Per comprendere le conseguenze che i rifiuti plastici hanno sugli ecosistemi marini, gli scienziati hanno pensato di usare come indicatore lo stato di salute degli uccelli che dipendono da mari e oceani. Così hanno scoperto che 9 uccelli marini su 10 hanno plastica nello stomaco. La plastica ha dunque ormai raggiunto ogni angolo del Pianeta. 300 milioni di tonnellate di plastica si trasformano in rifiuti ogni anno. Di questi, 8 milioni di tonnellate finiscono in mare. Considerando che anche il primo pezzo di plastica mai prodotto esiste ancora, si stima che nel mare si siano già accumulate centinaia di milioni di tonnellate di plastica. Questi dati, sempre più precisi e per questo spaventosi, ci fanno rendere conto dell’enormità del problema che ora ci troviamo ad affrontare.
Questa sorte sembra non risparmiare neppure i luoghi più difficilmente raggiungibili dall’uomo. L’isola più remota del Pianeta, situata a oltre tremila chilometri da qualsiasi continente, è infatti diventata il simbolo del nostro stile di vita consumistico ormai insostenibile e, di conseguenza, del problema di dimensioni spropositate che sta soffocando gli oceani. Quest’isola si chiama Midway, si trova in mezzo all’oceano Pacifico a ovest dell’arcipelago delle Hawaii e in passato ha ospitato una base navale e aerea statunitense ora usata dalla Nasa per gli atterraggi di emergenza. Dal 2006 è parte della riserva naturale marina di Papahānaumokuākea.
Il fotografo americano Chris Jordan ha deciso di visitarla diversi anni fa e, una volta lì, si è trovato immerso nella bellezza naturalistica del luogo, incrinata dal problema della plastica di cui sono testimoni, e vittime, gli unici abitanti dell’isola: gli albatri. Dopo avere scattato una serie di fotografie diventate iconiche, ha deciso di ritornarci per realizzare un documentario, intitolato Albatross, per parlare alle coscienze delle persone. A questo scopo, infatti, in occasione della Giornata mondiale degli oceani che si celebra l’8 giugno, il suo documentario è stato proiettato alle Nazioni Unite. Abbiamo parlato con Chris Jordan della sua esperienza, del suo lavoro e della sua visione sulle possibili soluzioni a questo problema.
Come ha capito che quella della plastica era la sua battaglia da portare avanti?Mi interesso del consumo di massa ormai da più di vent’anni, è stato il primo soggetto del mio lavoro. Tutti i miei progetti sono sempre stati legati ai diversi aspetti di questo tema, che sia il numero di auto, di computer o di medicine che compriamo. E ancora oggi cerco diversi temi, e problemi, che si leghino al macrotema del consumo di massa. Era il 2008 quando ho sentito parlare per la prima volta del tema della plastica negli oceani e ne sono rimasto affascinato.
Ha visitato l’isola di Midway per la prima volta nel 2009. Perché ha deciso di andare lì e cosa ha visto e vissuto?Un amico che era stato in quel luogo mi ha raccontato dell’esistenza di una tragedia, incredibile e potente allo stesso tempo, che poteva essere la metafora del mondo di oggi. Sull’isola di Midway, un’isola remota nel mezzo dell’oceano Pacifico, ci sono decine di migliaia di uccelli morti, con i corpi pieni di plastica. Quando ho sentito questa cosa mi sono reso conto che nei miei lavori avevo sempre trattato il consumo di massa come un tema globale visto da una prospettiva globale. Così, ho voluto considerare il problema della plastica in mare da un punto di vista più personale. È bastato scoprire una sola manciata di plastica nello stomaco di un uccello per non avere più bisogno di vedere tutti gli altri milioni di tonnellate che lo circondavano.
