Le navi europee giunte a fine vita continuano a essere smantellate illegalmente sulle spiagge dell’Asia meridionale. Il fenomeno è globale e in crescita durante il 2016: l’anno scorso ben 668 imbarcazioni, cioé l’87% di tutta la stazza lorda smantellata globalmente, sono state smontate sulle zone intertidali di paesi che non rispettano standard minimi di protezione ambientale e sono noti per lo sfruttamento del lavoro minorile. In Europa, i paesi che fanno più uso di questa pratica sono Germania e Grecia, ma anche l’Italia non è estranea al riciclo delle navi condotto in maniera sospetta.
Lo afferma nel suo report annuale la NGO Shipbreaking Platform,
una coalizione globale di 19 associazioni in difesa dell’ambiente, dei
diritti umani e del lavoro, che opera per porre fine allo smaltimento
inquinante e pericoloso delle imbarcazioni a fine vita.
“L’industria navale non é capace di assicurare pratiche sostenibili di riciclaggio – commenta Patrizia Heidegger, direttore esecutivo della NGO – L’anno passato abbiamo assistito non solo ad un aumento sul mercato di pratiche di smantellamento pericolose e inquinanti, ma abbiamo visto addirittura un numero record di vascelli di proprietà europea (UE) sulle spiagge dell’Asia meridionale : uno stupefacente 84% di tutti i vascelli a fine vita è finito in India, Pakistan, Bangladesh. I loro cantieri sulle spiagge sono ben noti, non solo per non rispettare le norme internazionali di protezione ambientale, ma anche per non rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e le norme del diritto internazionale sul commercio dei rifiuti”
Germania e Grecia maglia nera nel riciclo delle navi
Gli armatori tedeschi hanno portato 97
vascelli sulle spiagge dell’Asia meridionale, su un totale di 99 navi
vendute per essere demolite. In pratica il 98% di tutte le navi tedesche obsolete é finito su una spiaggia.
Di queste, ben il 40 % è finito in Bangladesh, dove secondo
Shipbreaking Platform si trovano i cantieri con le peggiori condizioni
di lavoro e di smaltimento. Tra gli armatori coinvolti figurano Hansa
Mare, Alpha Ship, F.Laeisz e Peter Doehle, Dr Peters, Köning & Cie,
Norddeutsche Vermöge e Rickmers.
Ma in termini assoluti è la Grecia a finire in cima alla lista dei paesi meno attenti a un corretto riciclo delle navi. Atene ha fatto arrivare sulle spiagge dell’Asia meridionale 104 navi in tutto.
Da quando, nel 2009, la ONG ha cominciato a raccogliere dati, le
società navali greche sono sempre state in cima alla lista dei
proprietari che scelgono uno smantellamento antiecologico e rischioso.
Basta un “cash buyer”
Nel 2013 l’UE ha approvato un regolamento
che impone precisi standard di riferimento a tutta la filiera europea
coinvolta nel settore del riciclo navi e definisce i requisiti cui gli
operatori si devono attenere. Quello dei rifiuti provenienti dalle navi
giunte a fine vita è un flusso significativo nel quale confluiscono numerose sostanze pericolose:
se da una parte, infatti, l’acciaio è il principale materiale estratto,
dall’altra nelle operazioni di riciclo sono coinvolte anche altre
sostanze, quali l’amianto e i metalli pesanti per
esempio, le cui caratteristiche impongono adeguati standard di sicurezza
per i lavoratori e precisi requisiti per le procedure seguite dalle
strutture autorizzate allo smantellamento delle navi.
Regolamento che viene disatteso regolarmente. Come e perché? Per aggirare le norme basta rivolgersi a un cash buyer. In pratica la nave a fine vita viene venduta a un intermediario,
che si occuperà di smantellarla. La responsabilità della compagnia
finisce con questa transazione – almeno questa è la difesa usata da ogni
armatore – e ciò che accade in seguito dipende dal cash buyer.
Ma l’intermediario ha gioco facile a camuffare la nave. Questi
trafficanti di rottami procurano alle navi da rottamare, per il loro
ultimo viaggio, una nuova bandiera di comodo, per esempio di Palau, Comora, Tuvalu e poi rivendono le navi a chi offre il prezzo migliore per l’acciaio, anche se sono i cantieri peggiori.
Nel 2017, in linea con la Convenzione di Hong Kong, l’UE dovrebbe pubblicare un elenco di cantieri in tutto il mondo dotati di attrezzature per il riciclaggio,
che seguono standard elevati per la protezione dell’ambiente e la
sicurezza dei lavoratori. Questo elenco é una novità assoluta nel suo
genere e sarà un punto di riferimento per un riciclaggio sostenibile
delle imbarcazioni. D’altronde lo scorso gennaio l’associazione europea
degli armatori (ECSA) lamentava la ristrettezza della
vecchia versione della lista, che include solo cantieri navali situati
in Europa. Secondo l’ECSA, la loro capacità di smaltimento copre solo un
terzo del tonnellaggio totale da smaltire. Perciò l’associazione preme
affinché altri cantieri, anche situati in paesi terzi, siano inseriti in
lista.
E l’Italia?
Anche l’Italia non fa eccezione e si
segnala per pratiche scorrette nel riciclo delle navi. Mentre l’anno
scorso in Senato approdava un ddl per riciclare le navi
e porre fine a quella che è una vera e propria emergenza a livello
nazionale – nei nostri mari vi sono 31 mila relitti di navi maggiori,
anche nelle aree protette, ovvero 42 mila tonnellate di vetroresina più
tutto il ferro e l’acciaio – l’NGO Shipbreaking Platform teneva traccia
degli smantellamenti irregolari e sospetti.
“Nel 2016 – si legge nel rapporto – undici navi appartenenti ad armatori italiani sono state smantellate nel mondo. Gli armatori Finaval S.p.A. di Navigazione, Novamar Limited S.N.C. e Siremar Compagnia Delle Isole S.p.A. hanno optato per le strutture di riciclaggio di Aliaga, in terra turca, a cui hanno venduto complessivamente tre navi. Al contrario, le aziende Vittorio Bogazzi, SAIPEM e Cafiero Mattioli hanno arenato cinque imbarcazioni sulle spiagge asiatiche meridionali. Grimaldi Group, in chiara violazione del Regolamento (CE) n. 1013/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006 relativo alle spedizioni di rifiuti, ha fatto demolire due imbarcazioni in India”
fonte: www.rinnovabili.it