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Codice rosso per i ghiacciai italiani: in 30 anni ridotta del 70% la massa glaciale dei ghiacciai alpini

Torna la Carovana dei ghiacciai di Legambiente e Comitato Glaciologico Italiano per monitorare lo stato di salute dei ghiacciai alpini e del Calderone




Legambiente e il Comitato Glaciologico Italiano (CGI) denunciano che è ormai «Codice rosso per i ghiacciai italiani minacciati sempre più dalla crisi climatica. Entro la fine del secolo la maggior parte di essi, secondo studi scientifici, potrebbe scomparire ed entro il 2050 quelli al di sotto dei 3.500 metri saranno destinati molto probabilmente alla stessa sorte. Le temperature medie degli ultimi 15 anni non ne permettono la sopravvivenza».

Nell’ultimo secolo i ghiacciai alpini hanno perso il 50% della loro area. Di questo 50%, il 70% è sparito negli ultimi 30 anni. Preoccupa anche lo stato di salute del Calderone, un ghiacciaio appenninico quasi del tutto scomparso e declassato a “glacionevato”, cioè un accumulo di ghiaccio di ridotta superficie, di limitato spessore e senza un moto di deflusso verso valle del ghiaccio. La campagna glaciologica 2020, coordinata dal CGI, ha confermato «La tendenza trentennale di marcata contrazione delle masse glaciali del nostro paese. Una tendenza che appare in accelerazione negli ultimi 15 anni, seppure con modalità e velocità differenziate nei vari settori alpini monitorati». Altro aspetto che emerge riguarda la frammentazione dei ghiacciai. In seguito alla deglaciazione i ghiacciai si stanno frammentando da un corpo glaciale in più parti separate.

Cigno Verde e CGI sono pronti a partire con la seconda edizione della Carovana dei ghiacciai, la campagna itinerante che dal 23 agosto al 13 settembre monitorerà lo stato di salute di 13 ghiacciai alpini e del glacionevato del Calderone, nel massiccio del Gran Sasso. Legambiente spiega che «Si partirà con i ghiacciai dell’Adamello (Lombardia e Trentino) per proseguire in Alto Adige con quelli della Val Martello nel Parco dello Stelvio e quindi il ghiacciaio del Canin in Friuli Venezia Giulia. Si scenderà poi sull’Appennino, per osservare il glacionevato del Calderone, in Abruzzo, tra i più meridionali d’Europa per poi risalire nel nord-ovest alpino con i ghiacciai del massiccio del Gran Paradiso (Piemonte e Valle D’Aosta) e concludere la campagna il 13 settembre presso il Forte di Bard (AO)».

La campagna è stata inserita nella piattaforma All4Climate – Italy che raccoglie tutti gli eventi dedicati alla lotta contro i cambiamenti climatici che si svolgeranno quest’anno in vista della COP26 di Glasgow. Durante ogni tappa, Legambiente e CGI realizzeranno monitoraggi scientifici ad alta quota per osservare le variazioni storiche dei ghiacciai e le trasformazioni glaciali. Il CGI, principale riferimento in Italia per gli studi dell’ambiente glaciale e partner scientifico della Carovana dei ghiacciai, condividerà le sue esperienze di ricerca ed un patrimonio di dati secolare custodito nell’archivio del Comitato all’università degli studi di Torino. Marco Giardino, segretario del Comitato Glaciologico Italiano, ricorda che «Sin dal 1911, il CGI promuove e coordina campagne glaciologiche annuali, e grazie al lavoro di operatori glaciologici volontari e ad un protocollo scientifico stabilito dal Comitato è stato possibile documentare storicamente lo stato dei ghiacciai italiani e quantificare le fluttuazioni delle fronti glaciali per più di un secolo. Un patrimonio di conoscenze indispensabile anche per disegnare anno dopo anno gli scenari futuri dell’ambiente d’alta quota nel nostro Paese».

Le due organizzazioni sottolineano che «Il monitoraggio in questione, oltre a permettere di documentare l’impatto della crisi climatica, consentirà anche valutarne gli effetti sul territorio. La deglaciazione, infatti, coinvolge il deflusso delle acque e il suo stoccaggio così come gli ecosistemi alpini nella loro globalità. Già adesso si osservano i primi effetti concreti su acqua potabile, raccolti, irrigazione, servizi igienico-sanitari, energia idroelettrica e stazioni sciistiche».

Di tappa in tappa, nel corso della Carovana dei ghiacciai verranno organizzati anche incontri, mostre, escursioni per conoscere il territorio montano. Come lo scorso anno, sarà anche previsto uno speciale momento di raduno, il “saluto al ghiacciaio”. Gli eventi al chiuso (convegni e conferenza) saranno a numero programmato, si potrà partecipare iscrivendosi per tempo consultando le tappe su https://www.legambiente.it/campagna/carovana-dei-ghiacciai/

Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente, evidenzia che «Mentre l’Italia brucia soffocata da una grave emergenza incendi, i ghiacciai delle nostre montagne continuano a soffrire. Tutto ciò accade in un’estate caratterizzata sempre più da eventi estremi. Per comprendere meglio le cause e gli effetti di una tendenza apparentemente irreversibile anche quest’anno Legambiente monitorerà l’ambiente montano insieme al Comitato Glaciologico con la Carovana dei ghiacciai, una campagna che ha la capacità di raccontare in maniera tangibile gli effetti della crisi climatica sul territorio a partire proprio dai ghiacciai, indicatori sensibilissimi del cambiamento climatico».

Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente e coordinatrice della campagna, aggiunge: «La stessa IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, che recentemente ha denunciato l’intensificazione e l’irreversibilità degli effetti dei cambiamenti climatici elenca le Alpi tra le aree strategiche più importanti in cui è fondamentale acquisire dati per elaborare strategie di adattamento. Strategie sulle quali Legambiente da anni sta riflettendo chiedendo che vengano messe in campo misure e politiche ambiziose così come su quelle della mitigazione sul clima per arrivare a emissioni nette pari a zero al 2040, in coerenza con l’Accordo di Parigi».

