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Consumo di suolo: senza interventi costi alle stelle già nel 2030

 









È un costo complessivo compreso tra gli 81 e i 99 miliardi di euro, in pratica la metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza, quello che l’Italia potrebbe essere costretta a sostenere a causa della perdita dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo tra il 2012 e il 2030. Se la velocità di copertura artificiale rimanesse quella di 2 mq al secondo registrata nel 2020 i danni costerebbero cari e non solo in termini economici. Dal 2012 ad oggi il suolo non ha potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana (che ora scorrono in superficie aumentando la pericolosità idraulica dei nostri territori) e lo stoccaggio di quasi tre milioni di tonnellate di carbonio, l’equivalente di oltre un milione di macchine in più circolanti nello stesso periodo per un totale di più di 90 miliardi di km. In altre parole due milioni di volte il giro della terra.

È la situazione attuale e quella futura analizzata dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente nell’edizione 2021 del Rapporto sul “Consumo di Suolo in Italia”. Il Rapporto è stato presentato nel corso di un webinar il 14 luglio. Disponibile anche la video inchiesta dal titolo “Speciale Roma e Milano: neanche il Covid19 ferma il consumo di suolo” promossa da Ispra.

A livello nazionale le colate di cemento non rallentano neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, e ricoprono quasi 60 chilometri quadrati, impermeabilizzando ormai il 7,11% del territorio nazionale. Ogni italiano ha a disposizione circa 360 mq di cemento (erano 160 negli anni ’50).

L’incremento maggiore quest’anno è in Lombardia, che torna al primo posto tra le regioni con 765 ettari in più in 12 mesi, seguita da Veneto (+682 ettari), Puglia (+493), Piemonte (+439) e Lazio (+431).




Nelle aree a pericolosità idraulica la percentuale supera al 9% per quelle a pericolosità media e il 6 % per quelle a pericolosità elevata. Il confronto tra i dati 2019 e 2020 mostra che 767 ettari del consumo di suolo annuale si sono concentrati all’interno delle aree a pericolosità idraulica media e 285 in quelle a pericolosità da frana, di cui 20 ettari in aree a pericolosità molto elevata (P4) e 62 a pericolosità elevata. Le percentuali si confermano alte anche nei territori a pericolosità sismica alta dove il 7% del suolo risulta ormai cementificato.

Consumo di suolo e isole di calore. A livello nazionale superano i 2300 gli ettari consumati all’interno delle città e nelle aree produttive (il 46% del totale) negli ultimi 12 mesi. Per questo le nostre città sono sempre più calde, con temperature estive, già più alte di 2°C, che possono arrivare anche a 6°C in più rispetto alle aree limitrofe non urbanizzate.

Transizione ecologica e fotovoltaico, meglio sui tetti che a terra: solo in Sardegna ricoperti più di un milione di mq di suolo, il 58% del totale nazionale dell’ultimo anno. E si prevede un aumento al 2030 compreso tra i 200 e i 400 kmq di nuove installazioni a terra che invece potrebbero essere realizzate su edifici esistenti. Il suolo perso in un anno a causa dell’installazione di questa tipologia di impianti sfiora i 180 ettari. Dopo la Sardegna è la Puglia la regione italiana che consuma di più con tale modalità, con 66 ettari (circa il 37%).

E con la logistica l’Italia perde ancora più terreno. Invece di rigenerare e riqualificare spazi già edificati, sono stati consumati in sette anni 700 ettari di suolo agricolo e il trend è in crescita. In Veneto le maggiori trasformazioni (181 ettari dal 2012 al 2019, di cui il 95% negli ultimi 3 anni) dovute alla logistica, seguita da Lombardia (131 ettari) ed Emilia-Romagna (119).

fonte: www.snpambiente.it/
 


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Il WWF: «Con i cambiamenti climatici, i virus diventano più pericolosi»



















