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L’oceano un pozzo di rifiuti, sul fondo 14mln di tonnellate di pezzi di plastica

Lo studio dell’agenzia australiana Csiro, il numero di frammenti di microplastica sul fondo del mare era più elevato nelle aree dove c’era anche una maggiore quantità di rifiuti galleggianti









L’oceano come un pozzo di microplastica. Ci sono infatti almeno 14 milioni di tonnellate di pezzi di plastica di larghezza inferiore a 5 millimetri sul fondo dell’oceano. E’ questo il risultato di uno studio dell’agenzia australiana Csiro – pubblicata sulla rivista Frontiers in marine science – che ha analizzato sedimenti oceanici fino a 3 chilometri di profondità (prelevati in sei siti remoti, a circa 380 km dalla costa meridionale del Paese nella Great australian bight).

I ricercatori hanno esaminato 51 campioni e hanno scoperto che, dopo aver escluso il peso dell’acqua, ogni grammo di sedimento conteneva una media di 1,26 pezzi di microplastica. Le microplastiche hanno un diametro di 5 millimetri o meno, e sono per lo più il risultato di oggetti in plastica più grandi che si rompono in pezzi sempre più piccoli. Inoltre il numero di frammenti sul fondo del mare era più elevato nelle aree dove c’era anche una maggiore quantità di rifiuti galleggianti.

“L’inquinamento da plastica che finisce nell’oceano si deteriora e si decompone, finendo a ridursi in microplastiche – rileva Justine Barrett dell’Oceans and atmosphere del Csiro che ha guidato lo studio – la nostra ricerca fornisce la prima stima globale della quantità di microplastica presente sul fondo marino”.

L’analisi sulla microplastica, trovata in una posizione così remota e a tale profondità – viene spiegato da Denise Hardesty, ricercatrice del Csiro e coautrice della ricerca – offre un’indicazione “sull’ubiquità della plastica: non importa dove ti trovi nel mondo. Questo significa che in acqua si trova ovunque. E ci fa riflettere sul mondo in cui viviamo e sull’impatto delle nostre abitudini di consumo su quello che è considerato un luogo incontaminato. La nostra ricerca ha scoperto che l’oceano profondo è un pozzo di microplastiche”.

La ricercatrice lancia poi un messaggio facendo presente che non è possibile stabilire da quanti anni questi piccoli pezzi di plastica si trovano sul fondo degli oceani né il tipo di oggetto di cui una volta facevano parte: “Dobbiamo assicurarci che il grande mare blu non sia un grande bidone della spazzatura. Questa è un’ulteriore prova che dobbiamo fermare tutto questo alla fonte”. E infatti lo studio, dagli esami al microscopio ha suggerito che una volta queste microplastiche erano quasi certamente prodotti di consumo.

Ma per Hardesty il vero punto è che “tutti possiamo contribuire a ridurre la plastica che finisce nei nostri oceani evitando la plastica monouso, sostenendo le industrie australiane di riciclaggio e rifiuti, e smaltendo i nostri rifiuti con attenzione. Il governo, l’industria e la comunità devono lavorare insieme per ridurre in modo significativo la quantità di rifiuti lungo le nostre spiagge e nei nostri oceani”.

I campioni usati per la ricerca facevano parte di una raccolta accessoria a un’indagine di base sulla geologia e l’ecologia delle profondità marine finanziate dal Csiro e dal Great australian bight deepwater marine programme, un programma di ricerca guidato dallo stesso Csiro e sponsorizzato da Chevron Australia.

fonte: www.rinnovabili.it

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Le tue foto per salvare il mare dalla plastica

Campagna social lanciata dal progetto Indicit II per raccogliere informazioni sull'impatto della plastica nell'ambiente marino

