La prima tappa di Carovana dei Ghiacciai, che rientra nella campagna ChangeClimateChange, sarà sui ghiacciai dell’Adamello (Lombardia e Trentino) dal 23 al 25 agosto. Il 23 agosto ci sarà dalle ore 17.00 alle 19.00 la conferenza “Il futuro dei ghiacciai dell’Adamello” presso il Musil di Cedegolo (Bs), moderata Vanda Bonardo, responsabile Alpi Legambiente, e che vedrà intervenire Valter Maggi, vicepresidente Comitato Glaciologico Italiano; Marco Giardino, segretario Comitato Glaciologico Italiano; Carlo Baroni, coordinatore Alpi Centrali Comitato Glaciologico Italiano; Franco Capitanio, Consigliere Centrale CAI; Guido Calvi, direttore del Parco dell’Adamello; Amerigo Lendvai, Servizio Glaciologico Lombardo. Martedì 24 agosto ci sarà l’escursione al ghiacciaio dell’Adamello e a seguire Flash Mob Change Climate Change, momento dedicato al silenzioso e prezioso lavoro che svolgono i ghiacciai. Riflessioni, brani e poesie a cura di Paola Turroni. Mercoledì 25 agosto ore 10.30 la conferenza stampa – Sala dell’Unione dei Comuni Ponte di Legno (Bs).

Il viaggio della Carovana dei ghiacciai si potrà seguire anche sulla pagina facebook di Legambiente Alpi dove verranno postate news, foto, video, interviste. Hashtag della campagna: #Carovanadeighiacciai #Changeclimatechange. Tutte le iniziative saranno organizzate nel rispetto dei protocolli Covid.

fonte: www.greenreport.it



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Lo stile di vita delle donne è più sostenibile

Lo ha scoperto un nuovo studio svedese. I singoli consumatori risparmierebbero fino al 40 per cento di emissioni con scelte più consapevoli sul cibo, sulla casa e sulle vacanze



Cosa si può fare nel proprio piccolo per ridurre le emissioni? È una delle domande che ci si pone più spesso quando si parla di crisi climatica. La risposta sembrerebbe arrivare da un nuovo studio svedese che ha scoperto che i singoli consumatori possono risparmiare fino al 40 per cento di gas ad effetto serra semplicemente facendo scelte più consapevoli quando decidono cosa mangiare, cosa comprare per la casa e dove trascorrere le vacanze. È stato anche scoperto che, a parità di spese, le donne emettono meno degli uomini.

Lo studio attribuisce le emissioni ai consumatori

Lo studio è stato condotto dalla compagnia di ricerca Ecoloop, guidata da Annika Carlsson Kanyama, Jonas Nässén e René Benders e pubblicato sulla rivista Journal for industrial ecology. Lo scopo era dimostrare come ridurre le emissioni di gas a effetto serra generate dai consumi delle singole abitazioni e quantificare le opportunità di mitigazione con alternative già presenti sul mercato, ma non ancora popolari. L’obiettivo era proprio quello di attribuire le emissioni direttamente ai consumatori e non ai produttori, analizzando cosa viene acquistato dalla popolazione e poi tracciandone le emissioni fino alle origini.

I ricercatori hanno usato la Svezia come caso studio e tre campioni: un uomo single medio, una donna single media e una persona svedese media. Hanno poi scelto tre settori: il cibo, le vacanze e l’arredamento. Per mitigarne le emissioni, sono state proposte alternative a base vegetale, verdure coltivate localmente, oggetti di seconda mano o riparati, spostamenti con il treno o staycation, ossia vacanze fatte entro un certo chilometraggio dalla propria abitazione. Le alternative analizzate non richiedono investimenti aggiuntivi, a differenza di altre soluzioni, come acquistare una macchina elettrica o di installare pannelli solari, che necessitano di maggiori disponibilità finanziarie. “I nostri esempi sono semplici da seguire anche da un punto di vista economico”, si legge nello studio.


I risultati dimostrano infatti che il totale delle emissioni può essere abbassato del 36-38 per cento passando a soluzioni meno impattanti, senza cambiare il totale speso.
Il totale delle emissioni nei settori presi in esame dallo studio © Annika Carlsson Kanyama, Jonas Nässén e René Benders

L’importanza di scegliere vacanze sostenibili

I ricercatori hanno dimostrato che le scelte che vengono fatte quando si sceglie una vacanza sono quelle che determinano la quantità maggiore di emissioni. Per questo state analizzate varie tipologie di vacanze più sostenibili, tra cui dei tour in treno (che comprendevano sia l’alloggio sia gli spostamenti) o le staycation. Questo termine si riferisce alle vacanze fatte entro un certo chilometraggio dalla propria abitazione, durante le quali si partecipa a concerti e ad attività all’aperto.

L’analisi ha evidenziato come scegliere queste due alternative permettesse di risparmiare fino a dieci volte le emissioni prodotte da un viaggio in aereo e sei volte quelle di un viaggio in auto.


Le emissioni delle vacanze prese in esame dallo studio © Annika Carlsson Kanyama, Jonas Nässén e René Benders

La carne di agnello inquina venticinque volte più delle alternative vegetali

Le analisi riportate dai ricercatori poi non lasciano dubbi: la carne e i latticini generano emissioni nettamente più alte delle loro alternative a base vegetale e sostituirli con queste ultime permette di risparmiare tra il 32 e il 38 per cento delle emissioni. La carne di agnello inquina venticinque volte più del tofu, mentre quella di maiale cinque. Il latte di mucca inquina cinque volte di più del latte di avena e il formaggio tradizionale quattro volte di più di quello vegetale. I prezzi dei prodotti alternativi alla carne e ai latticini potrebbero essere sia più alti che più bassi dei loro corrispettivi, ma dipende sempre dalla qualità di quelli che vanno a sostituire.

