L’Italia non sa dove mettere (almeno) 2,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali l’anno


A causa della carenza impiantistica i costi di smaltimento sono cresciuti del 40% negli ultimi due anni, con aggravi da 1,3 miliardi di euro che finiranno per colpire i prezzi dei prodotti acquistati dalle famiglie e l’occupazione

















I rifiuti speciali prodotti dall’Italia nel 2017 (l’ultimo aggiornamento reso disponibile dall’Ispra) sono 138,9 milioni di tonnellate: nonostante si tratti di un dato per il 43% frutto di stime, in quanto – per dirla con l’ex presidente dell’Ispra Bernardo de Bernardinis – a proposito di rifiuti speciali  la «certezza dell’informazione nel nostro Paese è un’utopia», l’ammontare è pari a oltre il quadruplo rispetto ai rifiuti urbani. Il problema è che mentre i rifiuti speciali continuano a crescere, gli impianti dove poterli gestire in sicurezza sono sempre meno, tanto da arrivare ormai a una crisi conclamata come spiega lo studio I rifiuti speciali e la competitività del sistema delle imprese presentato da Utilitalia – la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche – a Ecomondo.
Realizzato da Ref ricerche in collaborazione con la Fondazione Utilitatis, lo studio mostra che nel 2017 non ha saputo gestire 2,1 milioni di tonnellate dei rifiuti speciali che ha prodotto: la somma delle quantità di rifiuti esportate (circa 1,3 milioni di tonnellate, al netto dell’import) e di quelle stoccate e destinate a smaltimento (circa 700mila tonnellate).
Di fatto la produzione di rifiuti speciali continua a crescere – tra il 2016 e il 2017 del +1,6%, ovvero a velocità quasi doppia rispetto al Pil nazionale –, ma se gli impianti per poter gestire questo flusso i costi crescono. Nello studio si stima che negli ultimi due anni i rincari dei costi di smaltimento siano stati del +44% (suddivisi tra il +35% per i rifiuti non pericolosi e +100% per i pericolosi), con un aggravio pari a quasi 1,3 miliardi di euro..
Tra le cause che mettono in evidenza la fragilità del sistema di gestione, lo studio ne mette in evidenza alcune in particolare: il forte aumento della produzione di rifiuti speciali nel triennio 2016-2018; la chiusura del mercato cinese alle importazioni di rifiuti (plastica riciclabile, residui tessili e carta di qualità inferiore) nel gennaio del 2018; la sentenza del Consiglio di Stato del febbraio del 2018 che ha bloccato l’End of Waste, fermando l’intera filiera dell’economia circolare; lo stop ai fanghi di depurazione in agricoltura e anche l’incremento della raccolta differenziata, in particolare nel Mezzogiorno, che ha aumentato notevolmente la necessità di smaltimento degli scarti provenienti dal riciclo. A pagare per questi squilibri, senza una presa in carico da parte delle istituzioni è soprattutto la competitività dell’intero sistema delle imprese, con aggravi di costo che finiranno per ripercuotersi sui prezzi dei prodotti acquistati dalle famiglie e sull’occupazione, e in ultimo nella delocalizzazione delle attività maggiormente esposte.
«Occorre ripensare profondamente la gestione dei rifiuti del Paese – spiega Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia – superando il dualismo tra rifiuti urbani e speciali, realizzando gli impianti necessari, per assicurare uno sbocco allo smaltimento in prossimità, almeno ai rifiuti che non presentano necessità di impianti dedicati e specifici».
La sofferenza impiantistica, tradizionalmente riconosciuta per i rifiuti urbani, è ormai una causa di crisi anche per il mercato di quelli speciali: occorre una risposta pragmatica e non ideologica al problema, che va in primis riconosciuto con precisione nelle sue dimensioni. «L’acclamato Green new deal – argomenta Brandolini – non può non passare prima per una misurazione dei fabbisogni, che preluda alla chiusura del ciclo dei rifiuti e alla realizzazione degli impianti mancanti per il recupero e il trattamento, e che incentivi l’utilizzo delle materie prime seconde. Avere una piena coscienza sui fabbisogni del proprio territorio, può avere diversi aspetti positivi per le amministrazioni regionali: basti pensare alla possibilità di realizzare gli impianti necessari in grado di colmare il deficit, di sensibilizzare le comunità locali e di responsabilizzare gli attori economici al raggiungimento dei target ambientali; e ancora all’opportunità di calmierare i prezzi, di riuscire a governare situazioni di emergenza e di promuovere politiche di prevenzione della produzione dei rifiuti. Per tutti questi motivi ribadiamo la necessità di una strategia nazionale che disegni le strategie per i prossimi anni in un’ottica di economia circolare».
Anche perché l’avvio di nuovi impianti per la gestione dei rifiuti – come sottolinea lo studio – non richiede uno sforzo economico allo Stato o agli enti territoriali, piuttosto “solo” il sostegno e la condivisione di una strategia d’azione in grado di ricostruire un rapporto fiduciario tra le istituzioni e le comunità dei territori chiamati a ospitare gli impianti, superando le sindromi Nimby che paradossalmente hanno come prima vittima lo sviluppo sostenibile.

fonte: www.greenreport.it