Esiste un legame strettissimo tra le malattie che stanno terrorizzando il Pianeta e le dimensioni epocali della perdita di natura». A dar l’allarme il WWF, che nei giorni scorsi ha pubblicato un report illustrato — «L’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi» — in cui viene analizzata la stretta correlazione tra l’insorgenza di nuove pandemie e un eccesso di antropizzazione dell’Ambiente naturale. Chiaro il messaggio: virus e batteri, alla base delle più importanti pandemie dell’ultimo ventennio, erano al principio innocui, fino a quando la selvaggia distruzione degli ecosistemi ne ha aumentato la pericolosità e – complice la globalizzazione – la diffusione. Alla base di questa affermazione, spiega ancora il recentissimo report del World Wide Fund for Nature, ci son diversi fattori: l’urbanizzazione massiccia delle città, la deforestazione, l’estensione delle zone di caccia, il commercio di specie selvatiche e il cambiamento climatico. «Tout Se Tient, cioè ogni cosa è collegata a tutte le altre — interviene Grazia Francescato, ex presidente di WWF Italia e dei Verdi —, lo dice il primo comandamento dell’ecologia. Cambiamento climatico ed epidemie non conoscono confini».

«La distruzione degli ecosistemi è la vera minaccia, perché c’è un legame tra quello che facciamo alla natura e l’insorgere di pandemie». Ne aveva sottolineato i rischi anche una ricerca de La Sapienza nel febbraio 2019

Per questo, spiegano gli ambientalisti «sarebbe criminale non mettersi già oggi al lavoro per fermare il surriscaldamento globale: con un pianeta più caldo potrebbero presentarsi malattie anche peggiori del Coronavirus». A gettar luce sulle conseguenze delle attività umane nella formazione di epidemie/pandemia, ci aveva già pensato un recente studio dell’Università La Sapienza di Roma. La ricerca, condotta a febbraio 2019 col coordinamento del prof. Moreno di Marco, ha confermato ciò che già si sospettava: cioè, che il rischio di insorgenza di pandemie non deriva tanto dalla presenza di aree naturali o di animali selvatici, quanto dalle modalità in cui le attività antropiche influiscono su queste aree e su queste specie. Da qui, l’appello a un nuovo modello di crescita sostenibile, che tenga conto delle necessità del Pianeta. «Non si può dire con certezza, per ora, quale tipo di legame ci sia tra coronavirus e climate change — riprende Francescato —. Ma che ci sia una interconnessione tra cambiamento climatico e diffusione delle malattie infettive non è un mistero: da anni, numerosi rapporti di esperti internazionali lo denunciano».

La mancanza di coscienza ecologica costa cara: in Cina ha causato un deficit commerciale di 7 miliardi e un significativo crollo dell’export. A lungo termine, conterà sempre più investire nella tutela degli ecosistemi

In un’intervista alla rivista Vita, Francescato ha ricordato che «recentemente Giuseppe Miserotti, membro dell’Associazione Medici per l’Ambiente (ISDE), ha evidenziato come i picchi delle epidemie diventate più famose, come per esempio la SARS e l’influenza Aviaria nel 2003 e l’influenza Suina nel 2009, si siano verificati in corrispondenza di picchi di temperature di almeno 0,6 o 0,7 gradi oltre la media. Viste le temperature elevate degli ultimi periodi non c’è da stare sereni». E i picchi di temperature sono strettamente connessi con l’effetto serra alimentato dalle attività umane. Ad oggi il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo dall’Uomo, ricorda la World Wildlife Foundation, mentre la popolazione umana è raddoppiata negli ultimi cinquant’anni. La mancanza di coscienza ecologica costa cara anche all’economia mondiale. Alla sola Repubblica Popolare Cinese, il Covid-19, che ha avuto come primo focolaio la città industriale di Wuhan (nell’Hubei), ha causato un deficit commerciale di 7 miliardi e un significativo crollo delle esportazioni. Investire nella tutela degli ecosistemi, quindi, si rivela un’azione fruttuosa a lungo termine.

