti (CO2e), mentre quello di ciascuna transazione con carta di debito è di 3,78 grammi di CO2e.


fonte: https://www.greencity.it

FabricAID, l’idea di un 24enne libanese per riciclare gli abiti usati

Omar Itani ha vinto il premio Young Champions of the Earth delle Nazioni Unite grazie alla creazione del primo hub di riciclo e ridistribuzione dell’abbigliamento nell’Asia occidentale a favore delle comunità svantaggiate



















Si chiama FabricAID ed è la realtà creata dal giovane libanese Omar Itani per riciclare abiti usati dando una mano alle comunità più svantaggiate. L’obiettivo è quello di fornire indumenti di buona qualità nelle mani delle persone che ne hanno bisogno, riducendo allo stesso tempo i rifiuti tessili. L’idea è semplice ma curata, come si legge sul sito del progetto. La struttura raccoglie vestiti e scarpe dai vari cassonetti della differenziata tessile sparsi in Libano e attraverso donazioni o partnership con aziende e associazioni di settore; quindi gli indumenti vengono puliti, riparati e classificati, scartando quelli in cattive condizioni. I capi di buona qualità sono rivenduti a micro prezzi tra 0,3 centesimi e 2 dollari. “FabricAID ridisegna il modo in cui pensiamo alla moda”, ha dichiarato Itani. “Le persone più bisognose hanno pochi vestiti o proprietà. Eppure c’è anche un eccesso di indumenti buoni che vengono bruciati o gettati in discarica, inquinando l’ambiente e creando rifiuti inutili”


Ad oggi FabricAID ha riciclato 75.000 chilogrammi di abiti usati e rivenduto oltre 50.000 articoli a più di 10.000 persone, per lo più rifugiati o comunità a basso reddito reddito. Diventando a tutti gli effetti, il primo grande hub di raccolta e ridistribuzione dell’abbigliamento nell’Asia occidentale e creando nuove opportunità di lavoro locale.

Il progetto che ha fatto meritare al 24enne libanese il titolo ONU di Young Champions of the Earth, riconoscimento assegnato a livello mondiale ai giovani under 30 impegnati in grandi idee per la tutela e il cambiamento ambientale.
Spiega Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) “Il cambiamento climatico è la sfida principale del nostro tempo e invita tutti noi a ridurre, riutilizzare e riciclare per eliminare gli sprechi. L’industria della moda ha bisogno di modelli di business innovativi e leader come Omar per aiutarci ad abbracciare e passare a un’economia a zero sprechi e basse emissioni di carbonio”.
Un passo fondamentale se si considera l’impatto ambientale di questo settore: oggi l’industria della moda impiega le stesse risorse idriche necessarie per soddisfare le esigenze di cinque milioni di persone, mettendo sul mercato ogni anno l’equivalente di 3 milioni di barili di petrolio in microfibra.

fonte: www.rinnovabili.it

Cina, chimica e fast fashion ci copriranno di rifiuti tessili

Vestiti di bassa qualità realizzati con materiali difficili da riciclare. La moda compulsiva mette in crisi il circuito del riuso e prepara una bomba ambientale



















Abiti usati, la materia prima cresce in volume ma crolla la qualità. Questo in estrema sintesi lo scenario che contraddistingue oggi il second hand clothes market, il mercato degli indumenti di seconda mano. Che vale circa 4 miliardi di dollari l’anno e risente inevitabilmente delle grandi trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel settore tessile.

Le trasformazioni del settore vengono accelerate dal boom del fast fashion – con le sue devastanti ricadute sociali e ambientali – che quest’anno ha sancito la fine di un’epoca: il 2018 sarà infatti il primo anno nel quale più della metà delle vendite di capi di vestiario e calzature avrà avuto origine al di fuori di Europa e Nord America. A rivelarlo sono gli analisti di McKinsey nel rapporto The State of Fashion 2018 secondo il quale le principali fonti di crescita del settore sono i mercati dei Paesi emergenti, soprattutto Asia-Pacifico e Latino-America
 



il sorpasso dei mercati emergenti su USA ed Europa nelle vendite del settore moda e abbigliamento – fonte ‘The State of Fashion 2018’, The Business of Fashion and McKinsey & Company 2017