Anche prestare attenzione alla provenienza delle verdure può comunque fare la differenza. Ad esempio, la lattuga che si trova nei supermercati inquina fino a dodici volte in più di quella coltivata localmente. Tuttavia, le emissioni di questi alimenti sono già di per sé basse, quindi secondo i ricercatori è l’acquisto di prodotti vegetali a far diminuire maggiormente il totale.

Le emissioni degli alimenti presi in esame © Annika Carlsson Kanyama, Jonas Nässén e René Benders

I prodotti di seconda mano emettono e costano meno

Per quanto riguarda i prodotti della casa, la ricerca ha dimostrato che quelli di seconda mano hanno in assoluto le emissioni più basse di tutte le altre alternative. In più, per alcune categorie, sono anche più economici. È il caso dei vestiti, ad esempio, i cui prezzi diminuiscono fino al 90 per cento.

Per il mobilio, i ricercatori hanno supposto che la stessa cifra venisse spesa per comprare lo stesso numero di prodotti, acquistati però di seconda mano o riparati. Il totale delle emissioni è sceso del 51-72 per cento.

Le emissioni dei prodotti per la casa presi in esame dallo studio © Annika Carlsson Kanyama, Jonas Nässén e René Benders

Le donne contribuiscono meno alla crisi climatica, ma ne soffrono di più le conseguenze

Oltre ad aver provato l’efficacia delle strategie di mitigazione, la ricerca ha anche scoperto che generalmente le donne emettono meno degli uomini. Questo scostamento non è da ricondursi ad una differenza di spesa, quanto di abitudini. Gli uomini tendono a spendere poco più delle donne (circa il 2 per cento), ma emettono il 16 per cento di gas ad effetto serra in più. Questo dipende da molti fattori: le donne spendono meno su prodotti e servizi che non emettono molto, mentre gli uomini spendono almeno il 70 per cento in più per prodotti e servizi con un impatto maggiore, come la benzina.

“È un classico: le donne spendono di più per arredare la casa, per la propria salute e per i vestiti, mentre gli uomini per le auto, per la benzina, per mangiare, bere o fumare”, ha spiegato al Guardian Annika Carlsson Kanyama, autrice dello studio. La ricercatrice si è anche detta sorpresa che non ci fossero più analisi sulle differenze dell’impronta climatica dei due sessi dato che le donne risultano essere tra i soggetti che contribuiscono meno alla crisi climatica, ma che allo stesso tempo ne soffrono di più le conseguenze. I risultati di questo studio, quindi, non dimostrano solo quanto le scelte dei consumatori possano davvero fare la differenza. Ma aprono anche un dibattito necessario sui legami tra la parità dei sessi e la protezione dell’ambiente.

fonte: www.lifegate.it


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Recupero di materia, ricerca e formazione, i pilastri dell’economia circolare

Il convegno on-line organizzato da Greentire. L’obiettivo è riuscire a dare visibilità alle competenze e all’innovazione








Recupero di materia, ricerca e sviluppo, e formazione. Sono questi i tre capisaldi su cui fondare l’economia circolare secondo il presidente di Greentire (la società che opera nel settore della gestione Pfu, i pneumatici fuori uso) Roberto Bianco, che ha aperto il convegno on-line ‘Il recupero di materia come pilastro del Green deal’. “Il settore Pfu in Italia è senz’altro un’eccellenza – dice Bianco – ma preferisco non focalizzare l’attenzione sulle filiere di riferimento quanto piuttosto far presente come questo comparto abbia ancora delle potenzialità inespresse”.

Obiettivo è riuscire a dare visibilità alle competenze e all’innovazione: anima dell’economia circolare e del riciclo pensando anche alla transizione ecologica e agli strumenti in atto per incentivare l’utilizzo della materia prima secondaria.

“Regolamentazione e progettazione sono fondamentali per passare da un modello di società lineare a un modello circolare – osserva l’ex sottosegretario a Palazzo Chigi Riccardo Fraccaro – serve un intervento importante dello Stato per orientare l’economia italiana”.

Secondo Rossella Muroni, vicepresidente della commissione Ambiente alla Camera, “a partire dal tema della scarsità di materie prime, l’economia circolare è la strada che società e imprese devono seguire per restare innovative e competitive, perseguendo la #sostenibilità. L’Italia ha tutte le carte in regola per farlo”. Anche perché – prosegue Muroni – il nostro Paese ha “una grande tradizione di recupero di materiali che ci permette di risparmiare e di tagliare le emissioni”. Però alle “imprese virtuose” della filiera dell’economia circolare bisogna dare una mano: “vanno sostenute, eliminando gli ostacoli burocratici, che fanno parte di quei blocchi non tecnologici”. E’ per questo che per esempio “i decreti ‘end of waste’ sono fondamentali; ma servono circa cinque anni per ottenerne uno. Troppo tempo”. Ora con l’esame del decreto Semplificazioni e governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – rileva ancora Muroni – “provo con due emendamenti a snellire queste procedure, e insieme a rafforzare il sistema dei controlli ambientali”.

E proprio quello legislativo è un elemento che per Bianco è essenziale: “Il contesto normativo dovrebbe premiare le condotte virtuose e penalizzare quelle fraudolente”. I pilastri dell’economia circolare, da sostenere, sono tre: “recupero di materia, che è anche la mission di Greentire, insieme con un necessario cambio di mentalità, fondamentale per vincere la scommessa, e ripensare il prodotto fin dalla progettazione; mentre i gestori dei rifiuti invece dovrebbero allontanarsi da una concezione aziendalista, così come i consumatori dovrebbero privilegiare i prodotti riciclati, senza pregiudizi. Altro punto fondante è la ricerca e sviluppo. Terzo: la formazione, sempre in un’ottica di miglioramento”.



fonte: www.rinnovabili.it


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Il glifosato danneggia il sistema immunitario degli insetti. La scoperta dei ricercatori americani



Il glifosato danneggia direttamente il sistema immunitario degli insetti. Questo potrebbe spiegare perché il suo impiego è associato a catastrofiche morìe di api e non solo, e perché potrebbe avere conseguenze anche su specie pericolose per l’uomo. Il nesso tra scomparsa di insetti utili e uso di glifosato è stato dimostrato da tempo, ma finora c’erano state pochissime ricerche sul meccanismo attraverso il quale si esplicherebbe questo tipo di tossicità. Ora però uno studio pubblicato su PLoS Biology dai ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora dimostra che cosa succede, almeno su due specie di insetti il cui destino è strettamente intrecciato con quello dell’uomo: la tarma della cera Galleria mellonella, detta anche camola del miele, e la zanzara Anopheles gambiae, vettore del plasmodio della malaria.