Ilaria capua: «Covid-19 è figlio del traffico aereo ma non solo». La vita degli uomini nelle città con periferie sovraffollate e degradate crea habitat ideali per la diffusione dei virus

«Covid-19 è figlio del traffico aereo ma non solo: le megalopoli che invadono territori e devastano ecosistemi creando situazioni di grande disequilibrio nel rapporto uomo-animale», ha scritto la virologa Ilaria Capua sul Corriere della Sera. Le città occupano solo il 3% della superficie del pianeta, ma ospitano quasi il 60% della popolazione mondiale, che consuma il 75% delle risorse naturali. Molte di queste città, sovrappopolate, chiosa lo studio del WWF, versano in condizioni igieniche precarie. «Le periferie degradate e senza verde di tante metropoli tropicali si trasformano nell’habitat ideale per malattie pericolose». I mercati delle metropoli, specialmente in Africa e Asia, che incontrano un’alta domanda della popolazione, spacciano spesso tutta la fauna predata: animali selvatici vivi, scimmie e tigri, serpenti, pangolini, pipistrelli (da cui avrebbe avuto origine il successivo spill-over del SARS-CoV-2 all’Uomo) favorendo conosciute e sconosciute zoonosi. A condire il tutto, c’è il Climate Change perché, spiegano dal WWF, «tutti i virus e i batteri prediligono l’umidità delle nuove condizioni climatiche».

Perché la minaccia al Pianeta ci fa meno paura

Perché allora non aggredire il problema, in via cautelativa, con misure drastiche quanto quelle prese per fronteggiare l’emergenza da nuovo Coronavirus? «La differenza è nel tempo. Il fenomeno del climate change — con il surriscaldamento globale, lo scioglimento die ghiacci artici, l’espansione termica degli Oceani — ha tempi più lenti del Coronavirus che invece in breve ha raggiunto una fase acuta che tocca direttamente la salute delle persone. Il Coronavirus viene percepito come una emergenza immediata, non procrastinabile, nei cui confronti bisogna prendere delle misure urgenti». Per quanto riguarda il fenomeno dei cambiamenti che minacciano il Pianeta, invece, «la percezione è quella di avere ancora tempo per intervenire, anche se non è detto che il tempo a disposizione sia ancora molto», sostiene Anna Oliverio Ferraris, già ordinario di Psicologia all’Università La Sapienza di Roma e autrice del libro Psicologia della paura (Bollati Boringhieri). Insomma: è tutta questione di tempo. E chi lo ha, non lo aspetti.

fonte: www.corriere.it

Antropocene, l’epoca umana. Al cinema il docufilm che racconta come l’uomo ha trasformato la Terra

Il 19 settembre arriva al cinema il documentario Antropocene, l’epoca umana. Una visione provocatoria dell’impatto che l’attività umana ha avuto sul pianeta








Urbanizzazione, industrializzazione, sfruttamento intensivo delle risorse naturali, deforestazione, bracconaggio, inquinamento. Sono solo alcuni dei più devastanti processi messi in atto dall’uomo a discapito del suo stesso pianeta. Il documentario canadese Antropocene, l’epoca umana (in sala dal 19 settembre) li passa in rassegna nei suoi 87 minuti, fotografando lo stato attuale della Terra e mostrando alcune delle sue più profonde ferite. Inserito in un progetto multimediale più ampio, il film è stato diretto dalla coppia di cineasti Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier (moglie e marito) e dal noto fotografo Edward Burtynsky. Un team che, grazie alla lunga esperienza e all’impegno sui temi ambientali, ha saputo dare vita a un’opera dall’impatto visivo eccezionale.

Per quattro anni i registi hanno viaggiato per il mondo, attraversando sei continenti e 20 Paesi, per immortalare la maestosità ferita di una natura drasticamente deturpata dall’azione umana. Immagini di una nuova epoca geologica: quella che gli studiosi chiamano Antropocene, l’epoca umana (dal greco ánthrōpos “uomo”).
















Antropocene, l’impronta umana cambia la geologia

Secondo geologi e scienziati del gruppo di lavoro Anthropocene oggi ci troviamo a vivere in una nuova fase della linea geologica del tempo, chiamata, appunto, Antropocene.

Collocata dopo l’Olocene (iniziato 11.700 anni fa) l’epoca umana sarebbe iniziata a partire dalla metà del XX secolo, quando l’umanità ha iniziato a mettere in atto processi che hanno provocato cambiamenti duraturi e talvolta irreversibili. La tesi degli studiosi, dunque, è che l’uomo, ospite su un pianeta di oltre 4,5 miliardi di anni, abbia portato (in diecimila anni di civiltà moderna) l’ecosistema oltre i suoi limiti naturali, trasformandosi da partecipante alla vita sulla Terra ad agente “in grado di influenzare l’ambiente e i suoi processi più di tutte le altre forze naturali combinate”. Nel film Antropocene, l’epoca umana cerca di restituire visivamente gli effetti di questo impatto.

