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Il Bangladesh rinuncia alla costruzione di 10 centrali a carbone e punta al 40% di elettricità da energie rinnovabili. Ma non basta.

Il governo del Bangladesh ha annullato la costruzione di dieci centrali a carbone. Dieci. In una nota ufficiale, diffusa pochi giorni fa, ha motivato la propria decisione con l’aumento del costo economico del combustibile fossile più sporco al mondo e con le proteste ambientali e sociali portate avanti da cittadini e attivisti per il clima.




Dacca ferma la costruzione di 10 bombe ecologiche

Con una potenza complessiva di 8.451 megawatt (MW), le dieci centrali avrebbero dovuto incrementare la quantità di energia elettrica prodotta con il carbone, oggi ferma all’8 per cento del totale. Tra queste, figurava un impianto da 320 MW, che sarebbe dovuto sorgere sull’isola già ecologicamente fragile di Maheshkhali, e un sito da 1.200 MW, che avrebbe visto la partecipazione diretta del Giappone. In generale, la costruzione era prevista nelle zone costiere, dove risiedono 20mila persone.

“Quando il Bangladesh ha stilato nel 2010 il cronoprogramma del progetto, il carbone era economico ed era l’opzione migliore dopo il gas”, dichiara in nota Mohammad Hossain, a capo dell’area tecnica dedicata alle fuel cell del ministero dell’Energia del Bangladesh. “Ma il crollo deciso dei prezzi del solare fotovoltaico e la convenienza del gas naturale ha cambiato lo scenario. Considerando questi fattori, abbiamo pensato che abbiamo bisogno di più rinnovabili”.

A fargli eco Nasrul Hamid, a capo del ministero bengalese per l’Energia e l’Industria, che ha sottolineato l’insoddisfazione del governo per i progressi compiuti finora nella costruzione degli impianti. La decisione, assicura, non inciderà sulla generazione di elettricità nel breve e lungo termine. Considerato che sono in fase di costruzione otto centrali a carbone a fronte delle 18 previste inizialmente dal governo, come si può vedere nella mappa del Global Energy Monitor. La scelta del Bangladesh rappresenta in ogni caso un passo in avanti nel raggiungimento dell’obiettivo di produzione energetica del 40 per cento entro il 2041 da fonti rinnovabili.

Otto centrali a carbone in costruzione nel Bangladesh (dati aggiornati ad Aprile 2021) © Global Energy Monitor

Lo stop al carbone si merita il plauso degli attivisti

Gli attivisti plaudono la scelta, ricordando quanto le centrali a carbone incidano negativamente sull’ecosistema. “Questa è una decisione positiva, ha reso chiaro che ottenere fondi per le centrali elettriche a carbone a livello internazionale è diventato difficile”, ha affermato Syeda Rizwana Hasan, personaggio simbolo della protezione dell’ambiente nel paese e amministratrice delegata della Bangladesh environmental lawyers association. Con lo stop alle centrali, ha sottolineato, “il governo dovrà per forza pensare alle fonti rinnovabili come alternativa”.

Il Bangladesh è uno dei Paesi che spesso viene definito a rischio per le conseguenze dovute al riscaldamento globale, ovvero all’aumento della temperatura media globale. È già afflitto da tempeste e monsoni sempre più violenti e frequenti ed è minacciato dall’innalzamento del livello dei mari in quanto paese costiero. Segnali degli effetti incontrovertibili dei cambiamenti climatici e della decisione corretta presa dal governo.

fonte: www.lifegate.it



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Il più grande impianto fotovoltaico galleggiante del sud-est asiatico utilizza soluzioni ABB

ABB ha fornito Secondary Skid Unit per il complesso solare galleggiante Gia Hoet 1- Tam Bo in Vietnam








Il Vietnam sta vivendo una rapida industrializzazione e urbanizzazione e la domanda di ulteriori risorse energetiche si sta spostamento verso le fonti di energia rinnovabile. Con la crescita della domanda di energia del paese prevista al 10 per cento annuo, il Vietnam ha intrapreso enormi passi per accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili. La produzione di energia solare del paese è aumentata rapidamente e ha raggiunto circa 19,4k KWp nel 2020, superando di gran lunga l’obiettivo di 5 anni (2020-2025) fissato per la generazione di energia solare secondo il piano nazionale per lo sviluppo energetico. Con ciò, il Vietnam ha superato la Thailandia diventando il più grande mercato solare nel sud-est asiatico.

Poiché la priorità continua ad essere data all’ulteriore sviluppo delle fonti di energia solare fino a 12.000 MW entro il 2030 (3,3 per cento del mix energetico totale del paese), l’energia solare da impianti galleggianti diventerà un’importante fonte di energia nei prossimi anni.