Ma la produzione globale di abbigliamento in crescita galoppante (è raddoppiata tra il 2000 e il 2015) non è l’unica tendenza del comparto moda. Nello stesso periodo il numero medio di volte in cui un capo viene indossato prima dello smaltimento è diminuito del 36%. Un dato impressionante che, guardando alla Cina, arriva addirittura al 70%. L’altra novità riguarda i materiali: il poliestere ha infatti scalzato il cotone, diventando il tessuto più utilizzato dall’inizio del ventunesimo secolo.

Tutte grandi trasformazioni che si rivelano gatte da pelare per l’economia del tessile usato. Forniscono infatti prodotti più complicati da gestire al mercato degli indumenti destinati al riuso o a quello degli scarti da riciclare in materie prime seconde.


Abiti usati: materiali difficili da riciclare

Il primo problema è legato all’aumento percentuale delle fibre sintetiche nei tessuti. Gli indumenti al 100% in poliestere, al di là delle valutazioni di pregio e qualità, sono infatti relativamente facili da riconvertire in materiale riutilizzabile. Ben diverso è il caso di miscele con fibra naturale, ad esempio cotone e poliestere. Questi mix, ad oggi, sono essenzialmente non riciclabili: le due componenti infatti non possono essere separate a basso costo.

D’altra parte, se è vero che il cotone tessuto “in purezza” può essere trasformato in nuovi indumenti, per realizzare un capo d’abbigliamento pronto per la vendita anche le fibre di cotone devono essere miscelate con nuova fibra di cotone vergine. Dopo il processo di riciclo infatti diventano assai più corte. Tant’è che nella linea di jeans H&M in cotone riciclato il materiale riciclato è solo il 20% del totale. Il restante 80% è cotone vergine.


scenari di un possibile incremento nell’uso delle fibre sintetiche nell’industria della moda al 2030 – fonte ‘La moda a un bivio’, Greenpeace, 2017

Aspetti problematici sempre più diffusi e ben noti agli addetti ai lavori. «Prendiamo i classici jeans. Una volta erano 100% cotone» spiega Carmine Guanci, vicepresidente di Vesti Solidale, cooperativa sociale specializzata nella raccolta di indumenti usati. Ciò apriva molte strade per il loro riuso: «addirittura in Francia sono stati sviluppati degli impianti dove avviene una lavorazione per recuperare il tessuto e produrre un materiale di isolamento termico e acustico che si chiama Métisse, ignifugo, 100% cotone».

Oggi i jeans hanno invece al loro interno, per la maggior parte, un 3-4% di elastene, che ignifugo non è e sta creando moltissimi problemi a questi stabilimenti di riciclaggio. «Quando si hanno dei materiali poliaccoppiati, la separazione ha dei costi che spesso rendono antieconomico il riciclo rispetto all’acquisto di materia vergine».
Troppi vestiti e di scarsa qualità: costi e rifiuti crescono

E poi c’è un problema di quantità e qualità generale. «Da un punto di vista quantitativo – prosegue Guanci – noi abbiamo incrementato la raccolta rispetto all’anno scorso (arrivando a circa 15mila tonnellate). E questo accade perché si è abbassata la qualità degli indumenti che troviamo nei nostri contenitori.


La raccolta è finalizzata agli indumenti che possano essere riutilizzati, quindi con maggior valore. Ma abbiamo grandi difficoltà a smaltire quella frazione che non è riciclabile come materia, né riutilizzabile come capo d’abbigliamento. Una frazione via via crescente. Gli impianti sono saturi e i costi stanno aumentando» conclude Guanci.

la rete RIUSE per la raccolta di indumenti usati in Lombardia, vantaggi economici e ambientali
Scarti tessili pronti a invadere discariche e inceneritori


Ed ecco il paradosso: da un lato l’enorme quantità di capi d’abbigliamento prodotti permetterebbe una percentuale di recupero sufficiente ad alimentare il second hand market nei Paesi occidentali. Ma la composizione degli abiti porta a un aumento impressionante dei rifiuti tessili da smaltire senza profitto. E, se la tendenza proseguirà, il recupero diventerà antieconomico.

