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Nei territori del caos climatico

Le frane, le tempeste e gli incendi che hanno causato gravissimi danni nei giorni scorsi dal Veneto alla Sicilia orientale mostrano una dinamica nuova e aggravata del dissesto. La questione territoriale italiana oggi evidenzia un fenomeno inedito nella storia del capitalismo: il realizzare profitto non produce più anche una creazione “generale” di beni e ricchezza, se non in misura irrilevante, ma danni immediati e futuri, specie in Italia. Eppure si insiste ostinatamente con le cosiddette Grandi Opere che mangiano ettari ed ettari di suolo verde, si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte e si lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare di paesi e villaggi che si vanno spopolando nelle cosiddette aree interne. Quei territori, nei decenni a venire, quando il disastro climatico si aggraverà, potrebbero essere la nostra salvezza. Urge una svolta politica e culturale per porre vincoli al cemento, cambiare in profondità la PAC dell’Unione Europea e varare misure radicali e concrete come, ad esempio, un reddito di base per ogni contadino che non solo produce ma fa manutenzione del territorio










I disastri provocati in Veneto e in Lombardia da improvvise tempeste scatenatesi nei giorni scorsi e i violenti incendi che hanno distrutto interi boschi della Sicilia occidentale, rientrano solo in parte, come qualcuno ha già osservato, nel quadro consueto dei dissesti italiani. Li comprendono certamente, ma entro una dinamica nuova e più grave. Alluvioni ed incendi, frane e distruzioni di boschi hanno legami invisibili che vanno ricordati.

Il cosiddetto riscaldamento globale non si esaurisce nell’innalzamento medio della temperatura, ma si esprime anche nel caos climatico, nella ricorrenza accentuata dei fenomeni estremi, caterratte d’acqua in poche ore e perfino trombe d’aria, accanto a prolungate siccità, che offrono ai criminali, la possibilità di appiccare incendi alle foreste con sicuro successo.

Un mutamento nella storia della natura, dovuto all’azione umana, che si inscrive, in questo caso, nella vecchia storia d’Italia, lo stato nel quale il territorio acquista valore quando viene ricoperto da edifici, se si trasforma nello scenario della propria distruzione attraverso le cosiddette grandi opere.

In Italia, il paese più franoso e fragile d’Europa, le campagne necessiterebbero di una manutenzione costante, di una presenza operosa di figure umane, di lavori di controllo e sistemazione continua delle frane, dei corsi d’acqua, di pulizia e vigilanza sui boschi – come ricordava Tonino Perna a proposito degli incendi – di monitoraggio insomma del suolo, la base delle nostre vite e delle nostre economie, ormai sempre più esposta a drammatiche rotture.

Ma l’indifferenza inveterata del ceto politico e della cultura italiana nei confronti dei fenomeni naturali e della sorte del territorio oggi valica una soglia di gravità che potremmo definire storica.

Il riscaldamento globale non comporta solo caos climatico, alluvioni e frane, siccità e incendi, i disastri dell’oggi, ma, in una prospettiva non lontana, l’innalzamento dei mari.

Lo scioglimento dei ghiacciai, che ha sorpreso anche gli scienziati per la sua recente accelerazione, comporterà l’invasione delle acque marine di vaste aree costiere e vallive, in tempi che nessuno può prevedere, ma che non saranno tempi geologici.

E qui mi torna in mente una definizione fisica dell’Italia da parte da un grande commis d’état del primo ‘900, Meuccio Ruini, il quale, volendo rilevare il carattere prevalentemente montuoso-collinare della Penisola, disegnava un quadro che oggi ha colori inquietanti:

“Se il mare, alzandosi di pochi metri, ricoprisse quel golfo di terra che è la Valle Padana, l’Italia sarebbe una sola e grande montagna”. Quei pochi metri, come ognuno può comprendere, sarebbero sufficienti a cancellare l’Italia dal novero dei paesi industrializzati, con perdite immense di beni e ricchezza.

Ora, non voglio indulgere in prospettive catastrofiche, ma se i fenomeni presenti e quelli futuri prossimi minacciano in maniera così rilevante e rovinosa il nostro habitat, non dovrebbe mutare radicalmente la nostra attenzione e la nostra cura per il territorio, già oggi e sempre più bene scarsissimo e prezioso?

E allora, com’è possibile che ancora si cementifichino le periferie urbane – Lombardia e Milano, capitale morale, in testa – anziché ristrutturare edifici abbandonati, restaurare quartieri, valorizzare il già costruito?


Perché si insiste con le cosiddette grandi opere che mangiano ettari ed ettari di suolo verde? Perché si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte, si lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare dei paesi e villaggi, che si vanno spopolando nelle cosiddette aree interne?

Quando è evidente a tutti che questi territori diventeranno la nostra salvezza nei prossimi decenni, allorché il disordine climatico si aggraverà, tante aree costiere diventeranno inabitabili, come appare inevitabile di fronte alla colpevole inanità delle classi dirigenti dei paesi ricchi.

Eppure, sul piano politico si può ancora agire per avviare una svolta, non solo coi vincoli da porre al cemento, ma gia, ad esempio, con un salto culturale della Politica Agricola Comunitaria.

Ad esempio, tra l’altro, con l’assegnazione di un reddito di base ad ogni piccolo contadino europeo, che non solo produce, ma fa manutenzione del territorio.

La questione territoriale italiana oggi mostra un fenomeno inedito nella storia del capitalismo. Da quando esiste questo modo di produzione la realizzazione del profitto da parte del capitalista ha coinciso anche con la creazione generale di beni e ricchezza.

Tale coincedenza, per via della produzione di beni sempre più imposti e superflui, si è da tempo indebolita. Ma oggi, specie in Italia, la creazione del profitto, religione dell’imprenditoria occidentale, ha perso i suoi fondamenti metafisici, come le religioni rivelate, e in vasti ambiti dell’economia, con crescente evidenza, non produce più vantaggi e benessere, ma danni, per il presente e per l’avvenire.

Piero Bevilacqua

Articolo pubblicato anche su il manifesto

fonte: www.comune-info.net


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Gli ecologisti domenicali

Dobbiamo incominciare a chiarire il significato delle parole ricordando, ad esempio, che la riconversione ecologica non si esaurisce certo nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti e utilizzando altre correzioni del modello industriale novecentesco. Quell’espressione, coniata da Alexander Langer, rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo



Davvero allarga il cuore sentire dirigenti politici e giornalisti, usare con generosità l’espressione riconversione ecologica, per alludere al nuovo corso dello sviluppo economico italiano ed europeo. Si capisce che non sanno di cosa parlano, ma il fatto che ormai ne parlino anche loro è un segno della popolarità che, almeno l’espressione verbale, ha finalmente guadagnato presso i produttori di senso comune.

Ricordo che il sintagma riconversione ecologica è stato coniato in Italia da Alexander Langer e che Guido Viale vi dedica da anni studi e ricerche, purtroppo con scarsi esiti, sia culturali che strutturali. Ma che oggi anche l’Ue tenti di progettare i suoi ingenti investimenti entro la filosofia di un Green Deal, di un modello verde di sviluppo, è sicuramente una grande novità e un’opportunità da cogliere.

Esattamente al tal fine occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco.




Quell’espressione rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo, quello, per intenderci, nato negli Usa negli anni ’30 e fondato sulla cosiddetta planned obsolescence, l’obsolescenza programmata dei beni: le merci devono durare poco per alimentare il processo produttivo, senza nessuna considerazione del fatto che le merci consumano natura e che la natura non è infinita. Dunque è necessaria una vera rivoluzione industriale, possibile solo con un profondo rivolgimento culturale.

