“Non impicciarti di quello che non ti riguarda se vuoi
evitare problemi. Anche tua madre potrebbe sparire se tu continui a
parlare”. Per Jakeline Romero, attivista ambientale colombiana, questo è
l’ennesimo messaggio di una lunga serie di minacce da quando la donna,
che appartiene alla tribù indigena degli Wayúu, ha iniziato a denunciare
lo scempio che si sta consumando nella penisola de La Guajira, nel nord
est della Colombia.
Si tratta della più grande miniera a cielo aperto
dell’intera America Latina, di proprietà della compagnie inglesi
Glencore, BHP Billiton e Anglo-American. Nel corso degli ultimi
trent’anni i lavori di ampliamento della miniera hanno costretto
migliaia di indigeni a lasciare le proprie case. Inoltre gli indigeni
Wayúu denunciano da tempo la riduzione e l’inquinamento dell’acqua, che
ha provocato severe siccità nella regione. “Ci minacciano per farci
tacere. Ma io non posso stare in silenzio di fronte a quello che sta
succedendo alla mia gente -dice Jakeline Romero-. Noi combattiamo per la
nostra terra, per la nostra acqua, per le nostre vite”.
Jakeline è una dei tanti leader indigeni che subiscono
minacce in Colombia. Una battaglia, quella per la tutela dell’ambiente,
che miete ogni anno decine di vittime. Secondo l’ultimo rapporto di
“Global Witness” – associazione impegnata nella tutela dei difensori
dell’ambiente – sono almeno 37 i concittadini di Jakeline che hanno
perso la vita per difendere l’ambiente in cui vivono. Almeno la metà,
appartenevano a popoli indigeni.
Il report di “Global Witness”
disegna uno scenario allarmante: sono almeno 200 (poco meno di quattro a
settimana) gli attivisti per la difesa dell’ambiente uccisi nel 2016.
Un dato in crescita rispetto al 2015 (le vittime censite furono 185) e
che si è allargato su ben 24 Paesi contro i 16 registrati l’anno
precedente. “Questi dati ci raccontano una storia preoccupante –riflette
Ben Leather, attivista di “Global Witness”-. La battaglia per difendere
l’ambiente si sta facendo sempre più dura e il costo si può contare in
vite umane”.
Tra le vittime del 2016, il nome più noto è certamente
quello di Berta Cáceres, uccisa il 2 marzo 2016 a colpi di pistola nella
sua casa di La Esperanza (Honduras). Berta – madre di quattro figli –
era impegnata da anni nella difesa dei diritti degli indigeni lenca e
delle loro terre contro lo sfruttamento minerario ed energetico delle
grandi aziende. La sua ultima battaglia – quella contro la costruzione
della diga “Agua Zarca” – le è costata la vita. Nel corso del 2016 nel
Paese sono stati uccisi 14 attivisti, facendo dell’Honduras il paese più
pericoloso dell’ultimo decennio. Per i difensori dell’ambiente.
A pagare il prezzo più alto di questa guerra sono i popoli
indigeni: il 40% delle vittime censite da “Global Witness” sono proprio
gli appartenenti a queste popolazioni. Una minoranza particolarmente
vulnerabile, che subisce i maggiori danni dalla distruzione
dell’ambiente a seguito dell’espropriazione delle terre, della
costruzione di dighe o miniere. Progetti che solitamente vengono imposti
alle popolazioni locali senza che questi possano dare un consenso e che
– quando protestano- sono vittime anche della violenza della polizia.
L’America Latina resta il posto pericoloso per i difensori
dell’ambiente (il 60% delle vittime censite si registra qui) con picchi
preoccupanti in Brasile (49 morti, quasi un quarto del totale) e in
Colombia dove le aree che fino a poco tempo fa erano sotto il controllo
della guerriglia ora sono nel mirino di compagnie estrattive e
paramilitari.
L’India, invece, ha visto triplicare il numero delle
persone uccise a seguito di violente repressioni della polizia: dalle 6
uccisioni registrate nel 2015 alle 16 del 2016. Chi protesta contro i
crimini ambientali, come gli indigeni Dongria Kondh, viene bollato come
un pericoloso estremista, che si oppone allo sviluppo economico del
Paese. “Global Witness” ha documentato un preoccupante aumento della
repressione da parte della polizia: poco meno della metà delle vittime
censite in India, infatti, ha perso la vita durante manifestazioni di
protesta.
fonte: https://altreconomia.it/