La legge di Bilancio 2019 fatica a trovare la sua strada: secondo la vigente normativa il governo M5S-Lega avrebbe dovuto presentarla al Parlamento entro il 20 ottobre, ma le oggettive difficoltà all’interno della maggioranza nel far quadrare i conti hanno imposto uno slittamento dei termini dopo l’altro. Conti che anche adesso rimangono tutt’altro che ordinati, vista la sonora bocciatura arrivata ieri da parte dell’Unione europea. Eppure i gialloverdi avrebbero a disposizione un importante bacino di risorse in cui poter pescare, quello dei sussidi ambientalmente dannosi: oltre 16 miliardi di euro, censiti direttamente dal ministero dell’Ambiente e distribuiti ogni anno sotto forma di incentivi, agevolazioni, finanziamenti agevolati, esenzioni da tributi, etc.
Come ha ricordato pochi giorni fa al Manifesto il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, il vicepremier Luigi Di Maio «è andato in Europa a chiedere più coraggio sulle politiche energetiche e i cambiamenti climatici, poi però in Italia fa l’opposto. Per esempio, da ministro dello Sviluppo economico ha il potere di aumentare gli incentivi alle rinnovabili e all’efficientamento energetico tagliando i sussidi diretti e indiretti ai combustibili fossili (nel 2016 sono stati 14 miliardi), ma finora non l’ha fatto». E all’interno del Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli stilato dal ministero dell’Ambiente viene definito un perimetro fiscale ancora più ampio da poter aggredire rispetto a quello dei “soli” sussidi verso ai combustibili fossili: come riporta una recente analisi condotta dall’Ufficio valutazione impatto del Senato, il Catalogo individua 57 forme di sussidio dannoso per l’ambiente che costano 16,2 miliardi di euro, e 46 forme di sussidio favorevole all’ambiente per un valore di 15,7 miliardi di euro. I sussidi “incerti” (che richiedono ulteriori valutazioni in quanto presentano impatti ambientali sia positivi che negativi) sono risultati 27, per un valore complessivo di € 5,8 miliardi, mentre è stata individuata una sola misura “neutrale”, per un importo di € 3,5 miliardi.
In buona sostanza questo significa che nonostante tutta la retorica sviluppata negli anni a favore dello sviluppo sostenibile, ancora oggi lo Stato italiano finanzia le attività inquinanti più di quanto non faccia con quelle pulite. E questa è ancora soltanto una piccola parte della verità. Quello del Catalogo è giocoforza un work in progress, in quanto richiede l’identificazione dei sussidi nell’ambito delle normative di spese fiscali nazionali in un’area molto vasta, e dunque un aggiornamento continuo. Il bacino di sussidi finora vagliato è incompleto – complessivamente abbraccia circa il 2,5% del Pil italiano –, e non tiene conto delle novità fiscali man mano introdotte nel nostro ordinamento. Vi sono ad esempio voci di sussidio ambientalmente rilevanti identificate, ma al momento non quantificate; intere aree di sussidi rimangono inoltre ancora tutte da identificare, valutare e quantificare, come nel caso delle leggi di spesa comunitarie, nazionali e regionali.
Per questo il Parlamento – attraverso l’art. 68 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 – ha incaricato il ministero dell’Ambiente di predisporre una versione aggiornata del Catalogo entro il 30 giugno di ogni anno. Peccato che alla prima versione pubblicata nel maggio 2017 il nuovo governo non si sia ancora curato di farne seguire nessun’altra, nonostante i termini di legge siano ormai abbondantemente scaduti.
Non si tratta di una mancanza da poco. Come spiega lo stesso Catalogo, la «conoscenza dei sussidi ambientalmente rilevanti, sia dannosi che favorevoli, costituisce uno sforzo necessario per il disegno di politiche ambientali ed economiche che siano ambiziose ed efficienti». E al contempo «è difficilmente comprensibile per l’opinione pubblica, per i cittadini, per la comunità scientifica, per gli esperti delle organizzazioni ambientaliste come delle imprese, che si utilizzino fondi dello stato (attraverso spese dirette) o che si rinunci a fondi (attraverso spese fiscali, vale a dire agevolazioni, esenzioni o riduzioni) per incoraggiare attività economiche che abbiano un impatto negativo per l’ambiente».
Tutto questo mentre sul fronte internazionale l’Italia si è ufficialmente impegnata per rivedere il proprio modello di sviluppo, firmando sia l’Accordo di Parigi sul clima sia l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile stilata dall’Onu. Traguardi che sarà impossibile raggiungere se il nostro quadro fiscale continua a puntare in tutt’altra direzione.
Al contrario, mettere finalmente mano ai sussidi ambientalmente dannosi significherebbe lavorare concretamente in favore di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato allo sviluppo sostenibile, a parità di gettito per lo Stato. In altre parole cancellare i Sad finora censiti nel Catalogo permetterebbe di migliorare il profilo ambientale del Paese e al contempo poter contare su oltre 16 miliardi di euro l’anno da reinvestire in altri settori: si tratta di una cifra maggiore rispetto a quella individuata dall’Istat (14,9 miliardi di euro relativamente all’anno 2015) come necessaria per coprire interamente i costi del “reddito di cittadinanza” proposto dal M5S, ad esempio. Una svolta concreta, che il governo del cambiamento non sembra però interessato a voler percorrere.
fonte: www.greenreport.it