Mi confermo in tale necessità, soprattutto in Italia, dopo aver appreso gli ultimi dati del rapporto Ispra sull’espansione del cemento nel 2019. Ne ha dato ampio conto Luca Martinelli sul manifesto (23/7), ricordando che l’anno scorso, seguendo un ritmo senza tregua, sono stati cementificati 57 milioni di m2, due metri quadrati al secondo. Perché tanto cemento, edifici, strade, ponti, in aumento di anno in anno, mentre diminuisce la popolazione?

Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un bene essenziale dell’equilibrio ambientale, ma una risorsa facile per i propri affari. Bisogna che il ceto politico e l’intero governo comprendano questo nodo drammatico dello sviluppo italiano.

I capitali investiti in cemento sfuggono di fatto al mercato, alla competizione, all’innovazione tecnologica e di prodotto e si rifugiano nel settore più tradizionale e primitivo dell’economia.

Tutte le facilitazioni offerte a questo tipo di attività predatoria l’Italia la paga innanzi tutto con un arretramento progettuale e strategico della sua industria. Il nostro Mezzogiorno ha pagato duramente, in termini di arretratezza del suo apparato produttivo, il fatto che i suoi imprenditori hanno avuto agio di fare affari col territorio anziché misurarsi con nuovi settori merceologici, affrontare mercati e sfide tecnologiche.

Naturalmente il suolo, soprattutto in Italia, costituisce il cuore di ciò che chiamiamo natura, ambiente, risorse.

Mostrare preoccupazione per il riscaldamento climatico e continuare a coprire il suolo verde non è più accettabile, perché il cemento innalza la temperatura, così come non è accettabile recriminare per l’allagamento delle città, perché è la copertura totalitaria del verde che trasforma in letti di fiume le strade cittadine appena piove.



Costruire in Italia significa non soltanto sottrarre terra all’agricoltura, ma contribuire al riscaldamento globale, operare per rendere catastrofici gli eventi meteorici. Mentre milioni di edifici vanno in rovina per abbandono, costruire ancora è opera criminale, indirizzata contro l’interesse generale.

Purtroppo non sono solo gli imprenditori che consumano suolo. Anche i comuni fanno la loro parte. Voglio qui segnalare un caso prima che sia troppo tardi e che riguarda la Calabria. A Catanzaro, nella località Giovino, sorge una pineta in riva al mare, connessa a un sistema di dune popolate da una flora selvatica con specie insolite e anche rare. Si tratta di un gioiello naturalistico di quasi 12 ettari presidiato amorevolmente da gruppi ambientalisti locali.

Naturalmente il comune non si azzarda a mettere le mani su un tale patrimonio, ma poiché questo innalza i valori fondiari dell’area adiacente, un piano di lottizzazione per costruzioni varie è sicuramente un buon affare.

In questo modo si salvaguarda l’ambiente e si dà una mano allo sviluppo. Ricordo che dal 2001 la Calabria ha perso quasi 100 mila abitanti, Catanzaro è passata da 95.512 a 88.313 nel 2020. Mentre il centro storico si spopola e nessuno ristruttura vecchi edifici, anche di pregio, si va in cerca di territori vergini più appetibili.

Considero questo caso esemplare di quel che può accadere in Italia, dove circola tanta fame di affari e c’è la possibilità di gabellarli per ecologicamente compatibili.

Articolo pubblicato anche sul il manifesto

fonte: www.comune-info.net



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A piedi nudi nel cemento. L’Italia non smette di consumare e sprecare suolo

In un anno sono stati consumati 24 metri quadrati di suolo urbano per ogni ettaro di aree verdi. La cementificazione avanza senza sosta, in particolare nelle aree compromesse. Un fenomeno che non procede di pari passo con la crescita demografica: ogni cittadino ha in “carico” circa 400 metri quadrati di superfici occupate da cemento, asfalto o altri materiali artificiali. Intervista a Michele Munafò, curatore del Rapporto ISPRA SNPA sul consumo di suolo in Italia

© Fabian Bächli / Unsplash


L’Italia non ha ancora preso atto che il consumo di suolo è un problema, e così anche nel 2018 la copertura e l’impermeabilizzazione è cresciuta al ritmo di due metri quadrati al secondo, 14 ettari al giorno, per un totale di 51 chilometri quadrati. È dietro l’angolo il 2020, quando ogni Paese dell’Unione europea dovrebbe attuare politiche in grado di ridurre in modo significativo il consumo di suolo, per realizzazione l’obiettivo di azzerarlo entro il 2050. ”Siamo lontani da questa visione -sottolinea Michele Munafò, curatore del Rapporto ISPRA SNPA sul consumo di suolo in Italia, presentato al Senato lo scorso 17 settembre-: ciò che abbiamo potuto misurare è invece l’inefficacia delle norme regionali in materia e l’assenza di una norma nazionale, i cui effetti negativi sono evidenti. Ad oggi non si vede alcune sostanziale riduzione dell’incremento dei tassi di copertura artificiale, in alcuni casi assistiamo addirittura ad un incremento del consumo di suolo”.

Il rapporto evidenzia come ogni abitante del Paese abbia ormai in “carico” oltre 380 metri quadrati di superfici occupate da cemento, asfalto o altri materiali artificiali, mentre la popolazione continua a diminuire: nell’ultimo anno, ad esempio, è come se avessimo costruito 456 metri quadrati per ogni abitante in meno. “Oltre all’obiettivo di azzeramento europeo -ricorda Munafò-, ci sono anche quelli dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che in realtà richiederebbe di allineare il tasso di crescita delle superfici artificiali a quello della popolazione. In un Paese a crescita nulla, come l’Italia, questo significherebbe non solo azzerare entro il 2030 il consumo di suolo, ma addirittura, ed è un paradosso, ma è una forzatura formalmente corretta dal punto di vista dell’indicatore utilizzato dalle Nazioni Unite, andare a recuperare suolo, rinaturalizzando superfici artificiali”, sottolinea Munafò.

La realtà è però un’altra: il rapporto fa l’esempio della Regione Umbria, che è di per sé una delle più virtuose del Paese, con con una percentuale di suolo consumato al 2018 del 5,64% (contro una media nazionale del 7,64%), e un unico comune -Bastia Umbra- il cui territorio risulta artificializzato per più del 15 per cento. “Nella regione Umbria -annota il report- i 92 piani comunali vigenti prevedono un incremento delle superfici urbanizzate attuali che varia dal 50 al 150%, con alcuni Comuni che si spingono a superare anche il 200-250%. Tali numeri sono del tutto indipendenti dalla dinamica e dagli scenari evolutivi demografici. Il tasso demografico medio agganciato a questi valori di crescita urbana sarebbe del 3,5% annuo per 10-20 anni, in una Regione che negli ultimi 50 anni ha registrato un valore del 2‰. Infatti, a fronte del suolo urbanizzato odierno, nell’ordine di circa 30.000 ettari, nei piani vigenti sono ancora disponibili altri 20.000 ettari di incremento, dei quali il 65% per aree residenziali e produttive”.

L’ISPRA parla di “potenzialità latente”, per descriver le cubature nascoste negli strumenti urbanistici vigenti. Nel caso dell’Umbria, valgono un volume pari al totale dell’edificato dal secondo Dopoguerra ad oggi. “Purtroppo è una situazione diffusa, frequente in tutto il territorio -spiega Munafò-: bisogna in qualche modo metter mano a queste previsioni, rivedendo gli strumenti urbanistici, anche perché la popolazione è diminuita e gli scenari demografici ci dicono che l’Italia continuerà a perdere popolazione”.

