Per affrontare le sfide del cambiamento climatico, dell’economia circolare, della robotizzazione e digitalizzazione serve un crescente investimento formativo, per l’inclusione sociale (‘non perdere nessuno per strada’) e per aumentare l’efficacia delle nuove dinamiche tecno-organizzative.
Le risorse sono oggi disponibili, sia nel campo pubblico (Pnrr, Next generation Eu) sia in quello privato, vista la liquidità esistente sui mercati e i bassi tassi di interesse fino almeno al 2025. Il decennio 2020-2030 è veramente cruciale per cambiare il Paese attraverso un new deal di formazione: ridurre la dispersione scolastica nel sistema, aumentare gli studenti universitari, incrementare i fondi per tutta l’alta formazione e per i dottorati.
L’Italia, come ogni Paese, parte da luci e ombre. Nel Rapporto Undp 2020[1] si colloca al ventinovesimo posto per sviluppo umano, stesso ranking della classifica del Pil. Non male, ma questo significa che potremmo usare le risorse economiche in modo ancora più efficace.
Per quello che riguarda gl’indicatori di scolarizzazione, l’Italia è in linea con la Francia, ma ampiamente in ritardo rispetto ai paesi del nord Europa, Germania, Uk e Usa. Un obiettivo per il 2030 è scalare la classifica Undp attraverso gli investimenti in formazione. Investimenti che servono anche a colmare i gap di produttività del lavoro rispetto all’Europea, nota criticità, di recente esaminata nelle sue differenze interne al Paese da Roberto Romano[2].
Di fronte a questa esigenza di un new deal formativo – pilastro a supporto di European green deal e Just transition – il mondo universitario, da nord a sud[3], deve porsi l’obiettivo di accogliere e incrementare gli studenti nelle varie discipline.
Ogni narrazione sui ‘numeri chiusi’ non trova giustificazione di fronte ai problemi e obiettivi del Paese. Va da sé che le risorse che saranno disponibili nel decennio dovranno aumentare i servizi agli studenti, non sempre adeguati, e i docenti/ricercatori che li formano.
Da scienziato sociale applicato, due numeri, tra gli altri. Primo, il persistente gap italiano sull’alta formazione (higher education)[4], lontano dalla media Ocse e dai Paesi a elevato reddito[5]. Il numero di giovani italiani va portato verso la scuola e l’alta formazione. Vanno colti due importanti megatrend dei prossimi decenni: l’aumento del ceto medio globale, che domanderà formazione in Europa (es. Asia, Africa, Sudamerica), e la crescita demografica del continente africano. Fattori che possono, via formazione, portare crescita, sviluppo, nuove competenze e risorse a un Paese in calo demografico.
Secondo, il numero di ricercatori e ricercatrici è ampiamente sotto la media dei principali Paesi europei[6]. Leggendo Viesti (2018, capitolo 3), si rimarca come gli universitari sono in Italia un terzo di meno rispetto a Uk e Spagna. Rispetto alla popolazione, 1,6 docenti per 1000 abitanti (media europea 2,7); il rapporto studenti docenti è peggiore rispetto a Uk, Francia, Germania di 5, 10, 60%: è tornato ai livelli degli anni ‘90 a causa di un calo da 63.000 a 49.000 docenti dal 2008 al 2016. Qualche timido segnale di incremento su sta vedendo, ma il gap con l’Europa rimane.
Porto a chiusura l’esperienza appena chiusa di commissario per la valutazione dei docenti (Abilitazione scientifica nazionale). Nella libertà legittima di valutazione, vi sono commissioni che abilitano quote molto limitate di aspiranti. La commissione di cui ho fatto parte, per ragioni di inclusione di prospettive inter-disciplinari ed esigenza di consentire un reclutamento sulla base delle intrinseche differenze regionali, ha abilitato un numero elevato di docenti/ricercatori. Questo è reso possibile dall’elevata qualità media dei ricercatori italiani[7]. Alzare troppo l’asticella non consente al sistema nel suo complesso di reclutare i docenti e ricercatori di cui si necessita, e non genera contaminazioni tra discipline.
Il decennio 2020-2030 è dunque veramente cruciale per cambiare il Paese attraverso un new deal di formazione: ridurre la dispersione scolastica nel sistema, aumentare gli studenti universitari, incrementare i fondi per tutta l’alta formazione e per i dottorati.
[1] http://hdr.undp.org/sites/default/files/hdr2020.pdf
[2]https://ilmanifesto.it/cosi-abbiamo-perso-il-nord-italia/ (analisi che dovrebbe tuttavia includere anche fattori di sviluppo umano delle regioni italiane, che hanno chiaramente forti competenze sul versante formativo). Interessante la nota Eurostat “There were only three regions in the EU where research and development intensity was higher than 5.00 % in 2017: Braunschweig (8.52 %) and Stuttgart (7.69 %) in Germany and Prov. Brabant Wallon (6.33 %; 2015 data) in Belgium” (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Research_and_development_statistics_at_regional_level)
[3] Viesti (2018, pag.102)
[4]https://data.oecd.org/eduatt/population-with-tertiary-education.htm; https://data.oecd.org/eduatt/adult-education-level.htm#indicator-chart
[5] “(…) il minore livello di istruzione della popolazione, e in particolare al scarsa diffusione degli studi universitari, è certamente uno dei fattori che ha ostacolato e ostacola il complessivo sviluppo economico del nostro paese.” (Viesti, 2018, pag. 19).
[6]Esaustive statistiche al link https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Research_and_development_statistics_at_regional_level#Researchers
[7]Viesti, 2018, pag. 42.
fonte: www.greenreport.it
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