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Idrogeno, l’opzione energetica green per decarbonizzare















L’idrogeno può contribuire a frenare il riscaldamento globale e alla decarbonizzazione del sistema energetico. Per usare questo gas, entro il 2050 i 28 Stati membri della Ue dovrebbero investire grandi somme ma potrebbero creare 5,4 milioni di posti di lavoro. Sempre che Bruxelles, come promette la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, intenda davvero cambiare il modo in cui la Ue crea, distribuisce e consuma energia.

Lo sostiene lo studio Hydrogen Roadmap Europe, presentato a gennaio da 17 aziende e organizzazioni tra le quali Air Liquide, Bmw, Michelin, Total, Toyota Motor Europe (ma nessuna italiana). L’idrogeno non è l’unica leva per la decarbonizzazione ma “è una leva essenziale tra una serie di altre tecnologie” in quanto “rende possibile integrare su larga scala le energie rinnovabili perché consente di convertire e immagazzinare energia come gas rinnovabile. Può essere usato per distribuire energia e come mediatore per le energie rinnovabili”.

Secondo l’analisi, la transizione all’idrogeno è in linea con le preferenze e la convenienza dei clienti. Attraverso le pile a combustibile (fuel cell) nei trasporti l’idrogeno è un’opzione per decarbonizzare veicoli pesanti come i camion e le navi, perché offre la stessa autonomia e la stessa velocità di rifornimento dei veicoli a motore a combustione. Entro il 2050, l’idrogeno potrebbe anche essere usato per produrre combustibili sintetici (sinfuel) per il trasporto aereo e marittimo, rappresentando tra il 20% e il 50% della domanda di energia nei trasporti. Nell’industria l’idrogeno verrà usato principalmente per produrre acciaio e come materia prima. Un fronte sul quale l’Italia ha fatto la storia: a inizio dell’anno il pastificio Orogiallo di Contursi Terme, in provincia di Salerno, ha prodotto la sua pasta usando una miscela di idrogeno e gas naturale iniettata nella rete di trasmissione del gas italiano. L’idrogeno potrebbe poi servire per lo stoccaggio a lungo termine di energia: nel 2050, fino al 15% dell’elettricità prodotta verrà prima trasformata in idrogeno e riconvertita in elettricità quando necessario.

Nel riscaldamento, si possono miscelare idrogeno o metano sintetico rendendo la transizione “invisibile” per i consumatori. L’idrogeno potrebbe sostituire fino al 50% del metano, raggiungendo circa il 15% dell’energia totale usata negli edifici iniettandolo nella rete esistente del metano (fino al 10% del volume) e convertendo completamente le reti esistenti all’idrogeno. Un passaggio successivo al 100% di idrogeno richiederà invece il potenziamento di apparecchiature e tubazioni, ma lascerà intatta l’attuale infrastruttura di riscaldamento degli edifici. Nella maggior parte degli scenari, nel 2050 l’idrogeno e i carburanti derivati potranno rappresentare dal 10% al 23% dei consumi finali di energia della Ue.

Produrre la quantità necessaria di gas richiederà una quantità di acqua pari a un terzo di quella consumata oggi nel settore energetico. A seconda del modo in cui verrà prodotto, l’idrogeno “verde” (ottenuto con le energie rinnovabili) consumerà anche elettricità “pulita” pari all’80% della produzione totale odierna o, in alternativa, una quantità di metano equivalente al 45% dei consumi attuali, il che obbligherebbe però a catturare ogni anno 460 milioni di tonnellate di CO2 e ad immagazzinarla in circa 150 impianti di stoccaggio. Nel primo caso, saranno necessari investimenti fino a 410 miliardi di euro negli impianti di elettrolisi (produzione di idrogeno dall’acqua) oltre a 1.300 miliardi investiti nelle tecnologie di alimentazione. Nel secondo caso, saranno necessari investimenti fino a 140 miliardi, principalmente attraverso impianti per catturare e immagazzinare il carbonio (Ccs), mentre il costo del gas naturale dal quale sintetizzarlo sarebbe di 47 miliardi l’anno (ai prezzi attuali). Ma dalla diffusione dell’idrogeno entro il 2050 l’Unione potrebbe creare 5,4 milioni di posti di lavoro, il triplo degli occupati attuali nell’industria chimica europea.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

All’Italia piace anche fossile : fondi emotivi per cui vogliamo più gas

Serve per la transizione energetica, ma inquina (seppur meno). In 10 anni l’Ue ha destinato 5,5 miliardi a Tap&C. e continuerà a farlo nonostante i buoni propositi




Decarbonizzare, eliminare le fonti fossili, emissioni zero. I più attenti, negli ultimi anni, si sono accorti che nella dialettica italiana ed europea per la lotta in difesa del clima e per la guerra alle fonti fossili, c’è stato un intoccabile: il gas. Il motivo è semplice: nella transizione energetica rappresenta un passaggio fondamentale in assenza di una copertura adeguata delle fonti rinnovabili che sono discontinue per natura mentre per l’Italia è la principale fonte di approvvigionamento energetico, nutre la quasi totalità delle centrali elettriche ed è al centro di grandi interessi industriali di cui Tap, la Trans Adriatic Pipeline, è l’emblema.

