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La Gran Bretagna "verde" esporta i rifiuti di plastica nei paesi poveri

Dal 1 gennaio 2021 Bruxelles li vieta verso paesi non Ocse. Ma la Brexit consente a Londra norme meno stringenti verso le discariche rappresentate dai paesi in via di sviluppo. E il flusso non si ferma, anzi



LONDRA - Il governo di Boris Johnson si dice orgogliosamente ambientalista, ha annunciato negli ultimi mesi decine di miliardi stanziati per la prossima "rivoluzione industriale verde" del Regno Unito e la stessa fidanzata del primo ministro, Carrie Symonds, è da sempre un'attivista contro il cambiamento climatico, oltre che animalista. Ora, però, si scopre che Londra, dopo la Brexit dello scorso 31 dicembre, continua a mandare centinaia di tonnellate di rifiuti di plastica ai Paesi in via di sviluppo nel mondo.



Una pratica che ha scatenato polemiche e indignazione negli ultimi anni, soprattutto dopo la diffusione di mari e terre del sud-est asiatico inondate di bottiglie, buste, giocattoli, contenitori di plastica, di cui una buona parte sinora è scaricata dai ricchi Paesi occidentali a quelli più poveri. Non a caso, l'Ue ha vietato dal 1 gennaio 2021 l'esportazione di rifiuti di plastica indifferenziati al paesi non Ocse. Invece, come riferisce il Guardian, a oggi lo stesso non ha fatto il Regno Unito che dunque, anche grazie alla scappatoia regolamentare legata alla Brexit, continuerà a mandare plastica indifferenziata soprattutto in Asia anche quest'anno, perlomeno nei primi mesi. Ciò nonostante il manifesto del partito di Johnson lo escludesse e lo stesso primo ministro abbia promesso di non eludere gli standard ambientali sinora condivisi con l'Ue.



Il Regno Unito è il secondo produttore di plastica al mondo ed esporta circa due terzi dei suoi rifiuti di plastica. Solo nel settembre 2020, Londra ne ha inviato 7133 tonnellate a Paesi non Ocse, come Malesia, Pakistan, Vietnam, Turchia e Indonesia, l'anno scorso uno degli stati che si è "ribellati" a questa pratica, rimandando gli stock verso il Canale della Manica. Il Ministero dell'Ambiente britannico però sottolinea il suo impegno a mettere al bando questa pratica nel corso del 2020, anche se sinora non è stato preciso sulle tempistiche.

Nel frattempo, il governo di Boris Johnson è stato criticato da vari addetti ai lavori. Sam Chetan-Welsh di Greenpeace Uk ha detto sempre al quotidiano britannico che "questa non è leadership ma non rispettare i principi basilari della questione". Per Tim Grabiel invece, legale dell'Environmental Investigation Agency, "tutti i 27 Paesi dell'Ue si sono adeguati a queste regole contro l'esportazione della plastica, speriamo che anche Londra decida di fare lo stesso...". Il prossimo autunno, il Regno Unito organizzerà insieme all'Italia e ospiterà a Glasgow, in Scozia, la cruciale Conferenza del Clima dell'Onu "Cop26".


fonte: gazzettadimantova.gelocal.it


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La lotta alla plastica al centro del nuovo Piano Verde UK

La premier presenta il nuovo programma venticinquennale per l’ambiente. E annuncia: stop entro il 2042 ai tutti i rifiuti di plastica evitabili





















Estendere la tassa da 5 pence a tutti i sacchetti usa e getta, realizzare corsie di prodotti sfusi all’interno dei supermercati, erogare nuovi finanziamenti per l’innovazione nella filiera dei polimeri , stanziare fondi dedicati alla lotta all’inquinamento da plastica nei Paesi in via di sviluppo. Questi alcuni dei punti principali del nuovo Piano Verde UK (25 Year Environment Plan), lo strumento di programmazione ambientale presentato dal primo ministro britannico Theresa May.

Il programma, stilato dal dipartimento ambientale di Michael Gove con contributi da parte di gruppi di pressione, è fortemente incentrato sulla plastica, definita senza mezzi termini “uno dei grandi flagelli ambientali del nostro tempo”. “Solo nel Regno Unito – ha commentano la premier  – la quantità di plastica monouso sprecata ogni anno riempirebbe 1.000 Royal Albert Hall (la spettacolare sala da concerti di Londra)”. In realtà, la “guerra” è iniziata due giorni fa con l’entrata in vigore della messa al bando delle microplastiche dalla produzione dei cosmetici e dei prodotti per la cura personale (a luglio 2018 sarà proibita anche la vendita), un divieto che rende la Gran Bretagna primo paese al mondo a compiere questo passo (leggi anche Il Regno Unito vieta le microplastiche nei cosmetici).