Se quasi tutti gli uccelli marini del mondo hanno la plastica nel loro stomaco, perché ha deciso di concentrarsi solo sugli albratri?Quella di Midway è stata la prima storia che ho sentito sul tema e in quel periodo non c’erano ancora molti studi scientifici sulla plastica e gli uccelli. Anche il fatto che stesse accadendo su un’isola così remota in mezzo al Pacifico era qualcosa di davvero simbolico e significativo. Se fosse stata un’isola a tre chilometri dalla costa di New York ad avere uccelli pieni di plastica, sarebbe una cosa totalmente diversa. Inoltre, tra tutti gli uccelli che potrebbero parlarci del rapporto ormai rotto che abbiamo con il mondo vivente, sono proprio gli albatri a farlo, che in poesia e letteratura sono da sempre considerati portatori di messaggi e alcuni tra gli uccelli più leggendari. Questo mi ha affascinato e fin dalla prima volta che sono stato sull’isola mi sono sentito quasi dentro a un poema, con tutti i suoi livelli di metafore e di simbolismi.
Albratross è stato proiettato alle Nazioni Unite in occasione della Giornata mondiale degli oceani. Cosa si aspetta succederà ora?Penso che le forme di attivismo più interessanti a cui stiamo assistendo al momento si stiano realizzando all’interno di istituzioni, aziende e organizzazioni che sostengono la causa. Un esempio è Parley for the oceans, che sta lavorando molto con le aziende per aiutarle a cambiare i loro paradigmi di attività legate alla plastica e, tra le altre cose, si è anche occupato del programma della Giornata degli oceani delle Nazioni Unite. Quello che fanno è creare una grande rete di aziende, persone, governi ed enti di ogni genere per realizzare un cambiamento profondo. Credo sia una cosa entusiasmante.
Dall’altro lato, pensa che noi come individui possiamo davvero fare la differenza per risolvere il dramma della plastica?Questo è un tema che secondo me fa parte del paradigma ormai rotto dell’attivismo ambientale. Gran parte dell’ambientalismo è fatto da persone che dicono ad altre come comportarsi. E spesso sono piccole cose come “fate docce più corte”. Anche se tutta la popolazione mondiale lo facesse non cambierebbe quasi nulla. Secondo me dobbiamo andare oltre l’idea che ognuno di noi può salvare il mondo grazie a piccoli gesti perché sappiamo che non è del tutto vero. Questo significa che dovremmo provare insoddisfazione per la portata di queste soluzioni. Le soluzioni dovrebbero essere della grandezza dei problemi. Un esempio sono i documentari di oggi che spesso mostrano un’enorme e disastrosa catastrofe su scala globale per poi dare una lista di cinque cose che possiamo fare, come gonfiare le ruote della macchina prima di fare un viaggio per fare più chilometri con un pieno oppure di non chiedere la cannuccia quando ordiniamo da bere. Tutto questo non fa che sminuire ed è “disempowering”. Immagino che tutti sappiamo che come individui siamo meno forti che in gruppo. Abbiamo più potere quando creiamo gruppi, comunità, paesi. Dobbiamo fare un cambiamento di coscienza e ricordarci di amare il mondo e la vita. È così che possiamo iniziare a scegliere leader migliori e iniziare a fare cambiamenti della portata dei problemi.
Secondo lei Albatross è diverso dai documentari tradizionali, in che modo?Ci sono diversi modi in cui Albatross rompe le regole della produzione documentaristica tradizionale. Prima di iniziare a realizzarlo ho parlato con alcuni registi perché io non sono un regista, quindi non sapevo da dove partire. Una cosa che quasi tutti mi hanno detto è sul ritmo: il documentario deve avere un ritmo serrato perché le persone hanno una soglia di attenzione bassa, quindi bisogna arrivare al punto e poi passare ad altro. Ma questo non è mai stato il mio stile. Immaginate se potessi portarvi con me sull’isola di Midway. Cammineremmo fino ai nidi dei piccoli albatri, e ci accovacceremmo lì vicino per guardarli nascere. Staremmo sui nostri gomiti finché non ci farebbe male la schiena semplicemente per ammirare la loro bellezza. È questa la mia filosofia per tutto il film: andare con calma e mostrare la bellezza degli uccelli.