Non è bello vedere le immagini di tartarughe marine impigliate nelle reti o i delfini soffocati dalle buste di plastica. E’ utile e importante, invece, per i ricercatori, perchè aiuta a capire quale impatto hanno sugli animali le tonnellate di rifiuti presenti nei nostri mari. Fondamentale anche osservare quali sono gli oggetti di plastica che provocano più danni alle specie.
Visto che il lockdown ha portato le persone a passare molto tempo sul web, il progetto Indicit II lancia una “challenge”. Chiede a tutte le persone che hanno visto nei sociali o nei siti web immagini di animali impigliati nella plastica, di inviarle ai ricercatori attraverso una piattaforma. Il progetto invita anche a divulgare le immagini sui social con l’hastag #dangerlitter.
Per la loro caratteristica di ingerire i rifiuti marini, le tartarughe Caretta Caretta sono considerate dai ricercatori degli indicatori ambientali importanti. Il progetto INDICIT II ha dimostrato che oltre il 60% delle tartarughe marine ingeriscono frammenti di buste di plastica, imballaggi, oggetti duri, tessuti o articoli da pesca. 



fonte: https://www.snpambiente.it/


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Sull’Artico nevicano microplastiche

In alcuni campioni di neve raccolti vicino alle Svalbard ne sono state trovate concentrazioni molto alte, ma non è ancora chiaro come siano arrivate lì



Un gruppo di scienziati tedeschi e svizzeri ha trovato minuscoli frammenti di plastica e gomma nella neve caduta sullo stretto di Fram, il tratto di mar Glaciale Artico tra le isole Svalbard e la Groenlandia, in quantità tali da dedurre che ci siano arrivati dall’atmosfera. Si sapeva già che sui fondali e nelle acque dell’Artico c’è una grande quantità di microplastiche, nome con cui si indicano i pezzi di plastica di dimensioni inferiori ai 5 millimetri, e secondo un’altra ricerca proprio nell’Artico ce n’è la più alta concentrazione: la loro presenza nella neve sopra i tratti di mare ghiacciati indicherebbe che uno dei modi in cui le microplastiche raggiungono l’Artico è nevicando.

I campioni di neve utilizzati per lo studio, pubblicato il 14 agosto sulla rivista Science Advances, erano stati raccolti durante alcune spedizioni di ricerca tra il 2015 e il 2017 e sono stati analizzati nei laboratori dell’Istituto Alfred Wegener di Bremerhaven. I ricercatori hanno trovato più di 10mila frammenti di plastica per litro, molto più di quanto si aspettassero. Tra le altre cose hanno potuto riconoscere pezzetti di pneumatici, frammenti di vernice e, forse, fibre sintetiche. La stessa analisi è stata fatta su campioni di neve raccolti sulle Alpi svizzere e in varie parti della Germania: anche lì, forse meno sorprendentemente, sono state trovate grandi quantità di microplastiche, maggiori (fino a 154mila per litro) nei campioni tedeschi.


Secondo i ricercatori, guidati da Melanie Bergmann, le microplastiche sono arrivate nella neve raccolta grazie ai venti atmosferici prima e alle precipitazioni poi, anche se non è ancora ben chiaro in che modo esattamente arrivino a percorrere grosse distanze come quelle che separano le Svalbard dalle zone più densamente popolate e inquinate. Uno studio pubblicato ad aprile da un gruppo di ricerca franco-britannico aveva dimostrato che attraverso le precipitazioni le microplastiche sono arrivate anche sui Pirenei, in aree lontane da fonti di inquinamento. Non è possibile tuttavia sapere da dove arrivino le microplastiche trovate in questi studi. Secondo i ricercatori dell’Alfred Wegener Institut è possibile che parte dei frammenti trovati nella neve provengano da navi rompighiaccio.



Le microplastiche trovate nella neve sull’Artico descritte nell’articolo di Melanie Bergmann e collaboratori (Science Advances)

Bergmann e i suoi colleghi studiano la presenza di particelle di plastica nell’Artico dal 2002 e nel corso degli anni ne hanno trovate sempre di più. In uno dei punti in cui le rilevano sono decuplicate.

Non si sa ancora quali siano gli effetti della presenza di microplastiche nell’acqua e nell’aria sulla salute di persone e animali che vi entrano in contatto: sono stati fatti alcuni studi, ma non ci sono grandi certezze per ora anche perché gli effetti potrebbero essere molto variabili a seconda del tipo di microplastiche e delle loro dimensioni. L’unica cosa che si sa per certa è che gli animali marini ne ingeriscono in grande quantità e che quelli in cima alla catena alimentare, come squali, delfini e orche, ne ingeriscono più di tutti perché le assorbono non solo dall’acqua ma anche mangiando altri animali.

fonte: www.ilpost.it