Quella di ieri è stata una giornata intensa per i movimenti e i cittadini che si oppongono al Ceta, il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada “gemello” del più noto Partenariato transatlantico (Ttip).
Siamo infatti alle battute finali di un percorso che, dopo
l’approvazione in sede europea nell’ottobre scorso, deve ora affrontare i
processi di ratifica nei parlamenti nazionali. In Italia il ddl di
ratifica è stato approvato a fine maggio dal governo e verrà votato domani in Senato.
Tutto questo – è triste ricordarlo – avviene in tempi accelerati,
senza un vero confronto politico e nel più totale silenzio dei mezzi di
informazione. Alzi la mano infatti chi può dire di aver letto una riga
di giornale o di aver ascoltato un servizio televisivo dedicato al Ceta
in questi ultimi giorni.
Spetta così alla società civile sopperire a queste carenze e lo si
sta facendo concentrando la pressione proprio su quel ramo del
Parlamento che è chiamato ad esprimersi a breve.
Da una parte abbiamo visto la mobilitazione pubblica, indetta dalla
campagna Stop Ttip Italia con il tweetstorm e l’iniziativa “adotta un
senatore”, dall’altra l’incontro tra il presidente del Senato Pietro
Grasso – già destinatario di una lettera aperta
sul tema – e i rappresentanti di undici associazioni (Slow Food,
Coldiretti, Cgil, Arci, Acli Terra, Legambiente, Fairwatch, Greenpeace e
le principali organizzazioni dei consumatori) che hanno consegnato alla
seconda carica dello Stato il documento “Alla ricerca di un commercio libero e giusto (Free and fair) – Dal sovranismo economico ad un percorso di reciprocità”.
Le istanze portate avanti da sindacati, ambientalisti e movimenti a
difesa dei consumatori hanno trovato attenzione e riscontro nelle parole
del presidente Grasso, il quale si è detto consapevole dell’«impatto di
grande rilievo sull’ambiente e sull’economia dei Paesi coinvolti»
esercitato dagli accordi commerciali e ha dichiarato: «Trovo quindi
comprensibile l’appello ad un esame attento e scrupoloso delle norme
all’attenzione delle aule parlamentari e sono sicuro che esso non
resterà inascoltato».
Lo stesso documento è stato illustrato e consegnato durante
l’audizione informale con i senatori della 3° Commissione Permanente del
Senato della Repubblica (Affari Esteri, Emigrazione), impegnati
nell’esame del disegno di legge di ratifica (ddl 2849).
In questa occasione la vicepresidente nazionale di Slow Food Italia, Cinzia Scaffidi,
ha ribadito le ragioni dell’opposizione all’accordo, motivate in
particolare sotto due profili: in primo luogo la mancata salvaguardia di
tante (troppe) produzioni agroalimentari di qualità che non trovano
adeguata tutela nel testo del Ceta, in secondo luogo la concreta
eventualità che il trattato indebolisca quel principio di precauzione che è un cardine fondamentale nell’intera legislazione comunitaria.
Le norme europee stabiliscono infatti che, ove vi siano minacce di
danno serio o irreversibile per l’ambiente o la salute umana, l’assenza
di certezze scientifiche non debba essere usata come pretesto per
impedire misure di prevenzione. Il meccanismo è stato applicato ad
esempio per supportare il divieto di somministrazione di ormoni nella
carne e scongiurare l’avvio su larga scala di colture Ogm: il Canada al
contrario non lo riconosce e, al pari degli Stati Uniti, punta ad
“ammorbidirne” gli effetti in Europa.
Sono tante le questioni che questo gigantesco ibrido politico lascia
aperto, a dispetto della sua mole – il Ceta è infatti un corpo di regole
composto da 1057 pagine e lungo ben 7900 metri lineari. Dentro c’è
un po’ di tutto: dagli investimenti alla finanza, dalle
professioni ai brevetti.
C’è però soprattutto un tentativo di stravolgere le regole
nell’agricoltura attivando, con l’abbattimento istantaneo dei dazi,
megaflussi di importazione competitiva che la nostra agricoltura non è
in grado di reggere. Ma anche, come si diceva, introducendo specifiche
che creano paradossali effetti di protezionismo a tutela non delle
eccellenze agroalimentari, ma delle loro versioni “taroccate”.
Avete presente il famoso Parmesan? Bene, questa
denominazione continuerà a esistere in Canada perché già da tempo
registrata nel Paese. Lo stesso accadrà per i formaggi “Asiago o Fontina
style” e addirittura per un prosciutto canadese denominato “Parma”.
Le indicazioni geografiche riconosciute dal Ceta sono poche (appena
41 su 288) e chi è rimasto fuori dall’elenco non avrà la possibilità di
entrarvi nemmeno in futuro, dal momento che l’aggiornamento delle liste
verrà ammesso solo per sottrazione, o per aggiungere nuovi prodotti IG
riconosciuti da ora in avanti.
Se questo, come si vede, preclude lo sviluppo su un grande mercato
estero dei prodotti di qualità che hanno avuto la sfortuna di non
rientrare tra “gli eletti”, c’è da aggiungere che anche la tutela delle
IG ammesse sarà soggetta a varie – e non sempre chiare – eccezioni e
limitazioni
Il caso della Cmb Partner: 50mila tonnellate di grano canadese sequestrate a Bari
Chiudiamo con una nota di merito, dedicata ai pochi organi di stampa
che hanno riportato la notizia del sequestro di un carico da 50mila
tonnellate di grano canadese nel porto di Bari, avvenuto l’8 giugno.
Nelle stive della «Cmb Partner» i Carabinieri forestali, dopo le
prime analisi sui campioni, avrebbero rilevato la presenza di sostanze
nocive in percentuali superiori ai limiti consentiti dalla legge. Il
cargo proveniente da Vancouver trasporta un carico che avrebbe richiesto
oltre 1600 autoarticolati per essere sbarcato e indirizzato alle più
svariate destinazioni.
Questo episodio di cronaca può forse servire a farci riflettere
ulteriormente: sono 2,3 milioni le tonnellate di grano duro importate lo
scorso anno dall’estero. Metà di queste giungono dal Canada, che ha
incrementato di un altro 15% i quantitativi nel 2017.
I campioni risultati irregolari per un contenuto fuori legge di pesticidi
sono pari allo 0,8% nel caso di cereali stranieri mentre la percentuale
scende ad appena lo 0,3% nel caso di quelli di produzione nazionale.
Peraltro in alcuni Paesi terzi vengono utilizzati principi attivi vietati in Italia: proprio in Canada, ad esempio, si fa uso intensivo del glifosato nella fase di pre-raccolta, pratica che il Ministero della Salute ha vietato con un decreto in vigore dal 22 agosto 2016.
Ce n’è abbastanza insomma per continuare a tenere alta l’attenzione,
in tutte le sedi possibili. Ed è quello che, da parte nostra, vi
promettiamo di fare.
Andrea Cascioli
a.cascioli@slowfood.it
fonte: www.slowfood.it