Roma brucia e non lo sa

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I primi roghi tossici li abbiamo visti da un divano. Sarebbe stato più probabile avvistarli dall’A24, l’autostrada Roma-L’Aquila che s’inoltra nella periferia est della capitale fino a costeggiare Tivoli. Ma ne stavamo parlando seduti a casa del nostro “anello di fumo”, il nome che avremo poi dato all’inchiesta che nel 2014 ha vinto il Premio Roberto Morrone. Questa premessa vuole descrivere una condizione: capisci cosa significa e perché parlare di “Terra dei Fuochi romana” solo quando avverti il suo odore acre di plastica bruciata.
Come succede a Tor Sapienza dalla terrazza di Roberto Torre, del comitato di quartiere, che ha collezionato innumerevoli immagini di enormi fumi neri provenienti dall’adiacente campo rom (prima autorizzato, ora abusivo) di Salviati. “Sono venuto a vivere qui perché era una periferia residenziale, una zona per bene. Ora siamo una discarica!”, dice. Parliamo con lui pochi mesi prima che Tor Sapienza diventi un nome noto, nelle parole di alcuni abitanti già si intuiva il furore che rasentava il razzismo. Una rabbia simile a quella che spinge le manifestazioni a Case Rosse, a ridosso del villaggio attrezzato (autorizzato) di Salone.
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Sono i rom che bruciano i rifiuti, sono loro i colpevoli: è facile fare questa deduzione alzandosi dal divano e affacciandosi alla finestra. L’Italia, Roma in particolare, rappresentano una anomalia europea per la gestione della comunità rom e sinti essendo l’unico paese in cui esistono “villaggi” istituzionali. L’amministrazione capitolina, come dimostrato dalle ricerche dell’Associazione 21 Luglio, spende in media 20 milioni di euro per la cosiddetta ‘emergenza’ rom. Perché spendere tanti soldi segregando una comunità? Castel Romano, uno degli otto campi autorizzati, è stato costruito nel 2012 lungo la Pontina, strada ad intensa percorrenza che collega Roma al mare. La fermata dell’autobus Cotral che avvicinava gli abitanti del campo alla città è stata abolita perché i passeggeri si lamentavano della loro puzza. Rom di etnie rivali sono costretti a vivere a contatto e al contempo privati della possibilità di integrarsi con gli autoctoni: la criminalità si nutre dell’isolamento. Specialmente se la maggior parte degli investimenti pubblici era destinata, fino allo scoppio di Mafia Capitale, alla vigilanza dei campi.
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La cooperativa 29 giugno, anch’essa balzata agli onori delle cronache in poco tempo, sorvegliava Castel Romano mentre Risorse per Roma Spa, meno nota ma anch’essa licenziata, aveva in mano il villaggio attrezzato de La Barbuta a Ciampino dove ci  conduce Eros D’Ignazio, sinto italiano. In questo appezzamento appartenuto alla Banda della Magliana, Eros ci è arrivato con l’ex sindaco Francesco Rutelli durante la prima ‘emergenza’ rom. “Sto qui da quasi venti anni, quando hanno costruito il nuovo campo nel 2012 sono diventato abusivo. Ma io non mi muovo: so che raggiunti i venti anni posso reclamare la proprietà di questo terreno”, diceva. Nonostante la roulotte dove viveva fosse circondata da pile di rifiuti: frigoriferi sezionati, quintali di scarti edilizi e resti di lavori stradali. “Si bruciano i rifiuti per cercare il rame e i materiali ferrosi, ma non siamo solo noi a portare queste cose”, spiega. Eros ha iniziato a fare il raccoglitore di ferro dopo aver smesso come giostraio.


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Con la crisi, è diminuita l’attività industriale e le aziende hanno iniziato a chiedere ad Eros ed i suoi colleghi di portare via, insieme ai metalli, altri rifiuti che costava troppo smaltire regolarmente: rifiuti speciali, plastiche, pneumatici, amianto. Così, Eros si è ammalato di un doppio tumore che l’ha ucciso nel luglio del 2015. Ripeteva che i versamenti illeciti non erano fatti solo dai rom. “Danno 20 euro e lasciano scaricare qualsiasi cosa”, confermava un suo vicino indicando il container della vigilanza. Le responsabilità esterne risultano ancora più evidenti vicino Tivoli, dove solo la forte volontà dei cittadini ha fermato, dopo anni, i fumi tossici che arrivavano fino all’A24. Tuttora sono visibili dall’autostrada i resti di un cimitero di frigoriferi, cubi di amianto impacchettati sparsi tra le rovine dell’ex polverificio Stacchini. Una tale quantità di rifiuti non può essere stata portata dai rom che vivono qui dentro”, affermava il presidente locale di Legambiente Gianni Innocenti. Non appena la lista civica uscita vincitrice dalle elezioni del 2014 ha messo le telecamere all’ingresso, i rifiuti hanno infatti smesso di entrare.
Bisogna uscire di casa per comprendere la dimensione di questi illeciti e gli interessi che li celano. I giri vorticosi di questa inchiesta sono ora racchiusi nel libro “A ferro e fuoco”, edito da Kogoi Edizioni. L’obiettivo resta tagliare la cortina di fumo che circonda il governo e lo sfruttamento dei campi rom (la prossima presentazione è il 9 aprile alla libreria “Infinite Parentesi” di Castelverde).

Valentina Vivona

fonte: http://comune-info.net/
Per maggiori informazioni: controluce.collective@gmail.com