La decisionedella Banca europea per gli investimenti (Bei), che la settimana scorsa ha annunciato lo stop dal 2022 dei fondi pubblici alle fonti fossili, gas incluso, è stata il frutto di una trattativa per un compromesso al ribasso durata mesi, durante la quale anche l’Italia si è messa di traverso. “La bozza originaria della Bei era molto ambiziosa – spiega Luca Bergamaschi esperto del think tank europeo E3G – prevedeva un nuovo target di riduzione dal 2020 anche con lo stop a caldaie a gas, ma ha trovato la resistenza di due gruppi. Il primo, formato da Germania, Italia e commissione Ue in difesa degli interessi industriali legati al gas (leggi Eni, Snam, Edison per l’Italia, Uniper e Wintershall per la Germania, con Nordstream2 e Tap, ndr). Il secondo, composto dai paesi del blocco di Visegrad che, dipendenti ancora molto dal carbone, vedono il gas come fonte di transizione”. Anche la seconda bozza, infatti, in ottobre viene bocciata: ancora troppe restrizioni. Il compromesso arriva a metà novembre. Lo stop inizierà dal 2022. Non solo restano i soldi per le infrastrutture già avviate, ma c’è anche spazio di manovra per prevederne nel bilancio comunitario 2021-2027.

Solo in Italia, dal 2009 a oggi, sono stati finanziati 28 progetti legati al gas per un totale di fondi assegnati pari a 5,5 miliardi di euro. Il 31 ottobre, la Commissione Ue ha pubblicato una lista di 32 (o 55 per gli ambientalisti) progetti Ue sul gas che potrebbero essere rifinanziati in tutta Europa e che comprendono rigassificatori in Irlanda, Croazia, Polonia, Cipro e Grecia oltreché il Corridoio Sud del gas, incluso il Tap. Sono progetti che hanno accesso al cosiddetto fondo “Connecting Europe Facility”, che sostiene programmi infrastrutturali di interesse comune e che possono essere co-finanziati dalla Bei. Se il nuovo budget dedicherà soldi a questo fondo, la Commissione potrà decidere se assegnarli o meno al gas. Ed è probabile che lo faccia. “Il budget europeo, insomma, sarebbe una buona opportunità per capire se il cambio di passo c’è davvero”, dice Bergamaschi.

I progetti italiani sono sei: Tap, tra Grecia e Italia per portare in Europa il gas dall’Azerbaijan; il corridoio per le interconnessioni del gas nord-sud tra Malta e Italia (Gela); il corridoio nord-sud per le interconnessioni nell’Europa centrale e del sud-est Ungheria-Slovenia-Italia (Gorizia); la pipeline “Poseidon” che connette Grecia e Italia a Otranto; il rafforzamento delle capacità di trasmissione in Italia inclusi l’Adriatica Line e il rafforzamento delle capacità Matagiola-Massafra; la Transalpine pipeline tra Trieste e Ingolstadt (Germania). “Indirizzare fondi e capitale politico sulle infrastrutture del gas – conclude Bergamaschi – ci rende ancora più dipendenti dall’importazione. È una diversificazione, certo, ma che crea una nuova dipendenza e promette continui finanziamenti a regimi altrettanto autoritari. La si sposta dalla Russia alla Turchia e all’Azerbaijan. Una dipendenza che oggi si può risolvere con più rinnovabili, efficienza energetica, interconnessioni elettriche e sistemi di stoccaggio e di gestione della domanda intelligenti”.

Se da un lato è vero che l’Italia importa circa il 90 per cento del gas per soddisfare il suo fabbisogno, dall’altro è utile guardare bene l’andamento della domanda in questi anni: i dati Ispra mostrano, ad esempio, che a parità di consumi totali e nel contesto di una complessiva riduzione del consumo di fonti fossili, dal 1990 al 2016 il ricorso al gas naturale è aumentato sì di quasi 20mila ktep ma è diminuito di 12 mila rispetto al 2005 e di 10 mila rispetto al 2010. Nel 2016, il consumo finale di energia per gas naturale è più basso del valore del 1995, ma anche di quello dei quinquenni successivi. Certo, contano il calo dei consumi e l’arrivo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, ma è anche vero che sono gli anni in cui il gas diventa giustamente il mezzo di transizione per eccellenza, la rete arriva in tutte le case. Il carbone, in Italia, è da tempo confinato alla sola industria pesante. Per le associazioni ambientaliste e la lobby delle rinnovabili, quindi, ora l’Italia non ha bisogno di ulteriori infrastrutture, soprattutto visto che ci sono almeno tre rigassificatori sottoutilizzati: “Se necessario – si legge in uno studio di E3G – possono soddisfare significative esigenze di importazione aggiuntive: la capacità totale è di circa 15 miliardi di metri cubi con l’infrastruttura attuale, circa il 30% del consumo annuale”.