Want to know about our ? Here's how it will eliminate all avoidable plastic waste within a quarter of a century to help make our country and leave our environment in a better state than we found it for the next generation.

Secondo il Piano Verde il Paese dovrà eliminare tutti i rifiuti plastici “evitabili” entro il 2042.  Per raggiungere l’obiettivo sono promossi una serie di strumenti, dalle leve economiche ai nuove tasse per il settore, fino alla realizzazioni di corsie interne ai supermercati dove esporre prodotti sfusi, quindi senza imballaggi. Il documento scandisce l’agenda governativa dei prossimi 25 anni ma, come hanno fatto prontamente notare gli ambientalisti britannici, le proposte non avranno alcuna forza legale e il tempo d’azione è volutamente molto diluito.

Ma per la May il nuovo Green Plan rappresenta soprattutto un modo per riconquistare gli elettori dopo le ultime burrasche politiche. “Mentre lasciamo l’Unione Europea, che per decenni ha controllato alcune delle leve più importanti nella politica ambientale, ora è il momento giusto per domandarci come progettiamo e valorizziamo il nostro palcoscenico ambientale”.

fonte: www.rinnovabili.it

Nucleare: UK minaccia restituzione rifiuti radioattivi, anche italiani














Continua la trattativa dopo la Brexit, che mette in primo piano anche il nucleare. La Gran Bretagna sta portando avanti dei colloqui con l’Unione Europea per raggiungere un accordo proprio sull’energia nucleare.
Sono molto dure le dichiarazioni da parte dei rappresentanti del Governo britannico, i quali hanno fatto sapere che, nel caso di un mancato raggiungimento di un punto di incontro, l’UK avrebbe intenzione di restituire i rifiuti radioattivi esteri. Si tratta di oltre 120 tonnellate di materiali nucleari che provengono da Paesi come l’Italia, la Germania e la Svezia.
Tutti questi rifiuti di origine radioattiva sono stati depositati in un impianto che si trova nella contea inglese di Cumbria. La struttura si è occupata fino a questo momento del riprocessamento del combustibile nucleare che proveniva da tutta Europa. Adesso, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ci sarà anche un ripensamento per quanto riguarda l’Euratom.
La Gran Bretagna potrebbe uscire anche dalla Comunità Europea per l’Energia Atomica, che si occupa di regolare lo sviluppo dell’energia nucleare e il suo commercio. Il Primo Ministro Theresa May ha confermato l’intenzione da parte di Londra di arrivare ad una restituzione dei rifiuti radioattivi, perché con l’uscita dall’Euratom il Regno Unito dovrebbe affrontare nuovi costi che riguardano la sicurezza sui combustibili nucleari.
Non tutti sono d’accordo sull’uscita dall’Euratom, ma il Primo Ministro sembra andare avanti per la sua strada rinunciando a rinviare l’uscita dalla Comunità Europea per l’Energia Atomica. Per questo rivestono un ruolo molto importante i negoziati con gli altri Paesi dell’UE e la “minaccia” di riportare ai loro Paesi d’origine i materiali nucleari scartati.

fonte: www.greenstyle.it

Come la Brexit potrà influenzare la lotta al global warming

Quali saranno le conseguenze sulla politica energetica e ambientale del Regno Unito e dell'UE della vittoria del "leave"? Cosa cambierà nelle strategie europee e internazionali di lotta ai cambiamenti climatici? Quale sarà l’effetto del Brexit sul Paris Agreement? L'analisi di Lorenzo Ciccarese.