Entrambi utilizzano, per difendersi dai parassiti, una reazione chiamata di melanizzazione, mediata appunto dalla melanina, sostanza che protegge gli esseri umani dalle radiazioni solari. Negli insetti, invece, la melanina circonda i patogeni, mentre le specie chimiche altamente reattive che si formano durante la sua produzione causano la morte di batteri, funghi e parassiti di vario tipo. In presenza di glifosato, però, la sintesi di melanina è notevolmente diminuita, e questo rende l’insetto molto più vulnerabile. Inoltre l’erbicida altera pesantemente il microbiota degli insetti, indebolendoli ulteriormente.


Secondo lo studio dei ricercatori americani, il glifosato danneggia il sistema immunitario degli insetti, interferendo con un meccanismo di difesa basato sulla melanina

Nelle due specie studiate gli effetti sono immediati. L’Anopheles gambiae, infatti, diventa molto più suscettibile ai plasmodi. Di conseguenza potrebbe essere più pericolosa quando punge una persona, perché potrebbe veicolare molti più parassiti. Questo effetto, mai descritto prima, potrebbe essere molto grave, se si considera che i Paesi dove la malaria è endemica sono anche quelli dove sta aumentando l’impiego di glifosato, anziché diminuirlo.

La tarma della cera, invece, diventa più vulnerabile alle infezioni da Cryptococcus neoformans, un lievito che compromette la salute dell’insetto e che può infettare anche l’uomo, causando infezioni polmonari potenzialmente mortali. La melanizzazione è anche il sistema di difesa delle api, e ciò lascia intuire che, con ogni probabilità, le conseguenze sulla capacità di difendersi dai parassiti (per esempio dalla varroa) colpiscano anche loro.

I test sono stati compiuti sia con il principio attivo glifosato che con il suo principale metabolita, l’Ampa: non sembrano dunque esserci dubbi sul responsabile del danno al sistema immunitario. Per questi motivi gli autori si augurano che il glifosato faccia la fine del DDT, cioè sia presto vietato in tutto il mondo. I danni a esso associati, infatti, riguardano tutto l’ecosistema, esseri umani compresi, e potrebbero peggiorare in conseguenza dell’aumento della temperatura terrestre e della diffusione di alcune specie di insetti, come le zanzare Anopheles.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it


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Auto elettriche e disabili, le colonnine di ricarica sono ancora poco accessibili

Emerge un nuovo limite al pieno sviluppo delle auto elettriche: una ricerca inglese ha rilevato le criticità denunciate dagli automobilisti con disabilità.



Per la piena affermazione delle auto elettriche sono centrali i nodi dei costi per l’acquisto, dell’autonomia delle batterie e del numero delle infrastrutture di ricarica. Ma proprio rispetto all’ultimo elemento, una ricerca inglese evidenzia un altro aspetto problematico: quello dell’accessibilità delle persone disabili alle colonnine pubbliche. Lo studio, pubblicato dal Research institute for disabled consumers e commissionato da Urban Foresight – fornitore di colonnine urbane che fuoriescono dalla sede stradale al momento dell’uso – ha rivelato le preoccupazioni dei conducenti con mobilità ridotta rispetto alla ricarica dei mezzi al 100 per cento elettrici.


Propensi all’acquisto di auto elettriche ma preoccupati

Secondo l’indagine, la maggior parte dei conducenti disabili è propensa all’acquisto di auto elettriche, ma lo farà solo se le colonnine e i sistemi di collegamento fra i mezzi e la rete saranno resi più accessibili; nella forma attuale, infatti, oltre due intervistati su tre considerano la ricarica “difficile o molto difficile da effettuare”, un particolare che finisce per scoraggiarli. Vari aspetti del consueto processo di ricarica sono stati identificati come potenzialmente problematici, in particolare la rimozione del cavo dall’auto, l’inserimento dello spinotto e gli spostamenti tra il mezzo e la colonnina.


I problemi di accessibilità scoraggiano la maggior parte degli intervistati © Pixabay

Quelli che per molti sono considerati gesti di routine, diventano scogli insormontabili per persone anziane e disabili, compresi coloro che soffrono di artrite, malattie muscolari o controllo motorio compromesso, oppure che si stanno riprendendo da un ictus. Il 54 per cento ha affermato che sollevare il cavo di ricarica dal bagagliaio e poi collegarlo può essere un’operazione molto complessa; il 41 per cento teme di dover faticare troppo per portare il cavo al caricabatterie, a cui si aggiunge un 66 per cento che esprime preoccupazioni sui pericoli di inciampo sulle barriere attorno la colonnina.

Il rischio di escludere fasce consistenti di consumatori

Altre questioni emerse includono la preoccupazione per il collegamento di cavi pesanti e punti di connessione di ricarica fuori portata, quindi inutilizzabili per gli utenti in sedia a rotelle. Il risultato, a fronte di oltre due terzi degli intervistati che esprime il desiderio di possedere un veicolo elettrico, è una certa ritrosia a sposare in pieno la mobilità sostenibile.