Focus sulle città

Uno dei focus del nuovo rapporto sul consumo di suolo sono le città italiane. Nelle aree urbane ad alta densità nel 2018 abbiamo perso 24 metri quadrati per ogni ettaro di area verde. In totale, quasi la metà della perdita di suolo nazionale dell’ultimo anno si concentra nelle aree urbane, il 15% in quelle centrali e semicentrali, il 32% nelle fasce periferiche e meno dense. La cementificazione avanza senza sosta soprattutto nelle aree già molto compromesse: il valore è 10 volte maggiore rispetto alle zone meno consumate. A Roma, ad esempio, il consumo cancella, in un solo anno, 57 ettari di aree verdi della città (su 75 ettari di consumo totale). Record a Milano dove la totalità del consumo di suolo spazza via 11 ettari di aree verdi (su un totale di 11,5 ettari). L’unica città metropolitana in controtendenza è Torino, che inverte la rotta e inizia a recuperare terreno, riconquistando 7 ettari di suolo nel 2018.”Il consumo di suolo in città ha un forte legame anche con l’aumento delle temperature e la frequenza del fenomeno delle isole di calore: la differenza di temperatura estiva delle aree urbane rispetto a quelle rurali raggiunge spesso valori superiori a 2°C nelle città più grandi” sottolinea l’ISPRA in una nota.
Tutti i dati

Il Veneto è la regione con gli incrementi maggiori +923 ettari, seguita da Lombardia +633 ettari, Puglia +425 ettari, Emilia-Romagna +381 ettari e Sicilia +302 ettari. Rapportato alla popolazione residente, il valore più alto si riscontra in Basilicata (+2,80 m2/ab), Abruzzo (+2,15 m2/ab), Friuli-Venezia Giulia (+1,96 m2/ab) e Veneto (+1,88 m2/ab). La Lombardia ha superato il 13% di suolo consumato.
Dopo Roma, il secondo Comune italiano che ha registrato la maggiore trasformazione è Verona (33 ettari), seguito da L’Aquila (29), Olbia (25), Foggia (23), Alessandria (21), Venezia (19) e Bari (18), tra i comuni con popolazione maggiore di 50.000 abitanti. Tra i comuni più piccoli, si distingue Nogarole Rocca, in provincia di Verona, che ha sfiorato i 45 ettari di incremento. “Più della metà delle trasformazioni dell’ultimo anno si devono ai cantieri (2.846 ettari), in gran parte per la realizzazione di nuovi edifici e infrastrutture e quindi destinati a trasformarsi in nuovo consumo permanente e irreversibile” spiega l’ISPRA.

La qualità del suolo

Le nuove coperture artificiali non sono l’unico fattore che minaccia il suolo e il territorio, che sono soggetti anche ad altri processi di degrado come la frammentazione, l’erosione, la perdita di habitat, di produttività e di carbonio organico, la desertificazione. Una prima stima delle aree minacciate è stata realizzata dall’ISPRA per valutare la distanza che ci separa dall’obiettivo della Land Degradation Neutrality, previsto dall’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Dal 2012 al 2018, le aree dove il livello di degrado è aumentato coprono 800 chilometri quadrati, quelle con forme di degrado più limitato addirittura 10.000 chilometri quadrati. Negli ultimi sei anni secondo le prime stime l’Italia ha perso superfici che erano in grado di produrre tre milioni di quintali di prodotti agricoli e ventimila quintali di prodotti legnosi, nonché di assicurare lo stoccaggio di due milioni di tonnellate di carbonio e l’infiltrazione di oltre 250 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde aggravando la pericolosità idraulica dei nostri territori. Il recente consumo di suolo produce anche un danno economico potenziale compreso tra i 2 e i 3 miliardi di euro all’anno dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici del suolo. Intanto, sono passati 7 anni dalla prima proposta di legge per limitare il consumo di suolo. Un tema che pare ormai scomparso dall’agenda del Parlamento.

fonte: https://altreconomia.it

Luca Mercalli. Il consumo dei suoli: fermare la cementificazione è una priorità






















Sopra, veduta aerea dell’area industriale alla periferia Ovest di Torino, tra
Rivoli e Collegno, cresciuta a spese di suoli tra i più fertili d’Europa, inseriti
nella classe I di capacità d’uso (assenza di limitazioni per la coltivazione).



Il crescente consumo di suolo per la costruzione di nuove infrastrutture, strade ed edifici civili e industriali causa la perdita irreversibile di prezioso suolo fertile. 
Oggi in Italia quasi il 10% del territorio è artificializzato, una superficie superiore a Piemonte e Valle d’Aosta messe insieme.


Sotto: prezioso suolo agrario sconvolto dai lavori di costruzione di un
nuovo svincolo della Tangenziale di Torino presso Collegno, giugno 2004.





 













L’artificializzazione del suolo sottrae ulteriore spazio alla produzione agraria in un mondo già sovraffollato e a corto di risorse alimentari; comporta un mancato assorbimento del biossido di carbonio dall’atmosfera, quindi minori possibilità di contrastare il cambiamento climatico; impedisce il drenaggio dell’acqua e causa un’accelerazione dei deflussi idrici durante le piogge intense, con maggiori probabilità di improvvisi allagamenti specialmente nelle zone urbane; genera un surriscaldamento locale che rende ancora più soffocanti le ondate di calura in estate. 

In tempi in cui il suolo era l'unica fonte di sostentamento alimentare per le popolazioni, questo era salvaguardato in ogni modo. Nelle zone di montagna talora le case erano costruite in luoghi impervi, pur di riservare al terreno migliore la destinazione agricola.
Oggi invece l'importanza del suolo è spesso dimenticata, e gli edifici vengono costruiti frequentemente senza alcun criterio di scelta del luogo, sotto la sola spinta della rendita fondiaria, distruggendo in modo irreversibile una risorsa unica che necessita di millenni per formarsi. 

PER SAPERNE DI PIÙ

www.stopalconsumoditerritorio.it - 

Movimento per la difesa del diritto al territorio non cementificato

http://stweb.sister.it/itaCorine/corine/corine.htm - 

Programma europeo CORINE - Land Cover di monitoraggio delle caratteristiche del territorio

CLIMA ED ENERGIA
Capire per agire

Luca Mercalli

Riciclare i terreni, l’approccio sostenibile allo sviluppo urbano

Le città europee crescono rapidamente consumando 1065 km2 di suolo l’anno. Ma l’approccio dell’economia circolare può rendere sostenibile anche l’urbanizzazione










Il degrado del suolo unitamente all’incontrollata cementificazione stanno ipotecando il futuro di molti ecosistemi naturali. Il rischio si ripercuote direttamente sui servizi che essi oggi assicurano, come la fornitura alimentare, la gestione idrica o la regolazione del clima. Ma con una popolazione mondiale che si sta rapidamente spostando dalle aree rurali a quelle urbane è necessario trovare un approccio allo sviluppo che permetta di accogliere l’incremento demografico senza danneggiare l’ambiente.

Una soluzione potrebbe essere quella proposta dall’European Environment Agency (EEA) nel suo report Land recycling in Europe’. Il documento mostra come riciclare i terreni, ad esempio attraverso la riconversione dei siti abbandonati o la trasformazione di strade e parcheggi in spazi verdi, si possa ottenere un impatto positivo su entrambi i fronti.

L’AEA presenta alcune metodologie per misurare la portata e l’impatto della riqualificazione e densificazione dei terreni precedentemente sviluppati, sia con un obiettivo economico diretto, come la costruzione di abitazioni, che con quello di migliorare la loro situazione ecologica, creando ad esempio aree urbane verdi o decontaminando il suolo inquinato. In media, il riciclo dei terreni in Europa è aumentato, ma i livelli restano bassi rispetto al consumo di suolo. Sulla base dei dati satellitari Copernico, la terra recuperata sulla quota totale di terreno consumato in tutti gli Stati dello Spazio Economico Europeo e i paesi cooperanti (SEE-39) è aumentata da circa 2.0-2.2% del 1990-2000 a circa il 2,7-2,9% nel 2006-2012. Tuttavia, i tassi variano considerevolmente da paese a paese e negli ultimi sei anni presi in considerazione dall’indagine, le città europee si sono mangiate la terra un tasso medio annuo di 1065 km 2.