Attualmente circa il 70% degli indumenti usati raccolti viene riutilizzato, il 25% si trasforma in fibra e filati, il 5% finisce bruciato nei termovalorizzatori. Ma in Occidente la situazione è già decisamente più preoccupante. «Nei Paesi in cui il consumismo eccessivo è predominante – denunciava nel 2017 il rapporto Fashion at the crossroad di Greenpeace – la stragrande maggioranza degli abiti a fine vita viene smaltito insieme ai rifiuti domestici finendo nelle discariche o negli inceneritori. È questo ad esempio il destino per più dell’80 per cento degli indumenti gettati via nell’UE».


Quanti rifiuti finiscono nelle discariche USA ogni anno? 10 milioni di tonnellate. Pari a 30 grattacieli. FONTE: Sustainable Fashion Matterz

Situazione analoga negli USA dove ogni cittadino metterebbe nella spazzatura circa 3,2 chilogrammi di vestiti e altri tessuti l’anno. In pratica ogni anno, calcola l’Agenzia federale per la Protezione ambientale, più di 10 milioni di vestiti finiscono in discarica, occupandone il 5% dello spazio totale. Una mole di rifiuti pari a 30 volte il peso dell’Empire State Building di New York. E intanto l’industria del riciclaggio tessile americana riesce a processare al massimo il 15% dei rifiuti tessili post-consumo (PCTW).

Una frazione di rifiuto prodotta consumando tanta energia e risorse ambientali. E che crescerà nel futuro: l’Unione europea, nell’ambito della nuova direttiva sulla economia circolare, impone infatti a tutti i Paesi la raccolta differenziata del tessile entro il 2025. Indumenti usati. Ma anche accessori e prodotti dismessi verso cui il mercato del riciclo non ha interesse.

utilizzo di acqua per la produzione di un paio di jeans – fonte “Toward sustainable water use in the cotton supply chain”, 2016fonte: www.valori.it

Rifiuti al posto del carbone, è davvero una scelta ecologica?

Gli abiti non adatti alla vendita, presenti nel magazzino centrale della H&M, sono destinati ai forni della centrale cogenerativa di Vasteras, per produrre elettricità e calore















Bruciare gli abiti scartati dalla catena di negozi H&M per rimpiazzare i tradizionali combustibili fossili. Succede in Svezia dove una centrale combinata ha deciso di sostituire gradualmente l’utilizzo del carbone con alcuni “combustibili rinnovabili e riciclati”. Ci troviamo a Vasteras, a nord-ovest di Stoccolma. Qui l’impianto della Malarenergi AB, utility che possiede e gestisce lo stabilimento, ha accolto in questi giorni il suo ultimo carico di carbone. Il combustibile sarà utilizzato solo in caso di “emergenze meteorologiche” fino al 2020, anno a partire dal quale la centrale svedese dovrebbe eliminare qualsiasi fonte fossile dalla sua dieta.

In tre delle sue 5 caldaie già da tempo finiscono biomasse, biocarburanti, scarti cellulosici e dallo scorso anno anche vestiti usciti dal commercio, per produrre in assetto cogenerativo elettricità e teleriscaldamento. “Per noi si tratta di materiale combustibile”, spiega a Bloomberg, Jens Neren, responsabile delle forniture di carburante presso l’utility. “Il nostro obiettivo è utilizzare solo combustibili rinnovabili e riciclati”. Obiettivo che verrà raggiunto entro la fine di questo decennio, con la sostituzione delle due ultime unità.