Le colonnine per le auto elettriche non sono pensate per le persone con disabilità © Matt Cardy/Getty Images

Oppure, come nel caso di Mike Jones – un utilizzatore di sedia a rotelle di 52 anni e proprietario di un’auto elettrica – un’insoddisfazione successiva all’acquisto: “Volevo un modello a batteria poiché sono ansioso di fare la mia parte per proteggere l’ambiente, dato che faccio principalmente piccoli viaggi. Sono rimasto deluso, tuttavia, dalla mancanza di punti di ricarica pubblici vicino a dove vivo e dal fatto che le strutture di ricarica non sono progettate per gli utenti su sedia a rotelle, perché di solito non c’è molto spazio per manovrare”. Anche rispetto al grande tema della mobilità del futuro, in sostanza, c’è il rischio concreto di immettere sul mercato prodotti o servizi non pensati per tutti. Con il risultato di tagliare fuori fasce consistenti di consumatori che sarebbero pronte a fornire il proprio contributo, a vantaggio di tutti.

fonte: www.lifegate.it


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Ricerca. Con la mobilità elettrica nel 2030 l’inquinamento delle città crollerà dell’89%

Uno studio considera la dispersione in atmosfera e al suolo degli inquinanti e l'impatto delle emissioni a Torino, Milano, Bologna, Roma e Palermo nel 2025 e nel 2030


 

Con un ricambio del parco circolante di veicoli privati e della logistica verso una mobilità fatta da mezzi elettrici per il 2030, si avrebbe una riduzione dell'inquinamento fino all'89% in meno e dei costi sociali che si pagano in termini di salute fino a 3 miliardi di euro. Lo afferma il rapporto “Più mobilità elettrica: scenari futuri e qualità dell'aria nelle città italiane”, realizzato dall'Istituto sull'inquinamento atmosferico del Cnr in collaborazione con Motus-E, l'associazione italiana per lo sviluppo della mobilità elettrica in Italia.

Cinque città a confronto

Lo studio prende in considerazione la dispersione in atmosfera e al suolo degli inquinanti e l'impatto delle emissioni in cinque città: Torino, Milano, Bologna, Roma e Palermo. L'analisi guarda a due scenari: uno al 2025 e uno al 2030, con riferimento all'attuale parco circolante di veicoli privati e della logistica.
Nello scenario di ricambio del parco mezzi, "la penetrazione di una percentuale di veicoli elettrici gioca un ruolo fondamentale nella riduzione delle concentrazioni degli inquinanti locali, in particolare di NO2 (biossido di azoto)": si passerebbe da un minimo del 47% a Bologna a un massimo del 62% a Roma nello scenario al 2025; e dal 74% a Palermo fino all'89% nella Capitale, nello scenario al 2030. Impatto ridotto, ma comunque importante per il PM10. Se si osservano i risultati dello scenario 2025 la percentuale di riduzione parte da un minimo del 28% (caso Bologna) fino ad un massimo del 38% (caso Palermo); per lo scenario 2030 l'abbattimento non è così determinante come per NO2, la riduzione varia tra 34% e 46%.

fonte: www.e-gazette.it

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RIBES, rinnovabili e biodiversità fluviale al centro del progetto di ricerca

 

l progetto europeo RIBES, coordinato dal Politecnico di Torino, intende trovare soluzioni innovative per rendere la produzione di energia idroelettrica più compatibile con la biodiversità fluviale. Intervista al prof. Claudio Comoglio, coordinatore del progetto.


Un progetto di ricerca per rendere la produzione di energia idroelettrica più rispettosa della biodiversità fluviale. Si chiama RIBES- RIver flow regulation, fish BEhaviour and Status”, ed è voluto dall'Unione Europea. In Italia è coordinato dal Politecnico di Torino e vanta un obiettivo ambizioso: trovare soluzioni innovative per incrementare, da un lato, la produzione di energia da fonti rinnovabili come l'idroelettrico e per tutelare, dall'altro, gli habitat acquatici sempre più a rischio.

Per conoscere RIBES più a fondo e da vicino, abbiamo rivolto alcune domande al prof. Claudio Comoglio, docente del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture del Politecnico di Torino e coordinatore del progetto.

Da dove nasce l'esigenza di orientare l'innovazione nel campo dell'idroelettrico in modo che si accompagni alla tutela della biodiversità fluviale?

L’attività di ricerca prevista nel progetto RIBES si inserisce in uno scenario in cui di fatto sussiste un conflitto tra gli obiettivi di due strategie europee inerenti la tutela della biodiversità e la produzione di energia da fonti rinnovabili. Da un lato, nel 2016 le serie preoccupazioni relative alla continua perdita di biodiversità, al degrado degli ecosistemi acquatici e al mancato raggiungimento degli obiettivi della Strategia della UE per la Biodiversità 2020 hanno portato all’ urgente adozione di una nuova Risoluzione per l’attuazione di misure di ripristino degli ecosistemi; dall’altro, nel 2018 la UE ha incrementato al 32% gli obiettivi vincolanti di produzione di energia da fonte rinnovabile, dando così ulteriore impulso al settore idroelettrico per la realizzazione di nuovi impianti e l’ottimizzazione di quelli esistenti. In questo contesto, il progetto RIBES si propone di identificare soluzioni tecniche innovative che consentano di rendere maggiormente compatibili gli impianti idroelettrici e le opere di prelievo da corsi d’acqua.

Che impatto hanno infrastrutture come dighe e sbarramenti sull'ittiofauna e sugli ecosistemi fluviali?

Questa tipologia di manufatti in alveo determina la frammentazione della continuità del corso d’acqua, impedendo a numerosi organismi acquatici di avere accesso alle porzioni d’alveo in cui sono presenti habitat fondamentali per il loro ciclo vitale. In particolare i pesci, nel corso dell’anno e nell’arco della loro vita, compiono diversi spostamenti lungo i corsi d’acqua per trovare zone con adeguata disponibilità di risorse alimentari, aree idonee alla riproduzione ed allo sviluppo degli stadi giovanili e aree con condizioni idonee per superare periodi caratterizzati da condizioni ambientali particolarmente critiche. Dighe e sbarramenti impediscono tali dinamiche bidirezionali (da valle verso monte e viceversa), determinando un impatto significativo sulle popolazioni delle diverse specie. Inoltre, tali manufatti alterano le condizioni idrodinamiche del corso d’acqua (rilascio a valle di portate ridotte, creazione di ampie aree a ridotta velocità della corrente ed elevata profondità nell’invaso di monte), andando così a modificare drasticamente gli habitat precedentemente idonei alla presenza delle diverse specie.