I progetti Gia Hoet 1 e Tam Bo prevedono due centrali fotovoltaiche indipendenti. Il Gia Hoet 1 e il Tam Bo hanno rispettivamente una superficie di 40 e 41 ettari di superficie d’acqua. Con una capacità totale di 70 MWp, questo impianto, gestito da Toji Group JSC, è il più grande complesso di energia solare galleggiante nel sud-est asiatico. La fornitura di 10 Secondary Skid Unit (SSU) ha permesso di attivare l’impianto nel dicembre 2020, assicurando il rispetto della scadenza.

La SSU di ABB è una soluzione plug-and-play completa progettata per soddisfare tutti i requisiti di un grande impianto solare che contempla un gran numero di inverter di stringa da 800 V che sono stati collegati a un unico trasformatore da 6,3 MVA al fine di ridurre il numero di trasformatori e le opere di installazione. Tutte le apparecchiature sono testate per soddisfare il carico elevato richiesto durante il funzionamento dell’impianto.

Gli skid sono pre-ingegnerizzati, configurati e testati presso lo stabilimento di ABB in Vietnam prima di essere spediti ai clienti per un’installazione e una messa in servizio rapide per soddisfare i tempi stretti del progetto.


Per entrambi i complessi di energia solare Gia Hoet 1 e Tam Bo, la soluzione skid personalizzata include un quadro da 22kV SafePlus con relè di protezione della serie Relion® 605, trasformatore di potenza di distribuzione da 6300KVA e quadri di bassa tensione da 800V dotati di interruttori automatici aperti Emax 2 e Tmax T interruttori automatici scatolati, nonché collegamento al sistema SCADA.

La SSU ha una vasta gamma di capacità da 1000KVA a 6800KVA e la sua gamma di tensione è adatta a tutti gli inverter esistenti sul mercato. Con tutte le apparecchiature prodotte e testate in conformità con gli standard internazionali IEC e alcune in particolare conformi ai requisiti tecnici locali stabiliti dalla Vietnam Electricity Corporation come il quadro MT SafePlus, ABB SSU garantisce la sicurezza per l’operatore e il pubblico.

Il suo design robusto lo rende facile da trasportare e aiuta a ottimizzare il raffreddamento e quindi riduce il consumo di energia. Inoltre, il design personalizzato per i quadri BT offre anche un collegamento diretto comprendente 44 ingressi che consentono un’installazione ottimale delle scatole di collegamento e fanno risparmiare tempo e costi.

Ho Minh Tien, CEO di TOJI Group, ha dichiarato: “Il progetto aveva un programma molto serrato, quindi i tempi di consegna erano molto critici. ABB ha accorciato i tempi di consegna e ci ha permesso di avere le attrezzature in loco entro i tempi previsti. Inoltre, con tutte le apparecchiature pre installate, siamo stati in grado di ridurre al minimo i tempi di installazione, ridurre al minimo i rischi e ridurre i costi, garantendo al contempo gli standard internazionali di qualità e sicurezza “.

Il team ABB ha permesso a TOJI di ricevere le apparecchiature presso il sito una settimana prima della scadenza fissata nel piano di progetto. “Il supporto del team ABB ha ridotto notevolmente i tempi per mettere in funzione il progetto e ci ha aiutato a generare entrate prima del previsto”, ha aggiunto Tien.


“ABB e TOJI hanno una solida esperienza nella nostra cooperazione nel settore dell’energia solare in Vietnam. Siamo orgogliosi di essere un partner di TOJI in questo progetto e aiutare i nostri clienti a realizzare il progetto più velocemente ed in modo efficiente. Non vediamo l’ora di espandere la collaborazione con TOJI negli altri loro progetti futuri, nonché per aiutare gli sviluppatori a superare i progressi di esecuzione dei progetti e guidare il percorso di crescita verde del Vietnam”, ha detto Hien DoanVan, Direttore vendite di Electrification, ABB Vietnam.

Situata nella provincia di BacNinh, la fabbrica ABB produce quadri primari, stazioni compatte e personalizzate, comprese soluzioni digitali per applicazioni speciali e soddisfa gli standard industriali e internazionali più esigenti. Supportata da un forte team di ingegneri locali, la fabbrica serve i clienti dei Paesi dell’Asia e del Pacifico con i vantaggi di una struttura di produzione completa: progettazione, ingegneria, gestione del progetto, produzione e assistenza.

fonte: www.rinnovabili.it

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La Gran Bretagna "verde" esporta i rifiuti di plastica nei paesi poveri

Dal 1 gennaio 2021 Bruxelles li vieta verso paesi non Ocse. Ma la Brexit consente a Londra norme meno stringenti verso le discariche rappresentate dai paesi in via di sviluppo. E il flusso non si ferma, anzi



LONDRA - Il governo di Boris Johnson si dice orgogliosamente ambientalista, ha annunciato negli ultimi mesi decine di miliardi stanziati per la prossima "rivoluzione industriale verde" del Regno Unito e la stessa fidanzata del primo ministro, Carrie Symonds, è da sempre un'attivista contro il cambiamento climatico, oltre che animalista. Ora, però, si scopre che Londra, dopo la Brexit dello scorso 31 dicembre, continua a mandare centinaia di tonnellate di rifiuti di plastica ai Paesi in via di sviluppo nel mondo.