Il rapporto confronta anche diversi modelli di riciclaggio sulla base di una valutazione del ciclo di vita degli impatti ambientali di sviluppo e dell’utilizzo di una superficie. Dalla valutazione risulta che portando i suoli precedentemente costruiti ad nuovo e più efficiente utilizzo è in grado di determinare maggiori impatti positivi rispetto ad esempio all’impiego dei suoli agricoli nello sviluppo urbano.

fonte: www.rinnovabili.it

Dissesto idrogeologico, allarme ISPRA: in Italia 66% frane europee














Il dissesto idrogeologico è ancora una piaga insanata in Italia. Lo dimostrano i dati poco rassicuranti pubblicati nell’annuario dell’ISPRA 2016, presentato a Roma. Nel nostro Paese si sono verificate oltre 600 mila frane su un totale europeo di 900.000. Gli eventi franosi nel 2015 hanno causato 12 morti, danneggiando in decine di casi la rete stradale e ferroviaria.
Milioni di cittadini italiani abitano in aree a rischio di frane e smottamenti. Nello specifico le persone esposte a un pericolo molto alto di frane sono oltre 500 mila.

A vivere in territori a pericolosità elevata sono altre 744 mila italiani, mentre nei Comuni a pericolosità media abitano circa un milione e mezzo di persone. Nelle aree a pericolosità moderata risiedono oltre 2 milioni di cittadini. Le aree di attenzione sono popolate da 680 mila persone.
Tra gli Stati membri dell’UE l’Italia è il secondo Paese più minacciato da terremoti e dissesto idrogeologico dopo la Grecia.
Nel 2015 si sono verificati 1.963 terremoti. Le aree con un rischio sismico maggiore sono il Friuli-Venezia Giulia, la Calabria tirrenica, la parte orientale della Sicilia e gli Appennini Centro-meridionali.
I terremoti espongono al rischio di lesioni e distruzione ben 10.297 beni culturali e una fetta del 28% dei siti UNESCO del Belpaese. L’esposizione alle eruzioni vulcaniche mette a repentaglio 3.064 beni culturali, pari all’1,6% del totale.

A preoccupare gli esperti è anche la cementificazione selvaggia che sta mettendo a repentaglio la capacità del suolo di resistere a frane e alluvioni. La perdita di suolo italiana non conosce eguali in Europa e supera i 21 mila km2 di territorio. L’erosione idrica si attesta sulle 8 tonnellate per ettaro annue a fronte di una media europea di appena 2,5.
In mezzo a tanti dati allarmanti l’ISPRA ha tracciato anche un quadro più roseo sullo stato di salute e conservazione delle acque sotterranee. Ben il 59% dei 1.053 corpi idrici individuati gode di buona salute. Bene anche i fiumi: il 45% si conserva in buono stato ecologico; il 75% presenta acque di qualità sotto il profilo chimico.
Lo stesso non vale per i laghi. Solo il 21% è in buono stato ecologico e meno della metà (il 47%) vanta uno stato chimico accettabile.
L’Italia può però fregiarsi di acque di balneazione pulite e sicure: ben il 99% gode di uno stato qualitativo eccellente. Su questo fronte la principale minaccia è rappresentata dalle specie invasive che stanno insidiando i nostri mari a causa dei cambiamenti climatici e dell’aumento delle transazioni commerciali globali. A preoccupare gli scienziati dell’ISPRA è soprattutto l’invasione dell’alga l’Ostreopsis cf.
Brutte notizie anche per le temperature delle acque, in continua ascesa. Nel 2015 i valori termici sono stati superiori di 1,58°C alla media. Un record senza precedenti dal 1961.
La relazione annuale dell’ISPRA riporta cifre preoccupanti anche per l’esposizione della popolazione all’inquinamento acustico: il 64,3% dei cittadini italiani vive in aree in cui il rumore del traffico supera la soglia di 50 dB(A).

fonte: http://www.greenstyle.it

#People4Soil, un milione di firme per salvare il suolo Ue

È partita l’Iniziativa dei cittadini europei per chiedere alla Commissione di legiferare contro l’eccessiva cementificazione, la contaminazione, l’erosione, la perdita di biodiversità. “L’obiettivo per l’Italia è di 56mila firme” spiega Damiano Di Simine, che coordina la campagna, che ha come scadenza il mese di settembre del 2017
Il Bosco della Moronera, in Brianza, "sacrificato" per far posto all'autostrada Pedemontana lombarda
Il Bosco della Moronera, in Brianza, "sacrificato" per far posto all'autostrada Pedemontana lombarda

Un milione di firme per il suolo. #People4Soil è la voce collettiva dei cittadini europei, e chiedere alla Commissione l’approvazione di un quadro legislativo che tuteli i suoli europei dall’eccessiva cementificazione, dalla contaminazione, dall’erosione, dalla perdita di materia organica e dalla perdita di biodiversità.
La campagna è promossa da 400 organizzazioni di 26 Paesi dell’Unione, 80 delle quali italiane, e passa attraverso una Iniziativa dei cittadini europei (ICE), uno strumento di partecipazione che permette di invitare la Commissione europea a presentare una proposta legislativa. Le firme vengono raccolte sui banchetti e -per il nostro Paese- sul sito www.salvailsuolo.it.
“Come cittadini non siamo titolati a scrivere una Direttiva europea, ma riteniamo importante il riconoscimento del suolo come ‘patrimonio comune’ che necessita di protezione a livello Ue -spiega Damiano Di Simine, di Legambiente, coordinatore della campagna-: siamo convinti che come è avvenuto in passato per temi quali la qualità dell’aria, la qualità dell’acqua o il rischio industriale, anche quello del degrado del suolo richiede una risposta comunitaria”.
Dato che il problema riguarda tutti i Paesi dell’Unione, che perde in media 300 ettari di suolo al giorno, secondo Di Simine “l’Ue deve tornare ad essere la fonte del diritto ambientale, a partire dal riconoscimento del suolo quale ‘bene comune’, all’origine della sovranità alimentare, delle funzioni eco-sistemiche, della biodiversità”.
“Nel 2014 la Commissione europea è stata costretta a ritirare una prima proposta di direttiva in materia di ‘consumo di suolo’, su richiesta di alcuni Stati membri.
Vogliamo impedire che quanto accaduto allora si ripete: l’opposizione della politica è stata recepita in modo silenzioso, senza che nessuno tra i cittadini lo sapesse. Vogliamo sperimentare un modello di partecipazione dal basso alle decisioni della politica europea” sostiene Di Simine. L’obiettivo di un milione di firme è ambizioso, anche se c’è tempo fino a settembre del 2017 per raggiungerlo. “Ogni Paese membro ha un obiettivo nazionale: per l’Italia il ‘quorum’ è di 56mila firme” spiega l’ambientalista, a lungo presidente di Legambiente Lombardia.
One Million People 4 Soil (Firma l’Iniziativa dei Cittadini Europei!)”: guarda il video
Che cosa ne pensa invece della legge contro il consumo di suolo in discussione in Italia, al Senato?
DDS “L’Italia è il Paese dove il dibattito sul suolo è più avanzato, e ciò dimostra una maggiore sensibilità, legata alla vulnerabilità del territorio e al fatto che il consumo di suolo si accanisce su territori con forte valenza turistica, come le nostre coste. Non siamo entusiasti del testo di legge attualmente al vaglio del Senato, in seconda lettura, ma esso dimostra che la politica ha ricevuto il ‘messaggio’. Sappiamo anche, però, che quella legge da sola non sarà efficace, in mancanza di obiettivi stringenti e vincolanti”. Quelli che potrebbe dare l’Ue, come ha già fatto in passato per l’aria o l’acqua. Contribuendo così a migliorare la qualità dell’ambiente in cui viviamo.