La trama e i luoghi del documentario

Per realizzare il loro progetto e dimostrare questa tesi, i tre registi hanno viaggiato quattro anni intorno al mondo, immortalando immagini che parlano da sole. Scenari surreali capaci di scuotere le coscienze, come nelle intenzioni dei filmaker, consapevoli che “Il mondo sta cambiando a una velocità tale che è fondamentale comunicarlo nel modo più potente possibile al maggior numero di persone possibile”.
Miniere fosfato Florida
Le miniere di fosfato in Florida. Le quantità di fosfato (azoto e potassio) nel terreno sono raddoppiate nell’ultimo secolo. Usati come fertilizzanti essi hanno causato il più grande cambiamento nel ciclo nutrizionale dell’ecosistema in 2,5 miliardi di anni. © Burtynsky

Dall’Africa alla Siberia, bracconaggio ed estrazione

In questo excursus, Antropocene ci porta nella riserva di Ol Pejeta, in Kenia, dove si tenta di preservare l’esistenza di rinoceronti ed elefanti, messa in serio pericolo dal bracconaggio. Qui assistiamo allo straziante rituale della cremazione di migliaia di zanne di elefante, sottratte ai sanguinosi bottini della criminalità. Un funereo falò che diventa il simbolo del documentario stesso, raccontando tutta la miseria e il paradosso dell’avidità umana. Un’avidità che stermina e distrugge e a cui solo l’uomo stesso può rimediare, invertendo la rotta delle proprie azioni. Dall’Africa ci spostiamo a Norilsk in Siberia, uno dei luoghi più inquinati al mondo e noto come città del nichel, in cui tutto ruota attorno all’industria dell’estrazione mineraria.

Dalle cave di marmo di Carrara alle miniere di lignite in Germania

Da lì si va in Europa, in luoghi dove l’intervento umano ha ormai irrimediabilmente mutato l’aspetto della superficie terrestre, come le cave di marmo di Carrara, dove oggi le macchine riescono a strappare alla montagna in un giorno quello che una volta ne richiedeva manualmente almeno quindici. Ma è in Germania che diventiamo spettatori di uno dei momenti più sconvolgenti del film, quando nel paesino di Immerath una graziosa chiesa risalente alla fine del XIX secolo viene completamente abbattuta dalle ruspe, per fare spazio alla miniera di lignite, che ormai dilaga in tutta la cittadina. Qui i macchinari più grandi al mondo lavorano incessantemente, trasformando profondamente la superficie terrestre.
Barriera corallina Australia
La barriera corallina è la casa di oltre il 25 per cento di tutte le specie marine. L’acidificazione degli oceani e il riscaldamento globale potrebbe distruggerla entro la fine del XXI secolo. © Burtynsky

Dalle barriere frangiflutti cinesi ai giacimenti di litio in Cile

Il film prosegue trasportandoci lungo le barriere frangiflutti in cemento, edificate sul sessanta per cento delle coste cinesi, per arginare l’innalzamento dei mari, dovuto ai cambiamenti climatici, per poi condurci nelle profondità psichedeliche delle miniere di potassio nei monti Urali in Russia. Qui la città industriale di Berezniki era balzata agli onori delle cronache qualche anno fa per le enormi doline che, aprendosi nel terreno, hanno iniziato a inghiottire interi edifici.
Una delle visioni più surreali è quella delle immense vasche di evaporazione del litio nel deserto di Atacama, in Cile. Qui sorge il più grande giacimento di questo leggerissimo metallo, divenuto fondamentale per le moderne batterie di cellulari e strumenti tecnologici. Gli obiettivi dei registi ci conducono anche nelle profondità oceaniche della grande barriera corallina australiana, sempre più minacciata dall’acidificazione dei mari.
A chiudere il cerchio del devastante impatto dell’uomo sulla Terra il film ci accompagna a Dandora, in Kenya, tra le montagne di rifiuti di una delle più grande discariche del mondo, dove ogni giorno centinaia di disperati si guadagnano da vivere immersi nella spazzatura.
registi Antropocene
Per realizzare il film i registi hanno viaggiato quattro anni per il mondo, attraversando sei continenti e 20 Paesi © Anthropocene Film Inc.