Una pratica che ha scatenato polemiche e indignazione negli ultimi anni, soprattutto dopo la diffusione di mari e terre del sud-est asiatico inondate di bottiglie, buste, giocattoli, contenitori di plastica, di cui una buona parte sinora è scaricata dai ricchi Paesi occidentali a quelli più poveri. Non a caso, l'Ue ha vietato dal 1 gennaio 2021 l'esportazione di rifiuti di plastica indifferenziati al paesi non Ocse. Invece, come riferisce il Guardian, a oggi lo stesso non ha fatto il Regno Unito che dunque, anche grazie alla scappatoia regolamentare legata alla Brexit, continuerà a mandare plastica indifferenziata soprattutto in Asia anche quest'anno, perlomeno nei primi mesi. Ciò nonostante il manifesto del partito di Johnson lo escludesse e lo stesso primo ministro abbia promesso di non eludere gli standard ambientali sinora condivisi con l'Ue.



Il Regno Unito è il secondo produttore di plastica al mondo ed esporta circa due terzi dei suoi rifiuti di plastica. Solo nel settembre 2020, Londra ne ha inviato 7133 tonnellate a Paesi non Ocse, come Malesia, Pakistan, Vietnam, Turchia e Indonesia, l'anno scorso uno degli stati che si è "ribellati" a questa pratica, rimandando gli stock verso il Canale della Manica. Il Ministero dell'Ambiente britannico però sottolinea il suo impegno a mettere al bando questa pratica nel corso del 2020, anche se sinora non è stato preciso sulle tempistiche.

Nel frattempo, il governo di Boris Johnson è stato criticato da vari addetti ai lavori. Sam Chetan-Welsh di Greenpeace Uk ha detto sempre al quotidiano britannico che "questa non è leadership ma non rispettare i principi basilari della questione". Per Tim Grabiel invece, legale dell'Environmental Investigation Agency, "tutti i 27 Paesi dell'Ue si sono adeguati a queste regole contro l'esportazione della plastica, speriamo che anche Londra decida di fare lo stesso...". Il prossimo autunno, il Regno Unito organizzerà insieme all'Italia e ospiterà a Glasgow, in Scozia, la cruciale Conferenza del Clima dell'Onu "Cop26".


fonte: gazzettadimantova.gelocal.it


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La Cina dal 1° gennaio vieta l'importazione di rifiuti. Ma adesso dove finiranno?

Finora il Paese gestiva quasi la metà dei rifiuti solidi globali provenienti da tutto il mondo. Ora deve occuparsi delle sue oltre 200mila tonnellate di rifiuti. Timori per nuovi mercati, non sempre regolamentati, nel sud est asiatico e in Turchia









Fra un paio di settimane finirà un'era, quella della Cina "pattumiera" del mondo, e inizierà ufficialmente un nuovo e complicato futuro per i rifiuti solidi di tutto il Pianeta. Dal primo gennaio 2021 la Cina vieterà infatti tutte le importazioni di rifiuti solidi da altri Paesi, sarà vietato anche lo scarico, il deposito e lo smaltimento in territorio cinese di rifiuti esteri. Un cambiamento epocale per una nazione che dagli anni Ottanta si occupa di smaltire e riciclare gli scarti del globo. Da ormai tre anni, le politiche "green" cinesi, hanno iniziato un percorso chiaro, prima con il divieto di importazione di 24 tipi di rifiuti solidi, tra cui carta non differenziata e tessuti, e poi con plastica e altri materiali. Fino al 2017 la Cina aveva lavorato quasi la metà dei prodotti riciclati di tutto il mondo, circa 45 milioni di tonnellate all'anno tra metallo, plastica e carta. Poi queste cifre sono iniziate a scendere vertiginosamente: 22,63 milioni di tonnellate nel 2018, 13,48 milioni nel 2019 e quest'anno, fino a novembre, appena 7,18 milioni, con un calo anno del 41%.
Dal prossimo anno scatterà il divieto totale, che potrà essere per i vari paesi del mondo un'opportunità per iniziare a ripensare come ridurre drasticamente certe produzioni e scarti di materiali, ma che potrebbe anche diventare un boomerang per la gestione dei rifiuti globale. Diversi paesi asiatici infatti - ha sottolineato un recente report di Greenpeace - dalla Malesia al Vietnam alla Thailandia sino all'Indonesia, hanno iniziato ad occuparsi dei rifiuti esteri, molti dei quali provenienti dall'Europa, con sistemi di smaltimento non sempre cristallini.

