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Autoconsumo collettivo in condominio, i progetti pilota scelti da RSE
Sono 9 i progetti scelti da RSE per svolgere una analisi costi-benefici dell’autoconsumo collettivo condominiale, dal punto di vista energetico, economico, ambientale e sociale.
Nell'ambito del Piano Triennale di Ricerca di Sistema 2019-2021, RSE aveva lanciato lo scorso autunno la selezione di progetti pilota con lo scopo di coinvolgere i diversi attori della filiera in uno studio sulla futura configurazione che prenderà il sistema energetico nazionale nel prossimo decennio. Anche in vista del recepimento delle direttive sulle rinnovabili (direttiva 2018/2001/Ue) e sul mercato elettrico (direttiva 2019/944/Ue), che danno la possibilità ai consumatori di energia di associarsi per realizzare forme di autoconsumo collettivo, anche sotto forma di comunità energetiche.
Tra i 24 progetti presentati da 14 proponenti, ne sono stati scelti 9 su cui condurre studi di approfondimento ed analisi dei benefici, che RSE svolgerà nei prossimi mesi.
Tra questi anche il progetto pilota di autoconsumo collettivo condominiale promosso da ènostra e Sinergia, in collaborazione con Encore e che sarà condotto sul Social Housing QUI ABITO, sito nel Quartiere sud di Padova, realizzato dal Fondo Veneto Casa e gestito dalla Cooperativa Città So.la.re.
Nell’ambito della sperimentazione saranno raccolti e analizzati i dati di consumo elettrico e domanda termica delle utenze, saranno modellizzati i prelievi e le immissioni di energia in rete e sarà effettuata una ripartizione dell’autoconsumo tra i diversi soggetti partecipanti con analisi dei costi benefici per i diversi profili.
Si prevede inoltre la simulazione dell’impatto, oltre che dell’impianto FV condominiale attuale, di un possibile incremento della potenza installata al fine di valutarne l’ottimizzazione sia sulla quota di autoconsumo sugli usi comuni (autoconsumo reale), sia su quelli dei consumi individuali (autoconsumo virtuale).
"Tra gli impatti attesi dell’esperienza pilota di autoconsumo collettivo, che ci stanno più a cuore”, sottolinea Sara Capuzzo, Presidente di ènostra e coordinatrice del progetto, "sono quelli di carattere ambientale e, ancor più, sociale: una maggiore consapevolezza e un uso più razionale dell’energia da parte dei condomini; la riduzione della spesa energetica, con particolare attenzione ai consumatori vulnerabili; l’attivazione di iniziative collettive in tema di energia e di beni comuni che favoriscano l’interazione tra condomini e l’inclusione; la realizzazione di modelli equi e replicabili di produzione diffusa e autoconsumo che riconoscano ai cittadini il ruolo di protagonisti; l’evoluzione di rapporti reciprocamente vantaggiosi tra gli stakeholder coinvolti (gestore sociale, proprietario immobili, locatari, ecc.)".
Riferimenti
• Direttiva Parlamento europeo e Consiglio Ue 2018/2001/Ue - Direttiva sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili (rifusione) - Abrogazione direttiva 2009/28/Ce
in Nextville (Osservatorio di normativa energetica)
• Direttiva Parlamento europeo e Consiglio Ue 2019/944/Ue - Direttiva relativa a norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica - Modifica alla direttiva 2012/27/Ue
in Nextville (Osservatorio di normativa energetica)
fonte: www.nextville.it
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All’Italia piace anche fossile : fondi emotivi per cui vogliamo più gas
Serve per la transizione energetica, ma inquina (seppur meno). In 10 anni l’Ue ha destinato 5,5 miliardi a Tap&C. e continuerà a farlo nonostante i buoni propositi

Decarbonizzare, eliminare le fonti fossili, emissioni zero. I più attenti, negli ultimi anni, si sono accorti che nella dialettica italiana ed europea per la lotta in difesa del clima e per la guerra alle fonti fossili, c’è stato un intoccabile: il gas. Il motivo è semplice: nella transizione energetica rappresenta un passaggio fondamentale in assenza di una copertura adeguata delle fonti rinnovabili che sono discontinue per natura mentre per l’Italia è la principale fonte di approvvigionamento energetico, nutre la quasi totalità delle centrali elettriche ed è al centro di grandi interessi industriali di cui Tap, la Trans Adriatic Pipeline, è l’emblema.