Alla vigilia del referendum erano montate molte preoccupazioni sulla equivalenza tra Euro-scettici e scettici delle politiche climatiche e negazionisti dei cambiamenti climatici, tanto che è stato introdotto per loro il neologismo clurosceptic.
All’indomani dell’esito referendario è intervenuta Amber Rudd, ministra per l’energia e i cambiamenti climatici del governo Cameron, ad assicurare l’impegno della leadership del partito conservatore a rispettare sia l’Accordo di Parigi (a cominciare dalla sua ratifica) e del Climate Change Act, la legge emanata nel 2008 che prevede una riduzione dell'80% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990, entro il 2050.
Vedremo nelle prossime settimane quali saranno gli orientamenti del nuovo gabinetto di Londra su energia e clima. 
Intanto alcuni membri conservatori della Commissione Parlamentare sui cambiamenti climatici hanno chiesto una revisione della strategia di lotta al caos climatico approvato dal governo precedente, mentre il nuovo ministro dell’energia Andrea Leadsom ha inaugurato la sua carriera di ministro dell’energia con la domanda: “Is climate change real?”:
Un secondo dilemma riguarda l'influenza che la vittoria del "leave" potrà avere sulle strategie climatiche dell'UE.
Complessivamente l’UE è responsabile del 12% delle emissioni globali di gas serra ed è il terzo emettitore mondiale, dopo Cina e USA. Lo scorso dicembre l’UE, all’unanimità, ha approvato l’Accordo di Parigi. Questo, per entrare in vigore, richiede la ratifica di almeno 55 Paesi che complessivamente totalizzino almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra. 
La ratifica formale dell'accordo avviene attraverso le proprie procedure nazionali, più o meno complicate.
Alcuni Paesi membri dell’UE, tra cui la Francia, hanno già avviato il processo di ratifica. Altri dicono di voler conoscere prima i dettagli degli obiettivi climatici UE per il 2030 prima di iniziare o concludere il loro processo di ratifica.
D’altra parte, di fronte al segretariato della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, ogni singolo Paese è responsabile del proprio target. Anche per questo l’UE - che potrebbe ratificare gli impegni di Parigi senza attendere le singole ratifiche nazionali - intende giungere a una ratifica del Paris Agreement da parte del Parlamento UE solo dopo che tutti i Paesi lo hanno fatto.
Il voto referendario di fine giugno complica tremendamente le cose e l’Unione si trova a dover attendere la conclusione formale del processo di Brexit. Insomma, potranno passare mesi, forse anni, per avere la ratifica dell’UE.
Una volta che l'articolo 50 del trattato UE di Lisbona sarà attivato, cosa che secondo alcuni leader politici potrebbe avvenire entro la fine del 2017, partirà il processo di negoziazione, che si concluderà presumibilmente dopo due anni. Un tempo troppo lungo per un Accordo che intende dare risposte certe e rapide al clima che cambia.
Una seconda preoccupazione riguarda l’indebolimento delle ambizioni climatiche dell’UE.
La Gran Bretagna è stata sempre un leader all'interno del blocco UE rispetto alle strategie internazionali lotta al riscaldamento globale, fornendo un contributo chiave agli aspetti scientifici e negoziali.
Il Brexit renderà più complicate le dinamiche all’interno dell’Unione e più influenti le argomentazioni di quei Stati membri, soprattutto di recente ingresso, che vogliono tagli più lenti e più deboli delle emissioni dei gas serra.
Altro aspetto: l’UE ha assunto un impegno formale davanti alle Nazioni Unite di ridurre ‘congiuntamente’ le emissioni dei suoi 28 Paesi membri del 40% al di sotto dei livelli del 1990, entro il 2030. Con l’uscita della Gran Bretagna si apre il complesso problema della ridefinizione dell’effort-sharing, ossia della ripartizione degli impegni di riduzione delle emissioni, tra i Paesi dell’UE senza Gran Bretagna.
Infine, resta da capire come si comporterà il Regno Unito all’interno del negoziato UNFCCC e delle politiche climatiche: agirà all’interno dello spazio UE o al di fuori di esso, come una nazione a sé?
Il Regno Unito potrà decidere di agire, per esempio, come la Norvegia. Pur non essendo un Paese membro dell’UE, il Paese scandinavo fa parte dello spazio economico europeo.
La Norvegia, nel suo impegno di riduzione delle emissioni comunicato alle Nazioni Unite, ha accettato lo stesso obiettivo di riduzione dell'UE, impegnandosi a rispettare "questo impegno attraverso una posizione collettiva con l'UE e dei suoi Stati membri”. Nel caso in cui non vi fosse un accordo su una posizione comune con l'UE, la Norvegia "soddisferà l'impegno come singolo Paese”.
La seconda strada prevede che il Regno Unito operi completamente al di fuori dell'UE, come uno nazione a sé e, di conseguenza, presentare un proprio impegno di riduzione.
Anche se non è facile costruire scenari sul futuro delle politiche climatiche nazionali e internazionali, è ragionevole ritenere che la vittoria del leave in Gran Bretagna possa deprimere l’entusiasmo e lo slancio che la comunità internazionale aveva trovato a Parigi. 
D’altra parte va detto che sia la Cina sia gli Stati Uniti si sono impegnati a ratificare il Paris Agreement entro l’anno.
Questo significa che l’accordo ha buone possibilità di superare la soglia 55/55 e diventare operativo entro breve tempo, senza aspettare che l’UE abbia risolto i propri affari interni e che la Gran Bretagna abbia deciso che seguito dare al Brexit.

fonte: http://www.qualenergia.it