E questo è un problema: per esempio nella battaglia legata alla gestione della plastica, materiale di cui appena il 9% viene completamente riciclato e recuperato al mondo, il fatto che tonnellate di nuovi rifiuti plastici da Europa a Stati Uniti possano finire nei Paesi del Sud est asiatico preoccupa per la salute del Pianeta, avverte Greenpeace. Proprio questi paesi, tra l'altro, ospitano la maggior parte dei 10 fiumi più inquinati e più dannosi per il trasporto della plastica fino al mare e ai suoi fragili ecosistemi.

Anche l'Italia, sostiene un report di Greenpeace, non è esente da questi meccanismi, dato che siamo all'undicesimo posto tra i principali esportatori di rifiuti plastici al mondo. Nel 2018 abbiamo spedito all'estero 197mila tonnellate, per un giro di affari di 58,9 milioni di euro e lo scorso anno abbiamo esportato per esempio almeno 1300 tonnellate di plastica proprio in Malesia.

Nella Cina fra i paesi più impattanti al mondo a livello di emissioni climalteranti e che oggi promette un forte impegno a favore dell'ambiente, cresce dunque la consapevolezza della questione ecologica, tanto che nonostante molte economie locali siano basate proprio sull'import dei rifiuti, il nuovo divieto viene salutato quasi ovunque come positivo per il futuro green del Paese, una "vittoria" come l'ha definita Qiu Qiwen, responsabile del dipartimento dei rifiuti solidi e chimici del Ministero dell'Ecologia e dell'Ambiente (MEE).

Per le associazioni ambientalisti cinesi, come Greenpeace Asia, è "un'opportunità per tutti i Paesi per ridurre la produzione di rifiuti. Questo veto aumenta la pressione sui paesi esportatori di rifiuti affinché riflettano su come produrne meno, che è la vera soluzione alla crisi che stiamo affrontando".

A preoccupare però resta il fatto legato a chi sarà ora, con l'entrata in vigore del divieto totale, ad occuparsi delle enormi quantità di rifiuti plastici, di metallo e di carta, provenienti da tutto il mondo. Rapporti degli ambientalisti indicavano che già dopo i primi blocchi cinesi "la maggior parte della plastica è andata a paesi e regioni meno regolamentati su queste materie e nel sud-est asiatico che, in particolare, non ha restrizioni adeguate per impedire importazioni eccessive, o capacità reali di trattare tutta quella spazzatura".

Si stima addirittura che negli ultimi decenni la Cina sia occupata di quasi il 95% della plastica usata dell'Unione Europea e il 70% di quella degli Stati Uniti: è dunque ovvio che oggi, nonostante la produzione globale di scarti di plastica sia in calo, buona parte di questo materiale debba trovare nuovi mercati per l'export.

Tonnellate di plastica sono dirette ora sia nel sud est asiatico sia in Medio Oriente e Turchia, ma non sempre legalmente. A fine novembre, proprio in Italia, nel porto di Cagliari, sono stati posti sotto sequestro due container carichi di rifiuti plastici: venivano spediti in Turchia come materiale ex novo per l'industria della plastica, ma in realtà si trattava di rifiuti plastici provenienti da operazioni di trattamento. Secondo i carabinieri del Noe dopo il primo blocco cinese è in atto proprio una intensificazione di queste esportazioni di rifiuti plastici dall'Italia verso Stati dell'Europa orientale e dell'Asia.


Un problema, quello della gestione dei rifiuti esteri, che per la Cina dal 1° gennaio in poi non sarà più affar suo. Nel paese è infatti cresciuta in maniera esponenziale la produzione di scarti interni e ora la Cina si occuperà esclusivamente dei suoi rifiuti solidi: si parla di circa 215 milioni di tonnellate l'anno, che poi finiscono tra inceneritori e discariche. Per China Business News solo tra il 20 e il 30% dei rifiuti di plastica cinesi vengono poi realmente riciclati, ma per ovviare a queste carenze già dal 2019 la Cina ha concentrato nuove risorse economiche, oltre 15 miliardi di euro, per una gestione più efficace dei propri rifiuti. Undici città e cinque aree metropolitane sono state selezionate per avviare programmi di rifiuti zero, di riciclaggio e riduzione degli scarti.

