Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it