Come è possibile ovviare a questo problema?

La realizzazione di dispositivi denominati “passaggi per pesci” costituisce la principale misura volta a mitigare gli impatti connessi all’interruzione della continuità fluviale presso gli sbarramenti, ed è finalizzata a consentire la libera circolazione alle diverse specie ittiche, ciascuna caratterizzata da diversi comportamenti, capacità natatorie e tempi di migrazione nell’arco dell’anno. Proprio la diversità di comportamento e di capacità natatorie delle numerose specie rende complessa la progettazione di dispositivi efficaci, che siano pienamente funzionali per 365 giorni all’anno e fruibili da tutte le specie, consentendo sia gli spostamenti verso monte che quelli verso valle. Nell’ambito del progetto RIBES, una particolare attenzione sarà pertanto rivolta all’individuazione di soluzioni tecniche innovative che possano rendere maggiormente efficaci tali misure mitigative e migliorare le modalità di monitoraggio della relativa efficacia.

Quali saranno, in breve, le metodologie e gli strumenti che verranno utilizzati?

Le attività di ricerca che saranno sviluppate dal dipartimento DIATI del Politecnico di Torino saranno finalizzate a studiare il comportamento natatorio di diverse specie ittiche migratorie endemiche del bacino padano, al variare delle condizioni idrodinamiche (velocità, turbolenza) presenti all’interno dei passaggi per pesci. In particolare si procederà all’analisi, mediante videoregistrazione, del relativo comportamento natatorio all’interno di un’innovativa canaletta idraulica portatile, che consentirà di effettuare direttamente presso il corso d’acqua esperimenti di laboratorio con condizioni idrauliche controllate. Queste innovative attività sperimentali verranno condotte tramite il MovingLab, il laboratorio mobile sviluppato dal DIATI nell’ambito del progetto cambiamenti_climatici@polito, che sarà direttamente utilizzato in campo lungo diversi corsi d’acqua piemontesi.

Quali obiettivi si propone di raggiungere nello specifico il progetto che porta avanti il Politecnico di Torino?

I risultati delle prove sperimentali forniranno informazioni utili per la tutela delle specie ittiche migratorie endemiche del bacino padano, andando ad incrementare l’attuale limitato stato delle conoscenze scientifiche relativo alla loro ecologia. Costituiranno, inoltre, un fondamentale elemento di input per migliorare gli attuali criteri di progettazione di passaggi per pesci, in modo da rendere tali dispositivi non selettivi e fruibili anche da tali specie minori, le cui popolazioni stanno manifestando un trend di progressivo e rapido declino.

Come previsto dalla struttura dei progetti UE Marie Curie, RIBES prevede percorsi formativi rivolti a 15 giovani ricercatori e ricercatrici nell’ambito dei corsi di Dottorato in 8 Università (Italia, Svezia, UK, Germania, Estonia e Belgio). Ciascuno di loro svilupperà un progetto di ricerca individuale all’interno di un network europeo di Università, enti pubblici, società di consulenza e produttori idroelettrici.

fonte: www.nonsoloambiente.it


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Plastica: il 31% della riciclata in Europa in realtà finisce nelle discariche in Asia

Parte della plastica raccolta in Europa non finisce nel circuito del riciclo, bensì nelle discariche e nei mari asiatici: è quanto rivela un nuovo studio.




Parte della plastica raccolta in Europa non finisce nelle strutture di riciclo, bensì nelle discariche e nei mari dell’Asia. È questo l’allarmante dato che emerge da una ricerca condotta dall’Università di Limerick e da NUI Galway, pronto a suggerire un ripensamento sia delle abitudini di consumo che nello smaltimento dei rifiuti.

Plastica negli oceani, intatta dopo 20 anni

Il Vecchio Continente rappresenta una delle aree del mondo dove la raccolta e il riciclo di plastica è più efficiente. Eppure, questo primato potrebbe non corrispondere alla realtà, poiché parte dei rifiuti recuperati non entra in un circolo virtuoso di riutilizzo ma finisce in discariche estere. Il 46% della plastica europea proveniente dalla raccolta differenziata viene infatti spedita in Paesi asiatici, dove le pratiche di recupero non sono standardizzate né sempre efficienti. Parte di questi rifiuti non finisce perciò negli impianti di riciclo, bensì viene semplicemente scaricata in discariche, per poi contribuire all’inquinamento degli oceani.

Plastica: i dati dello studio


Così come spiega lo studio, pubblicato su Environment International, i ricercatori hanno analizzato i dati sull’export del 2017. Da questi, hanno stimato due scenari – uno ridotto e l’altro estremo – sul peso della plastica europea nell’inquinamento asiatico. Dalle analisi, si ipotizza che tra le 32.115 e le 180.558 tonnellate all’anno di plastica – tra l’1 e il 7% del quantitativo totale esportato – finisca negli oceani. Se si considera anche la porzione che non finisce in mare, ma non entra in nessun circuito di riciclo, la percentuale sale al 31%.

George Bishop, uno degli autori dello studio, ha spiegato:


Questi risultati indicano un’importante e precedentemente sconosciuta via con cui la plastica entra negli oceani. Una via che ha un impatto sociale e ambientale considerevole sugli ecosistemi marini e sulle comunità costiere.

Piet Lens, docente di Tecnologie Energetiche per la National University of Ireland, ha aggiunto:


Per passare con successo a un’economia più circolare, le municipalità europee e le compagnie di gestione dei rifiuti devono essere considerate responsabili dell’esito finale della plastica “riciclata”.