Politiche che si affiancano, oltre alle promesse sulle emissioni zero entro il 2060, a iniziative legate per esempio a sacchetti non biodegradabili vietati da gennaio nelle grandi città, oppure vari veti per materiali non riciclabili. I cinesi hanno dunque deciso di concludere un'era per avviarne un'altra, più green e rispettosa dell'ambiente dicono, passando ora la palla agli altri Paesi, chiamati a una minore riduzione globale di rifiuti.

fonte: www.greenandblue.it

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Plastica: il 31% della riciclata in Europa in realtà finisce nelle discariche in Asia

Parte della plastica raccolta in Europa non finisce nel circuito del riciclo, bensì nelle discariche e nei mari asiatici: è quanto rivela un nuovo studio.




Parte della plastica raccolta in Europa non finisce nelle strutture di riciclo, bensì nelle discariche e nei mari dell’Asia. È questo l’allarmante dato che emerge da una ricerca condotta dall’Università di Limerick e da NUI Galway, pronto a suggerire un ripensamento sia delle abitudini di consumo che nello smaltimento dei rifiuti.

Plastica negli oceani, intatta dopo 20 anni

Il Vecchio Continente rappresenta una delle aree del mondo dove la raccolta e il riciclo di plastica è più efficiente. Eppure, questo primato potrebbe non corrispondere alla realtà, poiché parte dei rifiuti recuperati non entra in un circolo virtuoso di riutilizzo ma finisce in discariche estere. Il 46% della plastica europea proveniente dalla raccolta differenziata viene infatti spedita in Paesi asiatici, dove le pratiche di recupero non sono standardizzate né sempre efficienti. Parte di questi rifiuti non finisce perciò negli impianti di riciclo, bensì viene semplicemente scaricata in discariche, per poi contribuire all’inquinamento degli oceani.

Plastica: i dati dello studio


Così come spiega lo studio, pubblicato su Environment International, i ricercatori hanno analizzato i dati sull’export del 2017. Da questi, hanno stimato due scenari – uno ridotto e l’altro estremo – sul peso della plastica europea nell’inquinamento asiatico. Dalle analisi, si ipotizza che tra le 32.115 e le 180.558 tonnellate all’anno di plastica – tra l’1 e il 7% del quantitativo totale esportato – finisca negli oceani. Se si considera anche la porzione che non finisce in mare, ma non entra in nessun circuito di riciclo, la percentuale sale al 31%.

George Bishop, uno degli autori dello studio, ha spiegato:


Questi risultati indicano un’importante e precedentemente sconosciuta via con cui la plastica entra negli oceani. Una via che ha un impatto sociale e ambientale considerevole sugli ecosistemi marini e sulle comunità costiere.

Piet Lens, docente di Tecnologie Energetiche per la National University of Ireland, ha aggiunto:


Per passare con successo a un’economia più circolare, le municipalità europee e le compagnie di gestione dei rifiuti devono essere considerate responsabili dell’esito finale della plastica “riciclata”.

Fonte: Science Daily


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Mini-grid, potrebbero fornire elettricità a 500mln di persone nel 2030

La Banca Mondiale fa il punto sull’industria e il mercato globale, analizzando costi e innovazioni tecnologiche
















Da soluzione di nicchia a tecnologia mainstream per colmare l’attuale divario di accesso all’energia e accelerare la decarbonizzazione: questo il destino che attende le mini-grid (letteralmente “mini-reti”) con le giuste politiche di supporto. A sostenerlo è la World Bank nella pubblicazione Mini Grids for Half a Billion People: Market Outlook and Handbook for Decision Makers. Il rapporto è lo studio più completo mai effettuato sino ad oggi sul tema: il documento fa il punto sull’industria e il mercato globale, analizza i costi e le innovazioni tecnologiche e mostra l’importanza della microfinanza e delle attività che producono reddito. E stima che questa soluzione possa fornire elettricità a 500 milioni di persone entro il 2030, aprendo a strada ad un’espansione infrastrutturale più redditizia di quella attuale.

Cosa sono le mini-grid?

Ad oggi non esiste ancora una definizione universale di “mini rete”. Il termine identifica, generalmente, un sistema di distribuzione elettrica off-grid che coinvolga la produzione di energia su piccola scala e con una potenza nominale inferiore a 15 MW. Nati nei Paesi sviluppati e ad alto reddito, questi impianti rappresentano oggi la migliore soluzione per portare energia alle comunità remote nelle economie in via di sviluppo grazie ad una serie di vantaggi finanziari, tecnici e ambientali. Relativamente veloci e facili da implementare in aree senza elettricità, le mini-grid non richiedono necessariamente una fonte di combustibile tradizionale per essere alimentate. Possono infatti funzionare grazie a impianti solari, eolici, a biomasse o ibridi, riducendo i costi operativi e le emissioni associate.
Non solo: l’uso di mini reti diminuisce il tempo di funzionamento dei generatori a basso carico aumentando così l’efficienza dell’intero sistema. 

