Lo studio “Source sector and fuel contributions to ambient PM2,5 and attributable mortality across multiple spatial scales”, pubblicatio su Nature Communications da un team interdisciplinare di ricercatori di tutto il mondo, ha esaminato in modo completo le fonti e gli effetti sulla salute dell’inquinamento atmosferico, non solo a livello globale, ma anche per ogni singolo Paese: più di 200, scoprendo che «Nel 2017, in tutto il mondo più di un milione di morti erano attribuibili alla combustione di combustibili fossili. Più della metà di questi decessi era attribuibile al carbone».
I ricercatori ricordano che «L’inquinamento è allo stesso tempo una crisi globale e un problema personale devastante. Viene analizzato dai satelliti, ma il PM2,5 – minuscole particelle che possono infiltrarsi nei polmoni di una persona – può anche far ammalare una persona che cucina la cena ogni sera su un fornello».
Uno degli autori dello studio, Randall Martin del Department of energy, environmental, and chemical engineering della Washington University – St. Louis, conferma che «Il PM2,25 è il principale fattore di rischio ambientale per la mortalità al mondo. Il nostro obiettivo principale è comprenderne le fonti». Martin ha condotto lo studio insieme a Michael Brauer, della School of population and public health dell’università della British Columbia e i due ricercatori hanno lavorato su un dataset e strumenti specifici dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington, del Joint Global Change Research Institute dell’Università del Maryland e del Pacific Northwest National Laboratory e avvalendosi della colaborazione di altri scienziati, università e organizzazioni di tutto il mondo , accumulando una grande quantità di dati, strumenti analitici e risorse intellettuali.
La principale autrice dello studio, Erin McDuffie, una ricercatrice del laboratorio di Martin, ha utilizzato diversi strumenti di calcolo per intrecciare i dati, migliorandoli al tempo stesso, e ha sviluppato un nuovo e più completo dataset globale esistente sulle emissioni che provocano l’inquinamento atmosferico. La McDuffie ha anche apportato miglioramenti al modello GEOS-Chem, uno strumento di calcolo avanzato utilizzato nel laboratorio Martin per modellare aspetti specifici della chimica atmosferica.
Grazie a questa combinazione di emissioni e modellizzazione, il team è stato in grado di individuare diverse fonti di inquinamento atmosferico, che vanno dalla produzione di energia, alla combustione di petrolio e gas, fino alle tempeste di polvere.
Lo studio ha anche utilizzato nuove tecniche di telerilevamento satellitari per valutare l’esposizione al PM2,5 in tutto il mondo. Il team di ricercatori ha quindi inserito queste informazioni nel rapporto tra il PM2,5 e gli effetti sulla salute del Global Burden of Disease, per determinare le relazioni tra la salute e ciascuna delle oltre 20 diverse fonti di inquinamento.
La McDuffie si è chiesta: «Quanti decessi sono attribuibili all’esposizione all’inquinamento atmosferico da fonti specifiche?». La risposta che proviene dai dati è che rafforzano molto di quello che i ricercatori già sospettavano, in particolare a livelloglobale. Tuttavia, lo studio fornisce informazioni quantitative riguardo a diverse parti del mondo, individuando quali fonti sono responsabili del grave inquinamento in zone diverse.
«Ad esempio – spiega ancora la McDuffie – i fornelli e il riscaldamento domestico sono ancora responsabili del rilascio di particolato in molte regioni dell’Asia e la produzione di energia rimane un grande inquinatore su scala globale».
A svolgere un ruolo sono anche le fonti naturali: a<per esempio, nel 2017, nell’Africa subsahariana occidentale la polvere trasportata dal vento rappresentava quasi tre quarti del particolato atmosferico rispetto al tasso globale di appena il 16%.
Quando si tratta di prendere in considerazione la mitigazione del rischio, i dati di questo studio diventano particolarmente importanti e la McDuffie fa notare che «In definitiva, sarà importante considerare le fonti su scala subnazionale quando si sviluppano strategie di mitigazione per ridurre l’inquinamento atmosferico».
Martin e la McDuffie concordano sul fatto che quel che emerge chiaramente dallo studio è che «In poche parole, l’inquinamento atmosferico continua a far ammalare le persone e a ucciderle».
Il progetto ha anche implicazioni positive: sebbene dal monitoraggio dell’inquinamento venga fuori che è in aumento, emerge però che ci sono ancora molte aree che non hanno la capacità di determinare a che livello sia perché non hanno gli strumenti necessari per farlo. Ad esempio, per un Paese povero è difficile determinare quanto inquinamento è prodotto del traffico locale rispetto alle pratiche agricole o agli incendi boschivi.
La McDuffie conclude: «La buona notizia è che potremmo fornire a questi luoghi alcune delle prime informazioni sulle loro principali fonti di inquinamento. Altrimenti potrebbero non avere queste informazioni prontamente disponibili per loro. Questo fornisce dà loro un inizio».
fonte: www.greenreport.it
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