Fonte: Science Daily


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Energia dal mare: Italia prima per tecnologie e investimenti pubblici nel Mediterraneo


Primi nell’Ue, in Europa ci batte solo il Regno Unito. Il nuovo decreto FER2 potrebbe dare un ulteriore grande slancio al settore



Il primo rapporto del progetto europeo OceanSET 2020, che ha analizzato investimenti e sviluppo tecnologico in Belgio, Finlandia, Francia, Irlanda, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Svezia ha concluso che «Con circa 5 milioni di euro l’anno l’Italia è al primo posto tra i Paesi mediterranei e al secondo in tutta Europa, subito dopo il Regno Unito, per finanziamenti pubblici all’energia dal mare».

Per l’Italia i dati sono stati raccolti ed elaborati da ENEA, rappresentante nazionale del SET-Plan Ocean Energy, il gruppo che implementa il Piano Strategico europeo di sviluppo delle tecnologie energetiche marine. Inoltre, Enea ricorda di essere «impegnata attivamente nel campo dell’energia dal mare sia con lo sviluppo di prototipi per lo sfruttamento energetico delle onde (impianto PEWEC) che con modelli climatologici e di previsioni ad alta risoluzione del moto ondoso (Waves) e delle maree (MITO)».

Gianmaria Sannino, responsabile del laboratorio Enea di Modellistica climatica e impatti, sottolinea che «Il settore dell’energia dal mare in Italia sta entrando in una fase operativa, precommerciale, grazie alle sperimentazioni in corso di prototipi sviluppati da enti di ricerca come ENEA, CNR e RSE, università e grandi aziende nazionali dell’energia. Ora è necessario consolidare questa posizione attraverso una programmazione di medio termine dei finanziamenti pubblici alla ricerca e il supporto degli incentivi allo sviluppo di questo settore delle rinnovabili. E, a questo proposito, siamo in attesa del nuovo decreto FER2 che potrebbe dare un ulteriore grande slancio al nostro settore».

All’ENEA spiegano che «In Europa la disponibilità di risorse energetiche marine è maggiore lungo la costa atlantica (in particolare in Irlanda e Scozia), ma il mar Mediterraneo non è da meno, anzi offre opportunità interessanti sia per produzione energetica che per sviluppo di tecnologie. Le aree con il più alto potenziale di energia dalle onde sono le coste occidentali della Sardegna e della Corsica, ma anche il Canale di Sicilia e le aree costiere di Algeria e Tunisia, dove il flusso medio di energia oscilla tra i 10 e i 13 kW/m. Mentre l’energia dalle maree può essere “estratta” principalmente nello Stretto di Messina, dove la produzione di energia potrebbe arrivare a 125 GW/h l’anno – una quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno energetico di città come la stessa Messina – grazie allo sfruttamento delle correnti che raggiungono velocità superiore a 2 metri al secondo. In questo contesto l’Italia si posizione come il paese più avanzato del bacino mediterraneo per ricerca e sviluppo di dispositivi, guadagnandosi una posizione di rilievo a livello internazionale. Infatti, le competenze scientifiche e industriali italiane, unite alle favorevoli condizioni climatiche del nostro mare, hanno consentito finora di condurre test meno rischiosi e più economici sui dispositivi hi-tech e di progettare sistemi innovativi sempre più efficienti per l’estrazione di energia».

Gli stanziamenti pubblici degli 11 Paesi europei presi in esame nel rapporto “Ocean SET 2020” sono stati pari a 26,3 milioni di euro, ma solo 6 Paesi – Italia, Francia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito e Spagna – hanno adottato politiche specifiche per lo sfruttamento dell’energia di maree e moto ondoso a fini energetici.

All’ENEA spiegano ancora che «Tra gli obiettivi a breve e medio termine, l’Unione europea ha posto la riduzione del costo del kWh dell’energia dalle maree (da 0,15 €/kWh nel 2025 a 0,10 €/kWh nel 2030) e dall’energia delle onde (da 0,20 €/kWh nel 2025 a 0,10 €/kWh nel 2035). A livello tecnologico, invece, sono stati finanziati 79 progetti di ricerca, di cui 57 per l’energia dalle onde e 22 dalle maree: in Italia i prototipi più promettenti sono 5, di cui 4 per le onde e 1 per le maree. Ma tra tutte queste iniziative, sono 12 i progetti europei (7 per l’energia dal mare e 4 dalle maree) più promettenti, che hanno raggiunto un livello molto avanzato di sviluppo tecnologico, consentendo di creare 200 nuovi posti di lavoro. Con una differenza significativa tra i due gruppi: i sistemi per l’estrazione di energia dalle maree utilizzano come tecnologia principale la turbina ad asse orizzontale, mentre per le onde non esiste un sistema predominante e questo lascia ampio margine alle sperimentazioni che spaziano da impianti a punti galleggianti fino a quelli a colonna d’acqua oscillante; ma tutti – considerato il loro elevato livello di maturità (TRL 7) – sono stati testati in ambienti operativi reale. Solo in Italia esistono siti di prova che si trovano a Pantelleria, Reggio Calabria, Napoli e in Adriatico».

Lanciato nel 2019, il progetto Ue OceanSET ha l’obiettivo di «fare il punto sulle tecnologie e i meccanismi di finanziamento attivi negli stati europei per promuovere una conoscenza condivisa su questa nuova fonte di energia pulita, su cui l’Europa potrebbe guadagnare la leadership a livello mondiale con un giro d’affari potenziale di oltre 50 miliardi di euro l’anno e la creazione di 400mila nuovi posti di lavoro al 2050».