Dalla sua, il gas è sicuramente meno inquinante delle altre fonti fossili. Ormai è però il primo responsabile di emissioni a gas serra in Italia: quasi 7 mila tonnellate sono fuggitive, cioè gas metano che fuoriesce dalle infrastrutture a gas. Nel secondo semestre del 2019, il gas per la produzione di elettricità è stato la causa principale dell’aumento di emissioni a effetto serra in Italia con una percentuale, solo nel ramo della produzione di energia, di quasi l’8% a un punto di distanza dal carbone. E a discapito delle rinnovabili. “L’incremento delle emissioni – scrive infatti l’Ispra – è dovuto principalmente all’incremento dei consumi di combustibili fossili per la produzione di energia collegata a una riduzione della produzione di energie rinnovabili”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Che fine ha fatto l’ambiente nella nota di aggiornamento al Def del governo?

Molti buoni propositi ma pochi numeri. E intanto peggiora ancora la decarbonizzazione del Paese: Enea, la quota di rinnovabili sui consumi finali è ferma ai valori del 2015























Dopo un’altalena di dichiarazioni contraddittorie e un ritardo di molti giorni rispetto a quanto programmato, la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def) del governo M5S-Lega è stata presentata – dopo aver informato la Commissione Ue – in Parlamento, con una novità importante: dopo il ruvido confronto con le istituzioni europee e l’impennata dello spread, il livello del deficit pubblico non è stato fissato al 2,4% per il prossimo triennio, ma soltanto per il prossimo anno. Rimane il problema: per fare cosa?
Il nodo sarà definitivamente sciolto solo con la legge di Bilancio che il governo gialloverde si appresta a varare, definita dal ministro dell’Economia Giovanni Tria come «coraggiosa e responsabile, puntando alla crescita e al benessere dei cittadini, assicurando in seguito un profilo di riduzione del deficit, che passerà dal 2.4% del 2019 al 2.1% del 2020 per chiudere all’1.8% del 2021». Il tutto insieme a un pacchetto di misure che «porterà un aumento della crescita all’1.5 per cento nel 2019 per arrivare all’1.6 e l’1.4 negli anni successivi». Stime assai generose rispetto a quelle fornite ad oggi da fonti nazionali (come Confindustria) e internazionali, ma tant’è.
In tutto questo quale ruolo è stato riservato allo sviluppo sostenibile nei progetti del governo? All’interno delle 138 pagine della nota di aggiornamento al Def (disponibile qui https://goo.gl/5AsLn7) viene dedicato al tema il paragrafo Ambiente e energia, dove in realtà si spazia dalla volontà di intervenire «sulla Legge-quadro sulle aree protette» a quella di promuovere «un’efficace integrazione del Capitale naturale nelle valutazioni e nei sistemi di monitoraggio delle politiche», dall’obiettivo di «garantire l’accesso all’acqua quale bene comune e diritto umano universale» a quelli di «limitare il consumo del suolo, prevenire il rischio idrogeologico», del «contenimento delle emissioni del particolato PM 10 e del biossido di azoto NO2» o di «governare la transizione verso l’economia circolare e i ‘rifiuti zero’». Nessun obiettivo quantitativo viene però dettagliato su questi fronti, coerentemente del resto con il contratto di governo M5S-Lega, rendendo difficile seguire l’attuazione di questi buoni propositi. Un target invece è presente per quanto riguarda le energie rinnovabili, anche se a lunghissimo termine: «Obiettivo generale – si legge nella nota di aggiornamento al Def – è arrivare al 2050 con un sistema energetico alimentato solo da fonti rinnovabili e sostenibili. In tale contesto, sarà varato il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, finalizzato a raggiungere gli obiettivi europei per il 2030». Nel documento si legge che tale Piano è «in fase di definizione e da presentare alla Commissione Ue entro la fine del 2019», sperando naturalmente si tratti di un refuso: il primo Piano dovrà arrivare a Bruxelles entro 1 gennaio 2019, ovvero tra poco meno di tre mesi. E su questo fronte l’Italia non è messa bene.
Come spiega infatti l’Enea nel corso del primo semestre 2018 i consumi di energia primaria in Italia sono cresciuti del 3,2% e quelli di petrolio del 4,5%; nonostante la crescita delle rinnovabili nel loro insieme (+9%) peggiora (-9%) l’indice Ispred elaborato dall’Agenzia nazionale proprio «per monitorare la transizione energetica: si tratta del decimo decremento consecutivo in relazione al deterioramento di tutte e tre le sue componenti: prezzi, decarbonizzazione, sicurezza energetica. Lato de carbonizzazione – argomenta l’Enea – la riduzione delle emissioni nel primo semestre 2018 è stata dello 0,7% rispetto al I semestre 2017, segnando una sostanziale stabilità negli ultimi due anni, mentre gli obiettivi europei richiederebbero una discesa molto più rapida. A frenare la decarbonizzazione anche la quota di Fer sui consumi finali che, per il quarto anno consecutivo, si attesta sui valori raggiunti nel 2015». Ma se la politica tergiversa, il clima non aspetta.
fonte: www.greenreport.it