«L’economia globale capitalistica prende le cose buone dai paesi
poveri a cui restituisce la nocività. Il socialismo riconosce i bisogni
essenziali alla vita». il manifesto, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)
La politica ha (dovrebbe avere) la funzione di soddisfare i bisogni
delle persone: bisogni di cibo, di acqua, di abitazione, bisogno di
respirare aria pulita, di salute, di informazione e istruzione, di
mobilità, di dignità e libertà, eccetera. Per soddisfare questi bisogni,
anche quelli apparentemente immateriali, occorrono cose materiali:
frumento e mulini, acquedotti e gabinetti, cemento e vetro per le
finestre, libri e banchi di scuola, letti di ospedale, veicoli e strade,
eccetera.
Tali cose materiali possono essere ottenute soltanto trasformando, col
lavoro, delle materie naturali: i raccolti dei campi diventano pasta
alimentare o conserva di pomodoro e queste vengono trasportate nei
negozi e poi arrivano alle famiglie; i minerali vengono trasformati in
acciaio e questo diventa lattine per alimenti, o tondino per le
costruzioni di edifici; gli alberi vengono trasformati in carta e questa
in giornali o libri.
In ciascuna di queste trasformazioni delle materie naturali in oggetti
utili, capaci di soddisfare, appunto, bisogni umani, i campi perdono una
parte delle loro sostanze nutritive minerali, i mezzi di trasporto
immettono nell’atmosfera gas nocivi, si formano scorie e rifiuti solidi,
liquidi, gassosi che finiscono nel suolo o nei fiumi o nell’aria. Una
circolazione natura-merci-natura alla fine della quale i campi risultano
meno fertili, le acque e l’aria più inquinate.Il “peggioramento” della
qualità dell’ambiente riguarda però molto diversamente le diverse classi
sociali e i diversi paesi.
Alcuni godono i vantaggi del possesso di più merci, e sono maggiormente
responsabili degli inquinamenti, altri non riescono a soddisfare neanche
i loro bisogni essenziali e sono danneggiati dal peggioramento
dell’ambiente.
Il caso più emblematico è rappresentato dai mutamenti climatici: i paesi
ricchi, con i loro elevati consumi di combustibili fossili, immettono
nell’atmosfera grandi quantità di gas serra; i paesi poveri, pur avendo
bassi consumi energetici, subiscono gravi danni a causa delle piogge
improvvise che allagano i campi o della siccità che asciuga le limitate
riserve idriche.
I paesi ricchi possono disporre di grandi quantità di alimenti di buona
qualità importandoli dai paesi poveri che li ottengono da monocolture
che hanno sostituito la loro agricoltura di sussistenza. I paesi ricchi
importano minerali e fonti energetiche per le loro industrie da paesi
poveri a cui restano terre desolate e inquinate.
Molti rifiuti solidi e inquinanti dei paesi ricchi vengono smaltiti, con
processi dannosi e pericolosi, nei paesi poveri. E’ la globalizzazione
capitalistica: per denaro le cose buone vanno dai paesi poveri a quelli
ricchi e le nocività vanno dai paesi ricchi a quelli poveri.
Il degrado dell’ambiente ha dato vita a movimenti di protesta, ma anche
la protesta ambientalista può assumere diversi colori. Ad esempio
davanti ad una acciaieria inquinante alcuni chiedono di chiuderla; altri
riconoscono che l’acciaio è essenziale per tanti altri settori della
vita umana, può essere fatto con processi alternativi, meno inquinanti,
che consentono di salvare l’occupazione.
Alla contestazione ecologica ci sono due reazioni; il potere economico
si sforza di minimizzare la portata umana dei danni ambientali esaltando
i vantaggi per l’economia e la gioia che viene assicurata dal possesso
di crescenti quantità di merci, del superfluo e del lusso.
D’altra parte talvolta le organizzazioni dei lavoratori, davanti al
pericolo che più rigorose norme ambientali possano compromettere il loro
posto di lavoro, sono disposti ad accettare i danni ambientali che
compromettono la salute loro, dentro la fabbrica, e quella delle loro
famiglie, fuori dal cancello della fabbrica.
Per superare gli atteggiamenti populistici ed egoistici di quelli che
vogliono i benefici della tecnica purché i disturbi e le nocività
danneggino qualcun altro, altrove, una sinistra ha (avrebbe) di fronte
una sfida che richiede la collaborazione e la solidarietà dei popoli
inquinati e dei lavoratori.
Una rivoluzione che parta dall’analisi dei bisogni umani, di quelli
essenziali da soddisfare anche con un costo ambientale, e dei processi e
materie e mezzi con cui soddisfarli tenendo conto dei vincoli fisici
imposti dal carattere limitato delle risorse della natura e della
limitata capacità dei corpi della natura di ricevere le scorie delle
attività umane.
Un processo difficile perché il capitale finanziario, dopo aver saziato
le domande delle classi e dei paesi più abbienti, per dilatarsi inventa
sempre nuovi bisogni da far credere essenziali anche alle classi meno
abbienti. Ha inventato macchine che invecchiano rapidamente, che devono
essere sostituite con sempre “più perfetti” aggeggi, per la cui
conquista le classi povere sono disposte a svendere il proprio lavoro e
talvolta anche la propria dignità.
Una situazione che Marx aveva lucidamente descritto già un secolo e
mezzo fa nel terzo dei manoscritti del 1844, spiegando che nell’ambito
della proprietà privata ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo
un nuovo bisogno; con la massa degli oggetti cresce la sfera degli
esseri ostili, a cui l’uomo è soggiogato.
Ma spiegando anche che il socialismo è l’unico sistema capace di
riconoscere quali bisogni sono essenziali per liberare “l’uomo” dalla
miseria e dall’ignoranza, e i processi e le materie che sono in grado di
soddisfarli.
La difesa dell’ambiente — un altro volto della lotta di classe — non
passa quindi da un rifiuto della tecnica ma dal rifiuto della tecnica
asservita al capitale per il quale le merci non servono a soddisfare
bisogni umani ma solo a generare denaro per alcuni (pochi) e nocività
per altri (tanti).
Alcune nocività ambientali generate in un paese danneggiano chi abita
vicino, al di là degli oceani e addirittura chi abiterà il pianeta; si
pensi all’eredità che l’avventura nucleare militare e commerciale di cui
hanno “goduto” (si fa per dire) alcuni paesi nell’ultimo mezzo secolo,
lascia alle generazioni che verranno nei prossimi decenni e secoli
costringendoli a custodire sotto stretta sorveglianza i cumuli delle
scorie radioattive.
Giorgio Nebbia
fonte: http://www.eddyburg.it/