Lo dice un rapporto dell’IFAD, secondo cui i saperi dei popoli
indigeni possono giocare un ruolo nelle strategie di mitigazione e
adattamento ai cambiamenti climatici
Per combattere il
riscaldamento globale dobbiamo allearci ai cacciatori semi-nomadi del
nord del Messico, agli agricoltori del Bhutan e ai Quechua delle Ande. A
sottolinearlo è The Traditional Knowledge Advantage (“il vantaggio del
sapere indigeno”), il report dell’International Fund for Agricultural
Development (IFAD) che analizza il ruolo che i saperi dei popoli
indigeni possono giocare nelle strategie di mitigazione e adattamento ai
cambiamenti climatici.
Secondo le stime delle Nazioni Unite, al mondo ci sono 370 milioni di
persone appartenenti a popoli indigeni. Donne e uomini che vivono o
traggono il loro sostentamento da una superficie pari al 22% della
terra, in un’area che ospita l’80% della biodiversità del nostro
pianeta.
Queste popolazioni sono spesso vittime di discriminazioni da parte
dei governi centrali e devono il loro sostentamento all’agricoltura,
alla pesca, alla pastorizia e alle attività ad esse collegate. Uno stile
di vita antico, che oggi però è minacciato dalle conseguenze del
climate change, ovvero siccità, uragani, tifoni, inondazioni,
innalzamento del livello del mare e aumento delle malattie infettive. Ma
sebbene le comunità indigene siano spesso tra le più povere, le loro
tradizioni e tecnologie possono insegnare molto al resto del mondo. Le
attività sostenute dall’IFAD mirano proprio a diffondere e preservare
questo sapere, mettendolo al centro dei progetti di sviluppo a sostegno
dei popoli indigeni.
Le vallate della Bolivia sono sempre state caratterizzate da una
grande variabilità climatica, luoghi dove gli elementi ambientali,
sociali e culturali degli ecosistemi sono strettamente correlati e
interdipendenti. Un equilibrio fragile, dove qualsiasi cambiamento in
uno dei componenti mette a repentaglio l’intero sistema. Per questo
nasce il Pachagrama (“madre terra”), un registro che raccoglie
bio-indicatori come il comportamento degli animali, l’andamento delle
piogge o le informazioni su come e quando seminare. Le comunità indigene
raccolgono e condividono questi dati in modo da avere a disposizione le
migliori idee derivanti da millenni di esperienza (letteralmente) sul
campo. Ma questo sistema serve anche a diffondere nuove pratiche che ben
si adattano ad altre realtà, come ad esempio le quthaňas, un sistema
utilizzato dagli Aymara per raccogliere acqua grazie a piccole dighe e
bacini, che permettono di far fronte alla siccità dovuta ai cambiamenti
climatici. Oppure il sistema chiamato aynokas, che prevede la
partecipazione di tutta la comunità alla coltivazione di piante diverse
ogni anno in sezioni diverse degli spartiacque.
Le isole del Pacifico sono alcune delle zone maggiormente minacciate
dall’innalzamento dei mari, dai cicloni e dagli tsunami. Per contrastare
questi fenomeni nei villaggi Babanakira delle Isole Salomone si
utilizzano soprattutto piante autoctone. Gli abitanti dei villaggi
infatti curano la vegetazione della costa per proteggere le case dalle
maree e diversificano le colture per far fronte a periodi di carestia. I
loro alleati contro la fame sono inoltre colture che sopravvivono a
periodi con piogge scarse, come la kumala, un tipo di patata dolce, il
taro gigante palustre e la manioca selvaggia. Oppure le piante
selvatiche napalanku, ialken-apen e karwatu, veri e propri sostituti
delle verdure in caso di raccolti insufficienti.
Le strategie dei popoli indigeni di tutto il mondo sono un vero e
proprio prontuario per l’adattamento all’innalzamento delle temperature:
dai sistemi di scambio di semi autoctoni dall’alto valore nutritivo, al
cambio delle strategie di caccia per far fronte alla riduzione delle
popolazioni di certi animali. Ma come ricorda il report dell’IFAD,
raccogliere questo sapere non basta: occorre infatti supportare i popoli
indigeni rispettando il loro stile di vita, riconoscendo i loro diritti
alle terre e territori in cui vivono (incluso lo sfruttamento delle
risorse naturali), e ascoltando la loro voce quando vengono prese
decisioni politiche a livello regionale, nazionale e locale.
Nel dibattito globale sul clima la voce dei popoli indigeni sta
trovando sempre più spazio. Basti pensare che mentre nel protocollo di
Kyoto del 1997 non fu inserito un singolo riferimento a questi popoli,
nell’accordo di Parigi dell’anno scorso ce ne sono cinque.
“Speriamo di continuare in questo solco. Anzi: speriamo di migliorare”
dice a La Stampa Antonella Cordone, esperto tecnico per i popoli
indigeni e questioni tribali dell’IFAD. “Occorre cambiare il paradigma e
occorre mettere veramente al centro del dibattito il contributo che i
popoli indigeni possono dare con i loro valori e i loro saperi, non solo
alle nazioni nelle quali vivono, ma all’intera umanità, ovvero le loro
pratiche ancestrali, la loro visione del mondo in cui tutto è
interrelato, in cui le piante e gli animali sono fratelli e sorelle
degli uomini e in cui il rapporto con la natura e con gli esseri umani
si basa sulla reciprocità, in una visione di trasmissione del patrimonio
ambientale alle generazioni future”. “Inoltre” aggiunge, “i popoli
indigeni del mondo possono essere la forza trainante degli obiettivi di
sviluppo sostenibile fissati dall’agenda 2030”.
fonte: http://mauriziopallante.it