Le potenzialità delle mini-grid

“Le mini reti rappresentano oggi una delle soluzioni principali per la chiusura del gap di accesso energetico – spiega Riccardo Puliti, Senior Director of Energy and Extractives presso la Banca Mondiale – Siamo convinti che via sia un grande potenziale per il loro sviluppo su larga scala e stiamo lavorando con i Paesi per mobilitare attivamente investimenti pubblici e privati”. Globalmente, sono state installate almeno 19.000 mini-grid in 134 Nazioni, per un investimento totale di 28 miliardi di dollari e fornitura di elettricità che soddisfa 47 milioni di persone. L’Asia vanta attualmente il numero maggiore di installazioni, mentre l’Africa ha la quota maggiore di progetti pianificati. 

Tuttavia, la strada da compiere è ancora lunga: per portare l’elettricità ai quei 500 milioni di persone sopracitati serviranno 210mila nuovi impianti in questi due Continenti, per un investimento totale di 220 miliardi di dollari. “Ciò – spiega l’istituto – può essere ottenuto istituendo politiche che supportino programmi di elettrificazione completi, promuovendo modelli di business fattibili e fornendo finanziamenti pubblici, ad esempio attraverso sovvenzioni basate sulle prestazioni”.
Secondo gli autori del rapporto la maggior parte delle nuove mini-grid dovrebbe essere caratterizzata da un mix di fotovoltaico con batterie. Raggiungere un tale traguardo vedrebbe i costi dei moduli fotovoltaici scendere da 690 a 140 dollari il kWp (entro il 2030) mentre le batterie agli ioni di litio passerebbero da 598 $/ kWh a 62 $/ kWh.

fonte: www.rinnovabili.it

Microplastiche trovate nel 92% dei sali da cucina


Ricerca, inquinamento pesante in Asia, minore in Europa





















Anche il sale da cucina è contaminato dalle microplastiche. Molto pesantemente nei paesi del Sudest asiatico, dove si registra il maggior inquinamento del mare da plastica usa e getta. Ma pure in Italia e nel Nordeuropa, anche se in misura minore. Lo rivela una recente ricerca scientifica, pubblicata sulla rivista internazionale Environmental Science & Technology e nata dalla collaborazione tra Greenpeace e l'Università di Incheon in Corea del Sud.

Ben 36 dei 39 campioni di sale da cucina analizzati (il 92%), provenienti da diverse nazioni inclusa l'Italia, contenevano frammenti di plastica inferiori ai 5 millimetri, meglio noti come microplastiche. Dall'indagine, che ha preso in esame campioni di sale marino, di miniera e di lago, risulta che 36 campioni erano contaminati da microplastica costituita da Polietilene, Polipropilene e Polietilene Tereftalato (PET), ovvero le tipologie di plastica più comunemente utilizzate per produrre imballaggi usa e getta.

Di tutti i campioni analizzati, quelli provenienti dall'Asia hanno registrato i livelli medi di contaminazione più elevati, con picchi fino a 13 mila microplastiche in un campione proveniente dall'Indonesia. Questo paese, secondo studi recenti, è seconda per l'apporto globale di plastica nei mari.

I tre campioni di sale provenienti dall'Italia, due di tipo marino e uno di miniera, sono risultati contaminati dalle microplastiche con un numero di particelle compreso tra 4 e 30 unità per chilogrammo.

Considerando l'assunzione media giornaliera di 10 grammi, un adulto potrebbe ingerire, solo attraverso il consumo di sale da cucina, circa 2 mila pezzi di microplastiche all'anno, considerando la concentrazione media di microplastiche in tutti i sali analizzati. Se si considera invece il dato italiano peggiore, un adulto potrebbe arrivare a mangiarsi fino a 110 pezzi all'anno.


fonte: http://www.ansa.it

Da 10 fiumi arriva il 90% della plastica in mare















In Asia il grosso dei fiumi più inquinanti. Secondo gli esperti una gestione migliore dei corsi d'acqua potrebbe contribuire a dimezzare l'inquinamento 
Appena dieci fiumi nel mondo, di cui otto in Asia, sono responsabili della quasi totalità della plastica trasportata in mare. È quanto emerge da uno studio tedesco pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology dell'American Chemical Society. La plastica è la piaga numero uno degli oceani: questo materiale non si degrada mai completamente nell'ambiente ma si decompone in frammenti sempre più piccoli - le microplastiche - molto pericolosi perché vengono ingeriti dai pesci ed entrano nella catena alimentare. Recenti studi hanno riscontrato contaminazioni anche nell'acqua potabile.