In realtà nelle bocche dell’impianto finiscono anche rifiuti ottenuti dalle vicine città e in alcuni casi anche dalla Gran Bretagna (la società viene pagata per smaltirli). Nell’accordo stretto tra Malarenergi AB e il comune di Eskilstuna rientrano anche gli abiti non venduti presenti nel magazzino centrale della H&M, il colosso svedese del fast fashion. Nel 2017, l’impianto di Vasteras ha bruciato circa 15 tonnellate di vestiti scartati da H&M sulle 400.000 tonnellate di spazzatura gestite in totale sino a ora. La celebre catena d’abbigliamento ha specificato che tutti gli abiti inceneriti appartengono a lotti dichiarati “non sicuri” e quindi non adatti alla vendita. “È nostro obbligo legale  – ha spiegato la società – assicurarci che i vestiti che contengono muffe o che non rispettano le nostre rigorose restrizioni sui prodotti chimici siano distrutti”.

fonte: www.rinnovabili.it

Clothes for love: l'innovativa raccolta degli abiti usati che premia chi conferisce scarpe e vestiti
















Dimenticate il tradizionale contenitore giallo per la raccolta degli abiti usati al centro di scandali negli anni passati, oggi ha assunto una nuova forma: quella di un grande cuore rosso, pronto ad accogliere le donazioni ma anche a erogare premi e a dialogare con il cittadino attraverso un touch screen interattivo che permette di ottenere informazioni relative al conferimento dei vestiti.
Una vera e propria innovazione nel modo di raccogliere abiti e scarpe usati presentata da Eurven in occasione di Ecomondo2017 che si sta svolgendo a Rimini Fiera proprio in questi giorni (7 al 10 novembre). Il nuovo contenitore completamente digitalizzato, per la raccolta dei vestiti usati realizzato per il progetto Clothes For Love a cura dell’organizzazione umanitaria HUMANA People to People Italia e in collaborazione con Auchan Retail Italia, le principali Amministrazioni Comunicali lombarde e una ricca rete di partner locali.
Questi nuovi raccoglitori rossi e dalla forma a cuore sono stati progettati dall’Istituto Europeo di Design e completata dal progetto grafico di Re.rurban Studio, ad evidenziare la generosità che accompagna la donazione degli indumenti così come l’attenzione all’ambiente.


raccolta abiti usati 


Il contenitore presenta un display touch screen digitale da cui il cittadino otterrà informazioni relative al conferimento dei vestiti, alla filiera di HUMANA, al progetto beneficiario e ai partner. Il vano d’inserimento non presenta la classica maniglia basculante ma un’apertura di più facile utilizzo ma soprattutto antintrusione e manomissione. All’interno la presenza di sensori volumetrici e un dispositivo di pesatura interna.


raccolta abiti usati


Quello che rende particolare il contenitore è inoltre il suo sistema incentivante: dopo la donazione, infatti, è possibile selezionare dal monitor un buono sconto, che viene stampato in tempo reale, per l’acquisto di prodotti sostenibili come alimentari bio, lampadine a basso consumo o prodotti e servizi di piccoli riparatori e botteghe aderenti. A questo buono se ne aggiunge un secondo di “benvenuto” da parte di HUMANA, come ulteriore riconoscimento al donatore; ma soprattutto, donando i propri indumenti i cittadini potranno supportare le attività d’inserimento scolastico di HUMANA nella zona di Chilangoma in Malawi.
Con il progetto Clothes for love, HUMANA People to People Italia vuole farsi ancora una volta promotore del cambiamento culturale che dobbiamo sforzarci di perseguire nel nostro Paese. È inoltre una testimonianza diretta di come l’applicazione delle nuove tecnologie possa contribuire alle finalità solidali ed essere un fattore di raccordo e dialogo con i cittadini che sempre più chiedono di essere coinvolti in prima persona nelle attività che investono la loro vita” sottolinea Karina Bolin, Presidente di HUMANA People to People Italia.
Ad ora, i contenitori Clothes For Love sono stati posizionati a Milano (presso il punto vendita Simply di Viale Corsica 21) e Vimodrone (presso il Centro Commerciale Auchan) e andranno in tour fino a fine gennaio 2018 nelle principali città lombarde.
E come sottolinea Carlo Alberto Baesso, General Manager di Eurven: “Rifiuto significa risorsa: ogni piccolo gesto virtuoso da parte dei cittadini va premiato e incentivato. In questo modo sarà più facile stimolarli a fare la raccolta differenziata e a prendersi cura ogni giorno dell’ambiente”.





fonte: www.greenme.it