Un altro aspetto su cui ho riflettuto molto è che molti documentari hanno una sorta di limite nel mostrare il mondo solo in modo scientifico e da una prospettiva basata sull’osservazione. Come ho vissuto io l’isola di Midway è stata estrema bellezza ovunque. Midway è un’isola stupenda e gli albatri sono creature incredibili. Quindi dovevo includere questa bellezza nel documentare la realtà dell’isola. Stare su un’isola con diversi milioni di uccelli che non hanno alcuna paura dell’uomo, è come un paradiso. Ma il fatto che siano pieni di plastica lo fa diventare allo stesso tempo anche un inferno. Quello che ho voluto fare è portare tutti questi elementi nella forma d’arte del documentario. Inoltre, non c’è molta narrazione, ma tanta bella musica. Ci sono 19 tracce che vengono riprodotte in tutta la loro lunghezza. Albatross è un’immersione nella bellezza, nella tristezza e nel dolore.
Un altro aspetto su cui ho riflettuto molto è che molti documentari hanno una sorta di limite nel mostrare il mondo solo in modo scientifico e da una prospettiva basata sull’osservazione. Come ho vissuto io l’isola di Midway è stata estrema bellezza ovunque. Midway è un’isola stupenda e gli albatri sono creature incredibili. Quindi dovevo includere questa bellezza nel documentare la realtà dell’isola. Stare su un’isola con diversi milioni di uccelli che non hanno alcuna paura dell’uomo, è come un paradiso. Ma il fatto che siano pieni di plastica lo fa diventare allo stesso tempo anche un inferno. Quello che ho voluto fare è portare tutti questi elementi nella forma d’arte del documentario. Inoltre, non c’è molta narrazione, ma tanta bella musica. Ci sono 19 tracce che vengono riprodotte in tutta la loro lunghezza. Albatross è un’immersione nella bellezza, nella tristezza e nel dolore.
Che tipo di effetto pensa avrà il suo documentario sulle persone?La mia idea era quella di rendere il documentario una sorta di meditazione guidata, quasi come una cerimonia. Spesso all’inizio di questi rituali ci troviamo a confrontarci con le nostre paure, con qualcosa di spaventoso. Ed è proprio così che inizia il documentario: affrontando l’orrore della plastica. Iniziando con la paura, poi la superiamo per aprirci alla curiosità e all’apprendimento. C’è un un passaggio in cui parlo della paura, perché gli uccelli non hanno paura dell’uomo, poi si passa a una scena di curiosità in cui gli uccelli si avvicinano alla telecamera e la osservano in un modo bellissimo. Quando c’è la curiosità, ci apriamo all’incontro con gli altri e proviamo empatia. Curiosità ed empatia sono l’inizio di una connessione, di un contatto. E la connessione è l’inizio dell’amore. Quando ci innamoriamo degli uccelli vediamo anche che hanno lo stomaco pieno di plastica, così iniziamo a provare dolore. È questo il centro del film, il dolore e la comprensione di questo sentimento. Il dolore, però, non è un sentimento negativo. È diverso dalla disperazione. Il dolore è come un triangolo: bellezza, tristezza e amore, tutti mischiati insieme. È un sentimento vivido, intenso. È sentire di essere vivi, in modo potente ed elettrizzante. In questo senso è quasi un’esperienza estatica, che ti connette profondamente alla vita.
In questa storia c’è un risvolto positivo: dal 2013 la popolazione di albatri sull’isola è aumentata di 500mila esemplari. La loro specie non si sta estinguendo a causa della plastica. Questo aspetto non toglie valore al loro dolore, ma ci fa guardare le cose da un altro punto di vista. Non è come gli elefanti o i rinoceronti in Africa che si stanno estinguendo e l’unica cosa rimasta da fare è salvarli. Lì non si può parlare in modo poetico o usare la loro situazione come metafora per il mondo. L’unico discorso da fare è salvarli. Per questo dobbiamo guardare alla storia degli albatri e vedere il riflesso della nostra cultura.
L’obiettivo di Albratross è proprio questo: smuovere le coscienze. Questo è il mio desiderio e vorrei diffondere Albratross il più possibile perché è una storia d’amore, una dedica a tutta la vita che esiste al mondo, non solo gli albatri.
fonte: www.lifegate.it