Fiumi di plastica

I fiumi sono i principali traghettatori di rifiuti negli oceani, dove ogni anno, secondo stime del Programma ambiente delle Nazioni Unite (Unep), finiscono oltre 8 milioni di tonnellate di plastica. Ricerche precedenti hanno evidenziato che un quinto di tutta la plastica degli oceani arriva da attività marine, il restante proviene da terra. I ricercatori dell'Helmholtz Centre for Environmental Research e della Weihenstephan-Triesdorf University of Applied Science hanno analizzato dozzine di studi sull'inquinamento della plastica e raccolto campioni da 79 siti lungo 57 fiumi. Così hanno coperto un legame molto stretto fra un'inadeguata gestione dei rifiuti e concentrazioni molto alte di plastica nei corsi d'acqua locali.

Maglia nera all'Asia

Gli esperti hanno calcolato che i fiumi contribuiscono fino a 4 milioni di tonnellate all'anno di plastica negli oceani: dieci nel mondo sono responsabili da soli dall'88% al 95% di tutta la plastica portata in mare da corsi d'acqua. Si tratta dei fiumi Yangtze, Xi e Huanpu in Cina, del Gange in India, dell'Oyono al confine tra Camerun e Nigeria, di Brantas e Solo in Indonesia, del rio delle Amazzoni, per lo più in Brasile, del Pasig nelle Filippine e dell'Irrawaddy in Birmania.

Dimezzare l'inquinamento è possibile

Per gli esperti una migliore gestione dei dieci fiumi più inquinanti, in grado di ridurre della metà i rifiuti di plastica che trasportano in mare, andrebbe quasi a dimezzare (-45%) il contributo di tutti i fiumi all'inquinamento degli oceani. Un traguardo non da poco, visto che eliminare le micro particelle di plastica dagli oceani è praticamente impossibile, mentre ridurre l'inquinamento alla fonte sì. Dieci cose da fare per salvare i nostri oceani

fonte: http://tg24.sky.it

Napoli: 19mila euro per i comuni colpiti dal terremoto grazie a una straordinaria raccolta di carta e cartone

Le famiglie napoletane hanno incrementato del 130% la raccolta di carta e cartone contribuendo con 19 mila euro al progetto di Anci e Conai per aiutare i terremotati 














La partecipazione di Asia Napoli, alla campagna nazionale per contribuire alla ricostruzione dei Comuni colpiti dal terremoto del Centro Italia lanciata lo scorso settembre da Comieco in collaborazione con Anci e Conai, è stata valorizzata nell’ordine di circa 19mila euro per un incremento medio di circa il 130% di raccolta carta e cartone nella Città di Napoli.
È stato possibile raggiungere tale traguardo grazie, sia al contributo attivo sul territorio degli operatori Asia e sia alla pronta risposta delle famiglie napoletane.
A livello nazionale, l’incremento della raccolta, pari a
3.500 tonnellate di carta e cartone in più, che si è tradotto dunque in oltre 250.000 euro (7 euro ogni 100 kg di materiale raccolto) consegnati nelle mani dei Sindaci e dei rappresentanti dei Comuni di Amatrice, Arquata del Tronto, Valle Castellana, Accumoli, Norcia, Acquasanta Terme, Montegallo, Cascia, Montereale, Montefortino, Preci, Capitignano, Montemonaco, Monteleone di Spoleto, Campotosto, Rocca Santa Maria e Castelsantangelo sul Nera.