fonte: www.altraeconomia.it

Case a rischio, mattoni impastati coi rifiuti

Nel Napoletano 14 manager arrestati. C’è pure un consulente ambientale Blitz nei cementifici. Il titolare della cava: abbiamo fornito pozzolana mista 
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Coi rifiuti avrebbero impastato mattoni. Usando circa 250 tonnellate di pozzolana mista a inerti. Alimentando un affare sporco che sarebbe andato avanti dal gennaio 2014 all’ottobre 2015, movimentando centinaia di migliaia di euro. Sarebbero stati sfornati laterizi che si sbriciolano e non tengono il peso. Coi quali sarebbero state costruite case e ville. Lo scandalo è scoppiato nella martoriata Terra dei fuochi. I rifiuti sarebbero stati scaricati nelle cave di Giugliano, nel Napoletano, e poi la pozzolana sarebbe stata venduta al cementificio Moccia, nel Casertano. Ma anche altrove. Ieri il blitz di carabinieri del Noe e polizia provinciale di Napoli. Quattordici arresti tra imprenditori e loro collaboratori. E altri quattro obblighi di dimora. In totale 39 indagati. Ma sono state eseguite perquisizioni anche in stabilimenti in Sicilia (Catania, Isola delle Femmine) Puglia (Foggia), Basilicata (Matera) e Lombardia (Bergamo). Anche loro avrebbero impastato la miscela scadente.
L’indagine è stata coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura partenopea, dall’aggiunto Filippo Beatrice. L’hanno portata avanti i carabinieri del Noe di Caserta e la polizia provinciale del capoluogo campano. Ma l’operazione è anche una delle ultime che porta la firma del colonnello Ultimo (Sergio De Caprio) e del maggiore Pietro Rajola Pescarini. Tutto è partito da una denuncia anonima protocollata dal Noe Casertano nell’ottobre 2014. Con la lettera c’era anche un dvd col video delle targhe dei camion che trasportavano carichi di pozzolana irregolare destinati alle cave di Giugliano: San Severino e Neos. I carabinieri hanno messo i telefoni sotto controllo, documentato gli incontri tra le persone sospettate e gli spostamenti dei mezzi. E hanno scoperto che nel giro ci sarebbero stati non solo imprenditori, alcuni loro collaboratori-parenti, ma anche trasportatori dei camion e la società Omega che avrebbe dovuto garantire la regolarità dei carichi e invece avrebbe dichiarato il falso. Oltre un centinaio di volte. Infatti le misure cautelari riguardano, tra gli altri, Toni Gattola, titolare della ditta di consulenza ambientale, tre componenti della famiglia Liccardi della Eu.Sa. edilizia, i gestori della cava San Severino ricomposizioni ambientali (Massimo Capuano, Enrico Micillo, Gennaro Pianura), e l’imprenditore della Tevin (Crescenzo Catuogno, detto "Motosega"), e quelli della Neos (Biagio Illiano, Antonio e Luigi Carannante), insieme a collaboratori e dipendenti delle imprese coinvolte nell’indagine. Su Crescenzo Catuogno alcuni collaboratori di giustizia hanno messo a verbale che sarebbe «un uomo del clan Polverino». Ma secondo il giudice le dichiarazioni «non sono idonee a fondare la sussistenza della necessaria gravità indiziaria».
L’8 aprile 2015, Biagio Illante, titolare della cava Neos, chiama la sorella Teresa e ammette: «Abbiamo fornito pozzolana mista a materiale riciclato... questi hanno avuto diciamo dei danni ai mattoni... Siccome là sono unico fornitoreeee ieri sono andato a Benevento e quindi praticamente la cosa è visibile. Si vede».
Teresa: «Ma tu lo sapevi?».
Biagio: «Sì, sì, eeeee».

fonte: http://www.iltempo.it/

Smog, le polveri sottili siamo noi



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La premessa, doverosa, è questa: ma noi che facciamo per ridurre l’inquinamento dell’aria? In attesa che la politica nazionale di questo trasandato Paese si decida a far le cose per bene, e sul serio. Che adotti cioè un’efficace strategia complessiva, strutturale, di riduzione delle emissioni attraverso un piano pluriennale di investimenti e scelte anche controcorrente, finalizzata ad uscire dal sistema onnivoro che ci distrugge distruggendo il Pianeta.
Quali sono le nostre azioni quotidiane che ci permettano di avere non solo la coscienza pulita, ma anche la credibilità per protestare, alzare la voce, pretendere giustamente che istituzioni e governanti facciano finalmente la propria parte?
Io penso che sia tutto qui, il senso di un cambiamento radicale e possibile. Altrimenti non se ne esce. Perché non basta starnazzare al bar o sulle bacheche social di qualche profilo istituzionale che tutto va a rotoli, e che la nostra salute è a rischio. Accontentarsi di puntare il dito e cavarsela con l’italico ritornello che molti canticchiamo ogni giorno del “tanto fa tutto schifo”. Perché dentro quel tutto, eventualmente, ci saremmo anche noi.
Dicono gli esperti che il grosso delle polveri sottili è alimentato da caldaie e auto. Consumi domestici e mobilità privata, insomma. E allora mi chiedo, e chiedo a te che mi stai leggendo: quanto consumi in casa per illuminare e riscaldare/raffrescare il tuo stile di vita? Quanto, di quel consumo, sarebbe riducibile tagliando sprechi, inefficienze ed usi impropri? Quante volte potresti rinunciare all’auto senza che nessun sindaco sceriffo debba importelo con un’ordinanza?
Non sono un ingenuo. Ed è evidente che non bastano le scelte individuali per cambiare un sistema che fonda la sua esistenza (e dissolutezza) in un modello di sviluppo fallito. Serve, per l’appunto, che la politica faccia la sua parte. A tutti i livelli istituzionali, possibilmente remando nella stessa direzione: meno cemento e autostrade, più trasporto pubblico ed efficienza energetica negli edifici pubblici e privati. Autoproduzione di energia per industria e agricoltura.
Ma nel frattempo che facciamo? Per protestare suoniamo il clacson mentre siamo in coda per il centro commerciale? E’ tutta qui la nostra coerenza? Il nostro coraggio?

Marco Boschini

fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it


“Le lotte ambientali nella capitale dei cementifici” su Medicina Democratica

medicina democratica

Nell’ultimo numero della rivista di Medicina Democratica, distribuita in migliaia di copie su tutto il territorio nazionale, è pubblicato un intervento del Comitato “lasciateci respirare” che ricostruisce vent’anni di storia, di tensioni e di mobilitazioni che hanno coinvolto un intero territorio e migliaia di persone. Lo potete leggere nell’allegato.


Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute è l’espressione di un movimento attivo sul territorio nazionale dalla fine degli anni sessanta, nato attraverso un appello sottoscritto da medici, ricercatori, operatori della prevenzione e diversi consigli di fabbrica. Fin dall’inizio MD, si è occupata della salute nei luoghi di lavoro, facendo inchieste e rivendicando l’applicazione delle leggi sulla sicurezza e salute in ogni luogo di lavoro. È ancora oggi formata da medici, ricercatori ed altri tecnici della prevenzione e della sanità, insieme ai più svariati soggetti, cittadini utenti del Servizio Sanitario Nazionale.
MD è impegnata in molti processi per affermare il diritto alla salute dei lavoratori colpiti da malattie e morte a seguito delle esposizioni a sostanze cancerogene. Come nel processo contro l’ex Enichem di Manfredonia e nel processo contro ex Montedison ed ex Enichem di Marghera. Negli ultimi anni si è costituita come parte civile nei processi ThyssenKrupp, Eternit, Clinica S.Rita a Milano e strage di Viareggio a Lucca.
La qualità, la quantità e l’importanza pratica, politica, sociale, culturale e tecnico-scientifica dell’Associazione sono documentati dalla rivista omonima pubblicata a partire dal 1977, nonché dai suoi numerosi supplementi e libri.
Per l’ultimo numero della rivista è stato richiesto e pubblicato un intervento del Comitato popolare “lasciateci respirare” dal titolo “Le lotte ambientali nella capitale dei cementifici” a firma di Francesco Miazzi. 
Ora, per quest’area si sta aprendo un nuovo capitolo, con nuove opportunità.
L’imponente utilizzo di rifiuti nel processo produttivo, autorizzato per la Cementeria di Monselice, pone tutti di fronte ad un impatto inquinante di forte rilievo.
La riconversione delle aree dei cementifici che (probabilmente) saranno definitivamente chiusi nei prossimi mesi a Este e Monselice, obbliga tutti ad affrontare i nodi del recupero ambientale e la promozione di nuove attività in sintonia con la vocazione del territorio, finalizzate in particolare alla ricollocazione dei lavoratori espulsi da questi cicli produttivi.
La sfida più grande sarà quella di recuperare un senso di comunità e di pianificazione condivisa, capace di superare la frattura determinata dalla contrapposizione tra salute e lavoro, ambiente e reddito.
Armonizzare questi fattori è tanto possibile quanto indispensabile.

fonte: http://www.padovanabassa.it/


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25 cose da fare subito per il clima

Serve una svolta radicale dei meccanismi ambientali che ci sovrastano. Servono obiettivi concreti, efficaci nel breve periodo. Ecco una lista degli interventi da considerare essenziali per l’Italia e alcuni principi e criteri operativi. Qualche esempio? Immediata chiusura degli  impianti a carbone, incentivi per il rispamio energetico, interventi per la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, ampliamento delle aree protette, deforestazione zero, promozione di modelli di consumo alimentare sani… Proposte magari incomplete e per alcuni aspetti provocatorie che aiutano tutti però a capire cosa succederà al vertice sul clima di Parigi nei prossimi giorni
Changchun, Cina (fonte huffingtonpost.com)