Anthropocene, un progetto multimediale

Il film Antropocene, l’epoca umana ha debuttato al Toronto Film Festival 2018 ed è stato definito dall’Hollywood Reporter come “un viaggio visivo senza precedenti” e fa parte di un progetto multidisciplinare artistico e scientifico più ampio. Ne fa parte anche la mostra Anthropocene, attualmente allestita al Mast di Bologna e visitabile fino al 5 gennaio 2020. Il documentario rappresenta il terzo e ultimo capitolo di una trilogia, iniziata nel 2006 con Manufactures Landscapes, e proseguita nel 2013 con Watermark, dedicata dai registi proprio ad analizzare la fase più critica dell’attuale processo geologico e dell’impronta umana sulla Terra. In versione originale il film è narrato dal premio Oscar Alicia Vikander, mentre nella versione italiana è stata Alba Rohrwacher, profondamente colpita dal film, a voler prestare la propria voce.
Antropocene è stato selezionato da importanti kermesse cinematografiche, come il Sundance e il festival di Berlino, mentre in Italia  a Cinemambiente ha recentemente vinto il premio del pubblico.
Il 12 settembre si terrà un’anteprima del film a Milano (ore 19,40 presso CityLife Anteo in occasione del Milano Green Forum), mentre il 18 settembre è in programma un’anteprima a Torino, presso il Cinema Massimo.
Il 19 settembre Antropocene, l’epoca umana arriverà nelle sale italiane
fonte: www.lifegate.it

Riciclare i terreni, l’approccio sostenibile allo sviluppo urbano

Le città europee crescono rapidamente consumando 1065 km2 di suolo l’anno. Ma l’approccio dell’economia circolare può rendere sostenibile anche l’urbanizzazione










Il degrado del suolo unitamente all’incontrollata cementificazione stanno ipotecando il futuro di molti ecosistemi naturali. Il rischio si ripercuote direttamente sui servizi che essi oggi assicurano, come la fornitura alimentare, la gestione idrica o la regolazione del clima. Ma con una popolazione mondiale che si sta rapidamente spostando dalle aree rurali a quelle urbane è necessario trovare un approccio allo sviluppo che permetta di accogliere l’incremento demografico senza danneggiare l’ambiente.

Una soluzione potrebbe essere quella proposta dall’European Environment Agency (EEA) nel suo report Land recycling in Europe’. Il documento mostra come riciclare i terreni, ad esempio attraverso la riconversione dei siti abbandonati o la trasformazione di strade e parcheggi in spazi verdi, si possa ottenere un impatto positivo su entrambi i fronti.

L’AEA presenta alcune metodologie per misurare la portata e l’impatto della riqualificazione e densificazione dei terreni precedentemente sviluppati, sia con un obiettivo economico diretto, come la costruzione di abitazioni, che con quello di migliorare la loro situazione ecologica, creando ad esempio aree urbane verdi o decontaminando il suolo inquinato. In media, il riciclo dei terreni in Europa è aumentato, ma i livelli restano bassi rispetto al consumo di suolo. Sulla base dei dati satellitari Copernico, la terra recuperata sulla quota totale di terreno consumato in tutti gli Stati dello Spazio Economico Europeo e i paesi cooperanti (SEE-39) è aumentata da circa 2.0-2.2% del 1990-2000 a circa il 2,7-2,9% nel 2006-2012. Tuttavia, i tassi variano considerevolmente da paese a paese e negli ultimi sei anni presi in considerazione dall’indagine, le città europee si sono mangiate la terra un tasso medio annuo di 1065 km 2.

Il rapporto confronta anche diversi modelli di riciclaggio sulla base di una valutazione del ciclo di vita degli impatti ambientali di sviluppo e dell’utilizzo di una superficie. Dalla valutazione risulta che portando i suoli precedentemente costruiti ad nuovo e più efficiente utilizzo è in grado di determinare maggiori impatti positivi rispetto ad esempio all’impiego dei suoli agricoli nello sviluppo urbano.

fonte: www.rinnovabili.it