Negli ultimi anni l’impegno di ENEA nei progetti dedicati all’energia del mare è stato intenso, con la partecipazione a progetti finanziati tra gli altri dal Fondo di sviluppo regionale europeo (PELAGOS): «A novembre 2019 inoltre è partito il progetto Interreg-MED BLUE DEAL, che ha lo scopo di superare le attuali restrizioni tecniche e amministrative alla diffusione della Blue Energy e di definire procedure e requisiti adeguati a supportare le decisioni nel rispetto dei vincoli normativi, ambientali e sociali. BLUE DEAL mira a identificare le migliori pratiche per la pianificazione, il collaudo e l’integrazione delle procedure per l’impiego della Blue Energy nelle regioni mediterranee e a stabilire un piano comune per la diffusione di queste tecnologie nell’area mediterranea. In circa tre anni verranno organizzati laboratori locali e transnazionali in diverse località costiere del Mediterraneo per coinvolgere le parti interessate, eseguire e verificare processi partecipativi di pianificazione e stabilire alleanze tra i settori pubblico e privato».

fonte: www.greenreport.it



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Fase 2: da un brevetto ENEA distanziatori ecosostenibili per la spiaggia

Sarà possibile utilizzare la Posidonia oceanica, una pianta marina che si deposita in grandi quantitativi sugli arenili mediterranei, per realizzare barriere di sicurezza ecologiche.

















Dal mondo della ricerca una soluzione green per assicurare il corretto distanziamento sulle spiagge nella fase post-emergenza COVID-19. L’idea è di utilizzare la Posidonia oceanica, una pianta marina che si deposita in grandi quantitativi sugli arenili mediterranei, per realizzare barriere di sicurezza ecologiche.
L’innovazione - sviluppata da ENEA in collaborazione con l’azienda Ecofibra - consiste in pannelli divisori imbottiti con Posidonia, raccolta ed essiccata, per separare gli ombrelloni e creare dei percorsi di accesso all’acqua, in linea con l’attuale normativa sanitaria.  
“L’utilizzo durante la stagione estiva di questi dispositivi economici, facilmente riutilizzabili e che possono essere realizzati anche con materiali 100% naturali, consentirebbe di rendere fruibili in sicurezza superfici di costa altrimenti non balneabili e di ridurre la dispersione di aerosol a beneficio della ricettività turistica”, spiega Sergio Cappucci del Laboratorio ingegneria sismica e prevenzione dei rischi naturali ENEA, che ha inventato e brevettato il sistema utile anche per stuoie, sdraio, cuscini e altri arredi, in un’ottica di economia circolare, protezione dell'ambiente e tutela della biodiversità, offrendo nuove opportunità di sviluppo economico.”
Questi prototipi di “separè”, ecologici, alti circa 120 cm e larghi 200 cm, sono dotati di telai in acciaio e fodera in plastica riciclata o in materiali naturali; a fine stagione l’imbottitura può essere semplicemente svuotata sulla spiaggia dove torneranno a svolgere l’originaria funzione di protezione dall’azione erosiva provocata dalle onde.
Rendering pannelli in spiaggia i dispositivi rappresentano inoltre una soluzione al problema della corretta gestione della posidonia spiaggiata che occupa molta superficie di spiaggia, generando cattivi odori: se raccolte insieme ad altri rifiuti, infatti, i cumuli devono essere smaltiti, con costi ingenti per operatori e amministrazioni locali che devono provvedere alla loro rimozione.
La Posidonia oceanica è un importante indicatore dello stato di salute del mare in grado anche di ridurre i fenomeni di erosione costiera, produrre ossigeno, contribuire alla conservazione delle degli ecosistemi e della biodiversità. La loro rimozione, oltre a sottrarre quantità elevate di sabbia alle spiagge, privandole della naturale protezione dalle mareggiate, sottrae biomassa e nutrienti importanti per gli ecosistemi costieri, con conseguente impoverimento della biodiversità. Un recente studio ha calcolato che la rimozione meccanica di posidonia spiaggiata, la cosiddetta “banquette”, in 19 spiagge ha fatto perdere in 9 anni (2010-2018) un volume di sabbia di oltre 39.000 mc, equivalenti a circa 30.000 tonnellate di sabbia.


fonte: www.greencity.it

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Fotovoltaico, cella tandem da record dai laboratori Enea

Perovskite e silicio con un’efficienza superiore al 26%.

















Un’innovativa cella solare “tandem” in perovskite e silicio con un’efficienza record superiore al 26% è stata messa a punto da un gruppo tutto italiano composto da ricercatori ENEA del Laboratorio di Tecnologie Fotovoltaiche, Università di Roma “Tor Vergata” (con il centro CHOSE), l’IIT – Istituto Italiano di Tecnologia (con Graphene Labs e il suo spin-off BeDimensional).
I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Joule (link in basso)
La cella sviluppata – spiega una nota stampa Enea – è composta da due celle solari accoppiate meccanicamente una sull’altra in modo da lavorare in tandem. La cella frontale, a base di perovskite, opportunamente dimensionata, converte bene la luce blu e verde dello spettro solare, lasciando passare la luce solare rossa ed infrarossa verso la cella posteriore realizzata in silicio.
“La combinazione dei due materiali massimizza l’assorbimento dei raggi solari e produce un’elevata foto-tensione, pari alla somma delle tensioni generate dalle due singole celle, producendo in questo modo una maggiore efficienza rispetto ad una singola cella solare”, sottolinea Mario Tucci, responsabile del Laboratorio Tecnologie Fotovoltaiche dell’ENEA.
Due elementi chiave nella realizzazione della cella tandem hanno permesso di ottenere alta efficienza: il grafene ha migliorato le prestazioni nella cella in perovskite, mentre l’eterogiunzione con film amorfi nella cella posteriore in silicio ha consentito di aumentarne la tensione. Finora è stata ottenuta l’efficienza record del 26,3%, ma l’obiettivo è di superare il 30%.
Grazie alla tecnica messa a punto dai ricercatori italiani nella struttura tandem delle celle, si spiega, è possibile conservare i vantaggi delle singole tecniche di fabbricazione, combinando la semplicità di realizzazione di film sottili in perovskite mediante “solution process” con la produzione di celle in silicio ad eterogiunzione.
fonte: https://www.qualenergia.it