Nelle ultime settimane il governo italiano dovrebbe aver messo a punto il documento che la Cop21 ha chiesto di inviare prima dell’inizio del vertice di Parigi. Il testo non è a nostra conoscenza e quindi quanto segue è solo esercizio forse potrebbe rivelarsi utile per capire cosa succederà a Parigi e cosa si dovrà fare come movimenti subito dopo.
Non pensiamo quindi sia possibile indovinare cosa intendono fare il governo e le forze politiche in vista di una scadenza così importante, specie dopo i completi fallimenti dei venti incontri internazionali precedenti, però abbiamo ritenuto opportuno formulare degli obiettivi molto concreti e che lascino poco spazio a tentativi di interpretazione o di distorsione da parte di gruppi di interesse economico. I contenuti derivano dalle letture fatte e da alcune esperienze di altri Paesi già da tempo sperimentate (ad esempio in Svezia) e solo in alcuni casi potrebbero essere facilmente corredati da studi di settore approfonditi. Si è però cercato di evidenziare i processi e le metodologie da adottare se si vuole davvero realizzare degli interventi che incidano sui principali meccanismi di danno ambientale, che siano efficaci nel breve periodo e in una prospettiva a più lungo termine e che soprattutto non possano essere tramutati in corso d’opera in attività apparentemente “green” e che siano invece solo fonte di profitti che aggravino ulteriormente la situazione del pianeta.
Si tratta di indicazioni se si vuole a carattere provocatorio, ma che possono permettere di valutare nelle loro dimensioni reali gli interventi che tutti i governi dei 195 paesi partecipanti metteranno sul tavolo delle trattative. Ci è sembrato infatti importante mettere questi elementi di realtà a disposizione di un pubblico più vasto, che si troverà a vivere in un mondo molto più difficile da affrontare di quello attuale, se non riusciremo, nei prossimi pochi mesi o anni, a imprimere una svolta radicale e trasformativa ai meccanismi ambientali che ci sovrastano. Come è abbastanza noto, i rapporti degli scienziati dell’Onu (Ipcc) insistono perché le emissioni di anidride carbonica non determinino i 2 gradi di aumento del riscaldamento globale, considerato il livello minimo per non innescare meccanismi climatici fuori da ogni possibilità di controllo. E invece qualcuno ritiene che questo livello sia stato in realtà già superato, mentre una prima analisi dei documenti presentati da un numero cospicuo di paesi (ma non ancora da alcuni dei paesi maggiori inquinatori) porterebbero a raggiungere in tempi brevi i 2,7 gradi.
Le indicazioni che seguono sono sicuramente incomplete, potrebbero essere sostituite o integrate da altre ugualmente essenziali e urgenti, ma soprattutto dovrebbero entrare a far parte di piani esecutivi che permettano di raggiungere gli obiettivi entro i cinque anni che ci separano dal 2020, iniziando la fase di attuazione nel più breve tempo possibile, escludendo quindi ripensamenti, sostituzioni in corso d’opera, ritardi che non permettano i completamenti entro il quinquennio, considerato dall’Ipcc il periodo essenziale di concentrazione degli interventi, al di la del quale i rischi per l’umanità diventerebbero insostenibili.
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Questa è la lista degli interventi da considerare essenziali per l’Italia, nella speranza che tutti gli altri paesi abbiano formulato interventi significati ed efficaci e siano ugualmente impegnati nella loro realizzazione nel tempo minimo previsto.
1. Immediata chiusura impianti energetici e di altra natura alimentati a carbone.
2. Avviare la chiusura delle miniere di carbone esistenti sul territorio nazionale.
3. Individuare i rifornimenti di carbone dall’estero e sottoporli a misure restrittive.
4. Bonificare con urgenza i 44 siti produttivi maggiormente inquinanti.
5. Individuare le industrie con maggiori emissioni di CO2 e definire un programma di interventi per ridurre drasticamente tali emissioni, anche prevedendo incentivi per le imprese che realizzano subito tali operazioni.
6. Estendere alle imprese con maggiori consumi di energia le misure già previste in alcune regioni per favorire il risparmio energetico, incentivando nel contempo la produzione di impianti e tecnologie innovative a basso consumo energetico e il loro acquisto da parte di tutto il settore industriale e dei servizi.
7. Attribuire la massima priorità agli interventi di rinaturalizzazione sui corsi d’acqua che negli ultimi anni hanno causato i danni maggiori originando esondazioni specie nelle aree urbane.
8. Ampliare in misura consistente le aree protette sul territorio nazionale e quelle marine, garantendo i mezzi per una loro gestione corretta protratta nel tempo, favorendo in particolare il loro adattamento ai cambiamenti climatici.
9. Raggiungere il più presto possibile l’obiettivo netto di zero deforestazione e zero degrado degli ecosistemi forestali e mantenerlo nel tempo.
10. Ripristinare gli ecosistemi e i servizi ecosistemici danneggiati, in particolare le aree un tempo coperte da foreste e boschi, calcolando con precisione il loro apporto al riassorbimento dell’anidride carbonica entro il 2020.
11. Dare la massima priorità al ripristino degli ecosistemi e dei loro servizi essenziali per la sicurezza delle risorse alimentari, idriche ed energetiche, per la resilienza e per l’adattamento ai cambiamenti climatici.
12. Interrompere la continua frammentazione dei sistemi naturali di acqua dolce, garantendo in particolare la ricarica delle falde sotterranee.
13. Ridurre significativamente le immissioni e i materiali di scarto nei sistemi di produzione, aumentando l’efficienza dell’intera filiera delle forniture alimentari, massimizzando l’efficienza energetica, idrica e dei materiali, nonché i processi di riciclo, recupero e riutilizzo, minimizzando le emissioni dei gas ad effetto serra.
14. Ridurre in tempi stretti gli inceneritori oggi funzionanti e soprattutto evitare di costruirne di nuovi.
15. Gestire in maniera sostenibile le risorse ittiche, eliminando la pesca eccessiva delle flotte commerciali, in particolare la cattura indiscriminata di organismi accidentali (il cosiddetto bycatch).
16. Ridurre al minimo le ulteriori conversioni di habitat e la cementificazione dei suoli, verificando rigidamente il rispetto delle destinazioni d’uso, riviste nel senso di un maggiore rispetto dell’ambiente.
17. Ridurre al minimo le dispersioni di acqua, eliminare le captazioni eccessive, applicare rigide misure di sicurezza che migliorino la qualità dell’acqua.
18. Aumentare la percentuale di energie rinnovabili tra le fonti di energia complessiva, fino a raggiungere almeno il 45% entro il 2020, il 60% entro il 2040 e il 100% entro il 2060.
19. Modificare i modelli di consumo energetico, riducendo la domanda di almeno il 20% entro il 2020.
20. Promuovere modelli di consumo alimentare sani, riducendo al minimo lo spreco di cibo da parte di venditori e consumatori e bilanciando l’apporto proteico secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
21. Attribuire la massima priorità a tutte le produzioni biologiche e alle coltivazioni con metodi alternativi più rispettosi per l’ambiente, precisando subito gli obiettivi da raggiungere in ogni regione, per estensione e tipo di prodotto, a partire dalle semine del 2016.
22. Perseguire stili di vita nei nuclei familiari a bassa impronta ambientale e incidere fortemente sui consumi collettivi nelle aree urbane al disopra di una certa dimensione, adottando nel più breve tempo possibile e comunque molto prima del 2020, metodi alternativi di produzione e di consumo nelle abitazioni, nella mobilità e nella gestione dei servizi.
23. Assegnare un valore alla natura, facendo rispettare un sistema onnicomprensivo e socialmente accettato per misurare il valore economico e non economico del capitale naturale, integrando tali indicatori in tutte le scelte, le priorità e le urgenze delle politiche economiche e delle imprese ben prima del 2020.
24. Sostenere e incentivare la conservazione dei beni naturali, la gestione delle risorse e le politiche dell’innovazione, eliminando tutti i sussidi, in particolare quelli che sostengono l’impiego dei combustibili fossili e le pratiche agricole, forestali e di pesca non ecologiche.
25. Aumentare al massimo livello e in tempi brevi tutte le forme di partecipazione informata e dal basso alle decisioni in materia di rispetto dei meccanismi biologici e dell’ambiente nel suo complesso, garantendo la diffusione delle conoscenze in tutte le fasce sociali.
In ogni caso, ci sembra importante sottolineare l’esigenza di mettere a punto e avviare la realizzazione di una organica politica di interventi che il governo italiano si dovrà impegnare a realizzare con tempi, scadenze e modalità organizzative mai prima sperimentate, in particolare adottando modelli di monitoraggio continuo e di controlli sulla efficacia e l’efficienza delle operazioni.
Abbiamo quindi ritenuto utile evidenziare alcuni principi e criteri operativi che dovrebbero presiedere al faticoso e urgente lavoro di selezione e adempimento di impegni che saranno sottoposti alla occhiuta vigilanza delle organizzazioni internazionali. Esse dovranno monitorare il lavoro di una molteplicità di paesi e di enti operativi, e ciò potrà avere effetti globali positivi solo se ciascun centro decisionale avrà realizzato tutti suoi obiettivi.
Anche questi criteri sono puramente indicativi e dovranno essere esplicitamente adottati dal governo responsabile:
a) Per ogni attività o intervento dovranno essere valutate ed esplicitate le capacità di incidere sulle emissioni di gas serra e di modificare i meccanismi di danno ambientale, valutando anche in termini quantitativi i risultati attesi entro il 2020 e in tempi più lunghi.
b) Per ogni attività o intervento dovranno essere valutati in anticipo tutte le conseguenze e gli effetti che possono produrre in altri settori, territori e meccanismi ambientali.
c) Saranno inoltre considerate prioritarie le iniziative che contemporaneamente migliorano le condizioni di vita e la salute di un numero consistente di cittadini.
d) Elemento di priorità sarà anche costituito dalla possibilità di creare un numero significativo di posti di lavoro qualificati con contratti a tempo indeterminato.
e) Altro fattore da tenere presente è la possibilità di far realizzare le attività previste da imprese cooperative, a statuto ordinario o non profit, che non hanno mai danneggiato l’ambiente e che possono continuare ad operare nel massimo rispetto delle esigenze ambientali del territorio.
f) Ogni intervento, anche se di piccole dimensioni, deve rappresentare un primo passo di una strategia di azione di breve periodo, che sia cioè parte di una azione integrata che in pochi anni( 2 o 3), perverrà ad eliminare un settore o una zona ad alto inquinamento.
g) Infine, tutti gli interventi selezionati dovranno essere avviati e completati contemporaneamente nei periodi previsti, in modo da superare una soglia di massa critica che permetta la completa eradicazione dei meccanismi di danno ambientale affrontati.
In pratica, non possono più essere tollerati interventi saltuari, frammentati, sotto dimensionati o lasciati incompiuti, oppure che perseguono un solo obiettivo, lasciando in scopertura ancora una volta le esigenze complessive del pianeta o della popolazione mondiale. Inoltre gli interventi massicci che devono assolutamente essere realizzati nei pochi anni che ci separano dal 2020 – e destinati a bloccare la spirale in aumento dei danni arrecati al clima e all’ambiente – dovranno continuare ad essere realizzati nei decenni successivi per eliminare radicalmente le attività svolte ai danni del pianeta e per metterci in grado di accogliere una popolazione sicuramente in aumento.

Alberto Castagnola
Economista, da sempre attento ai temi ambientali, si definisce obiettore di crescita
fonte: http://comune-info.net

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Lo sviluppo urbano sostenibile