fonte: www.ecodallecitta.it




L’allarme dell’Onu: in Asia uno tsunami di rifiuti tecnologici













Aumenta la capacità media di spesa, aumentano consumi e consumatori, aumentano i rifiuti. Un paradigma difficile da sovvertire, tanto più se il consumo in questione è quello di prodotti tecnologici, sempre più numerosi e insostituibili nel paniere del cittadino globale. La quantità complessiva di device elettrici ed elettronici immessi sul mercato mondiale è in aumento costante ed è passata dalle 51,3 milioni di tonnellate del 2007 alle 56,6 milioni del 2012. Di queste, ben 26,7 sono finite sul mercato asiatico, di gran lunga la principale piazza al mondo per l’elettronica di consumo. Che adesso, però, rischia di essere sommersa da uno tsunami di rifiuti tecnologici. Complessivamente, nel 2014 l’Asia ha infatti generato la quota maggiore dei rifiuti elettrici ed elettronici prodotti a livello globale: 16 milioni di tonnellate. Di queste, una buona parte proviene dai Paesi dell’Est e del Sud-Est asiatico, dove crescita economica e boom dei consumi di device elettrici ed elettronici stanno andando di pari passo con un altrettanto impressionante aumento delle quantità di pattume tecnologico generate. Una crescita vertiginosa, superiore nel ritmo anche all’aumento della popolazione e registrata in uno studio realizzato dall’Università delle Nazioni Unite su 12 Paesi dell’Asia orientale, tra cui Cina, Giappone, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Cambogia.
Tra il 2010 ed il 2015, si legge nel dossier, la produzione di rifiuti tecnologici nei Paesi esaminati è aumentata del 63% per un totale di 12,3 milioni di tonnellate, pari ai tre quarti dei rifiuti generati in Asia nello stesso anno. Una montagna di pattume, equivalente a 2,4 volte il peso della grande piramide di Cheope, a Giza. La Cina, da sola, ha più che raddoppiato la sua produzione di pattume tecnologico, con un aumento del 107% nel periodo dal 2010 al 2015, generando nell’ultimo anno circa 6,7 milioni di tonnellate di rifiuti, più della metà dei rifiuti prodotti nell’area presa in esame dallo studio. E sebbene in Asia la produzione pro-capite si attesti “solo” a 3,7 kg – in Europa e Stati Uniti ogni cittadino ne produce quasi quattro volte di più, circa 15,6 kg – nei 12 Paesi esaminati dall’UNU la media pro-capite sale invece a 10 kg. In testa Hong Kong (21.7 kg), Singapore (19.95 kg) e Taiwan (19.13 kg). All’altra estremità della classifica Cambogia (1.10 kg), Vietnam (1.34 kg) e Filippine (1.35 kg).
Dietro l’impennata dei flussi di pattume tecnologico, secondo lo studio, vanno individuate quattro cause principali: aumento dei beni disponibili sul mercato (soprattutto gadget portatili – dagli smartphone ai tablet, fino agli smart watch), aumento della popolazione e della capacità di spesa in paesi con una classe media in forte espansione, riduzione della vita utile delle apparecchiature dettata dai fenomeni di obsolescenza e dalle mode, importazione su larga scala di prodotti tecnologici sia nuovi che usati. Questi ultimi non di rado provenienti da Paesi occidentali, che utilizzano il canale dell’usato per liberarsi – illegalmente e a costo ridotto – dei propri rifiuti tecnologici. Ad allarmare gli analisti, però, sono soprattutto i contraccolpi ambientali e sanitari che una simile ondata di rifiuti sta inevitabilmente generando. «Per molti paesi già scarsamente dotati di adeguati sistemi per una gestione sostenibile dei rifiuti elettrici ed elettronici, l’aumento dei volumi generati è causa di forte preoccupazione – spiega Ruediger Kuehr , ricercatore alla UNU e principale autore dello studio – appesantire ulteriormente i sistemi di raccolta e trattamento esistenti si traduce inevitabilmente in uno spostamento dei flussi verso forme di riciclo e smaltimento non compatibili con l’ambiente».
E se Giappone, Corea e Taiwan dispongono già dagli anni ’90 di sistemi adeguati di raccolta e gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici, paesi come Cina, Filippine, Malesia e Vietnam, secondo lo studio sono invece ancora in una “fase di transizione” ed affiancano ai nascenti canali ufficiali pratiche ancora molto diffuse di “backyard recycling”, ovvero di gestione informale del pattume tecnologico, generalmente in spazi aperti e in assenza di qualsiasi presidio ambientale o sanitario: dai roghi appiccati per separare il rame dalle guaine dei cavi, fino ai cosiddetti “bagni di acido” utilizzati per estrarre metalli preziosi dalle schede a circuiti stampati. Sistemi dall’impatto devastante sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori. «In assenza di misure protettive come guanti, occhiali e maschere, l’esposizione alle sostanze chimiche utilizzate nei processi danneggia gravemente la salute dei riciclatori informali» racconta Shunichi Honda, co autore dello studio. Ma le ripercussioni sulla salute non sono limitate ai soli riciclatori. «Diversi studi – prosegue Honda – confermano la correlazione tra le esposizioni a pratiche non corrette di trattamento dei rifiuti elettronici ed alterazioni nelle funzioni della tiroide, riduzione della capacità polmonare, malformazioni alla nascita, disturbi cognitivi nei bambini, citotossicità e genotossicità». «L’esposizione indiretta a queste sostanze è causa di numerose patologie per le famiglie dei riciclatori, che spesso vivono e lavorano nello stesso posto, così come per le comunità residenti nell’area circostante il sito di riciclo informale», aggiunge Deepali Sinha Khetriwal, Associate Programme Officer della UNU.

fonte: http://www.riciclanews.it