I progetti delle città italiane nell’ambito del programma europeo Urbact III
È possibile gestire e risolvere i problemi che affliggono le nostre città attraverso lo scambio e la cooperazione con le altre città europee. Il programma europeo di cooperazione territoriale URBACT III finanzia infatti i progetti di scambio e apprendimento tra Stati in tema di sviluppo urbano sostenibile, dando la possibilità alle città europee di lavorare insieme per sviluppare soluzioni comuni alle sfide urbane e condividere buone pratiche fra soggetti coinvolti nelle politiche.
A giugno scorso è scaduto il primo bando del programma con oggetto la creazione di reti di città con problemi e bisogni simili a livello urbano, in modo da rafforzare le loro capacità di progettare strategie di sviluppo e piani d’azione integrati. I progetti approvati a seguito di questo bando sono adesso in una fase di sviluppo lunga sei mesi a cui seguono due anni di attività.
In totale sono state 14 le città italiane che hanno avuto accesso alla prima fase di lavoro delle reti da poco approvate, mentre altre città potranno fino a marzo presentare la propria candidatura per unirsi ai lavori dei network già approvati.
Napoli, Genova e Piacenza saranno capofila di tre reti tematiche:
  • Napoli con il progetto 2C/Second Chance per la sperimentazione di nuovi metodi di pianificazione per il riuso di grandi edifici abbandonati nei centri storici. Il progetto vedrà la partecipazione attiva di residenti e stakeholder locali quali attori della rigenerazione urbana, attraverso nuove modalità di finanziamento e organizzazione.
  • Genova con il progetto Interactive Cities sull’uso delle app e social media per favorire la partecipazione civica e nuove forme di interazione tra residenti e pubblica amministrazione.
  • Piacenza con il progetto Disarmed Cities per la riconversione e la gestione sostenibile delle aree militari dismesse e quindi la definizione di strategie comuni per la riqualificazione di ampi pezzi di territorio in disuso.
Le altre città italiane coinvolte nei progetti URBACT III sono:
  • Cesena, nel progetto Agri-Urban sul legame tra produzioni agricole locali e nuovi profili lavorativi;
  • Messina, nel progetto Arrival Cities sulla gestione dei cambiamenti demografici legati ai fenomeni migratori;
  • Torino e Milano, nel progetto BSInno per la promozione di ecosistemi di innovazione sociale nelle città;
  • Forlì, nel progetto Change! che esplorerà le possibilità offerte dai modelli collaborativi per la creazione di nuove economie urbane;
  • Dona di Piave (Venezia), nel progetto CityCentre Doctor sull'innovazione nei piccoli centri;
  • Parma, nel progetto Freight TAILS dedicato alla logistica delle merci nelle aree urbane;
  • Genova nel progetto Gen-Y City per il sostegno agli imprenditori creativi ed innovativi attraverso lo sviluppo di varietà di forme di cooperazione tra scienza, governo locale e affari;
  • Casoria (Napoli), nel progetto Growth by reconversion sul tema della promozione della crescita locale attraverso nuovi processi di pianificazione;
  • Fermo, nel progetto RetaiLink sulle strategie di promozione del commercio al dettaglio;
  • Siracusa, nel progetto TechTown per l'economia digitale come motore della crescita locale;
  • Padova, nel progetto Urban Green Labs sul cambiamento delle abitudini dei cittadini in tema di sostenibilità urbana;
  • Torino, nel progetto URBAN3S dedicato alla smart specialization.

Programma europeo di cooperazione territoriale URBACT IIIA proposito di URBACT III

Questi gli obiettivi principali del Programma:
  • aiutare le città a gestire in modo integrato e partecipativo politiche urbane sostenibili;
  • migliorare la progettazione, nonché attuazione di strategie e piani d'azione urbani integrati e sostenibili;
  • garantire che gli operatori e i decisori aumentino l'accesso alla conoscenza e condividano esperienze ed informazioni sullo sviluppo urbano sostenibile, al fine di migliorare le politiche di sviluppo urbano.
5 gli obiettivi tematici:
  • rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l'innovazione;
  • sostenere il passaggio ad un'economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori;
  • proteggere l'ambiente e promuovere l'efficienza delle risorse;
  • promuovere l'occupazione e sostenere la mobilità dei lavoratori;
  • promuovere l'inclusione sociale e la lotta contro la povertà.
Tre i tipi di reti previste:
  1. Pianificazione di azioni (tipologia di rete che è stata oggetto del bando di giugno scorso)
  2. Implementazione
  3. Trasferimento di buone pratiche

Le tecnologie per gli edifici a consumo quasi zero dai trulli al futuro

La direttiva UE pone la sfida degli edifici a consumo di energia “quasi zero”, gli NZEB. Dalle torri del vento iraniane alla nave polare Fram, le abitazioni passive non sono una novità nella storia, ma nuove tecnologie e obblighi normativi preannunciano una rivoluzione nel costruire.
Alcuni esempi di edifici con consumi bassissimi, definiti “passivi”, si sono visti negli ultimi venti anni.  Ma il cambiamento su larga scala nel settore edilizio arriverà sulla spinta di vincoli normativi.  Ha anticipato tutti il Regno Unito decidendo nel 2006 che dal 2016 tutti i nuovi edifici residenziali avrebbero dovuto essere “carbon neutral”, cioè con emissioni climalteranti uguali a zero. Una misura coerente con l’impegno del paese a ridurre dell’80% la produzione di anidride carbonica entro la metà del secolo.
A questa decisione è seguita una direttiva UE che impone che dal prossimo decennio tutti i nuovi edifici privati europei siano “nearly zero energy” (dal 2019 per l’edilizia pubblica). Una definizione appositamente vaga per consentire ai vari Stati membri di declinarla negli specifici contesti climatici. Secondo la direttiva, “Il fabbisogno energetico quasi nullo dovrebbe essere coperto in misura molto significativa da energia da fonti rinnovabili prodotte in loco o nelle vicinanze". Un obiettivo difficile, ma non impossibile.
Gli ultimi quarant’anni hanno visto un progressivo miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici grazie a normative sempre più rigorose. In Germania, ad esempio, oggi i consumi specifici delle nuove costruzioni sono inferiori di due terzi rispetto a quelli del 1977. Si tratta quindi di accelerare un processo di innovazione già in atto.
L’ultimo sforzo previsto dalla Direttiva è ovviamente il più difficile da raggiungere. La stessa definizione di edificio a consumo energetico quasi zero è al momento al centro delle discussioni di esperti nei vari paesi. Del resto, realizzare a costi ragionevoli edifici con consumi bassissimi e che garantiscano buone condizioni di confort termico sia d’inverno che d’estate non è un esercizio banale. Ma si può fare, come dimostrano alcune migliaia di edifici costruiti negli ultimi anni. L’edilizia nel tempo ha prodotto raffinati esempi di climatizzazione naturale: le torri del vento iraniane, gli insediamenti indiani come la Mesa verde in Colorado, i dammusi di Pantelleria, i trulli pugliesi…
In un passato più recente, la prima “abitazione” a funzionamento passivo in realtà è stata una nave. Si tratta della Fram, costruita nel 1883 per l’esploratore Fridtjof Nansen,  tra l’altro impegnato in attività umanitarie che gli valsero il premio Nobel. La Fram era stata costruita appositamente per le esplorazioni polari. Le superfici interne erano protette da uno strato di lana catramata e altri isolanti naturali posti tra lo scafo e la pannellatura interna, con uno spessore che raggiungeva i 40 centimetri. I lucernai erano protetti da un triplo vetro. C’era perfino un aerogeneratore che faceva funzionare le prime lampade elettriche. Per scaldare gli ambienti era stata installata una stufa, che però veniva accesa solo quando la temperatura scendeva sotto i -22 °C.
Oggi si possono utilizzare, come vedremo, isolanti innovativi, sostanze a cambiamento di fase, “superfinestre”, software capaci di gestire in modo intelligente i flussi energetici. Il Padiglione Italia a Expo 2015, per esempio, è stato  concepito come edificio a energia quasi zero grazie alle prestazioni dell’involucro, al contributo del fotovoltaico e di pompe di calore geotermiche ad elevata efficienza. I fabbisogni di energia utile sono molto contenuti, raggiungendo nella stagione estiva ed invernale rispettivamente 21,3 e 4,2 kWh/m3. La superficie esterna, 9.000 m2, è costituita da pannelli di cemento con proprietà fotocatalitiche, brevettato da Italcementi, in grado di catturare alcuni inquinanti presenti nell’aria trasformandoli in sali inerti e contribuendo così a ripulire l’aria dallo smog.

fonte: http://www.qualenergia.it