La decisionedella Banca europea per gli investimenti (Bei), che la settimana scorsa ha annunciato lo stop dal 2022 dei fondi pubblici alle fonti fossili, gas incluso, è stata il frutto di una trattativa per un compromesso al ribasso durata mesi, durante la quale anche l’Italia si è messa di traverso. “La bozza originaria della Bei era molto ambiziosa – spiega Luca Bergamaschi esperto del think tank europeo E3G – prevedeva un nuovo target di riduzione dal 2020 anche con lo stop a caldaie a gas, ma ha trovato la resistenza di due gruppi. Il primo, formato da Germania, Italia e commissione Ue in difesa degli interessi industriali legati al gas (leggi Eni, Snam, Edison per l’Italia, Uniper e Wintershall per la Germania, con Nordstream2 e Tap, ndr). Il secondo, composto dai paesi del blocco di Visegrad che, dipendenti ancora molto dal carbone, vedono il gas come fonte di transizione”. Anche la seconda bozza, infatti, in ottobre viene bocciata: ancora troppe restrizioni. Il compromesso arriva a metà novembre. Lo stop inizierà dal 2022. Non solo restano i soldi per le infrastrutture già avviate, ma c’è anche spazio di manovra per prevederne nel bilancio comunitario 2021-2027.
Solo in Italia, dal 2009 a oggi, sono stati finanziati 28 progetti legati al gas per un totale di fondi assegnati pari a 5,5 miliardi di euro. Il 31 ottobre, la Commissione Ue ha pubblicato una lista di 32 (o 55 per gli ambientalisti) progetti Ue sul gas che potrebbero essere rifinanziati in tutta Europa e che comprendono rigassificatori in Irlanda, Croazia, Polonia, Cipro e Grecia oltreché il Corridoio Sud del gas, incluso il Tap. Sono progetti che hanno accesso al cosiddetto fondo “Connecting Europe Facility”, che sostiene programmi infrastrutturali di interesse comune e che possono essere co-finanziati dalla Bei. Se il nuovo budget dedicherà soldi a questo fondo, la Commissione potrà decidere se assegnarli o meno al gas. Ed è probabile che lo faccia. “Il budget europeo, insomma, sarebbe una buona opportunità per capire se il cambio di passo c’è davvero”, dice Bergamaschi.
I progetti italiani sono sei: Tap, tra Grecia e Italia per portare in Europa il gas dall’Azerbaijan; il corridoio per le interconnessioni del gas nord-sud tra Malta e Italia (Gela); il corridoio nord-sud per le interconnessioni nell’Europa centrale e del sud-est Ungheria-Slovenia-Italia (Gorizia); la pipeline “Poseidon” che connette Grecia e Italia a Otranto; il rafforzamento delle capacità di trasmissione in Italia inclusi l’Adriatica Line e il rafforzamento delle capacità Matagiola-Massafra; la Transalpine pipeline tra Trieste e Ingolstadt (Germania). “Indirizzare fondi e capitale politico sulle infrastrutture del gas – conclude Bergamaschi – ci rende ancora più dipendenti dall’importazione. È una diversificazione, certo, ma che crea una nuova dipendenza e promette continui finanziamenti a regimi altrettanto autoritari. La si sposta dalla Russia alla Turchia e all’Azerbaijan. Una dipendenza che oggi si può risolvere con più rinnovabili, efficienza energetica, interconnessioni elettriche e sistemi di stoccaggio e di gestione della domanda intelligenti”.
Se da un lato è vero che l’Italia importa circa il 90 per cento del gas per soddisfare il suo fabbisogno, dall’altro è utile guardare bene l’andamento della domanda in questi anni: i dati Ispra mostrano, ad esempio, che a parità di consumi totali e nel contesto di una complessiva riduzione del consumo di fonti fossili, dal 1990 al 2016 il ricorso al gas naturale è aumentato sì di quasi 20mila ktep ma è diminuito di 12 mila rispetto al 2005 e di 10 mila rispetto al 2010. Nel 2016, il consumo finale di energia per gas naturale è più basso del valore del 1995, ma anche di quello dei quinquenni successivi. Certo, contano il calo dei consumi e l’arrivo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, ma è anche vero che sono gli anni in cui il gas diventa giustamente il mezzo di transizione per eccellenza, la rete arriva in tutte le case. Il carbone, in Italia, è da tempo confinato alla sola industria pesante. Per le associazioni ambientaliste e la lobby delle rinnovabili, quindi, ora l’Italia non ha bisogno di ulteriori infrastrutture, soprattutto visto che ci sono almeno tre rigassificatori sottoutilizzati: “Se necessario – si legge in uno studio di E3G – possono soddisfare significative esigenze di importazione aggiuntive: la capacità totale è di circa 15 miliardi di metri cubi con l’infrastruttura attuale, circa il 30% del consumo annuale”.
Dalla sua, il gas è sicuramente meno inquinante delle altre fonti fossili. Ormai è però il primo responsabile di emissioni a gas serra in Italia: quasi 7 mila tonnellate sono fuggitive, cioè gas metano che fuoriesce dalle infrastrutture a gas. Nel secondo semestre del 2019, il gas per la produzione di elettricità è stato la causa principale dell’aumento di emissioni a effetto serra in Italia con una percentuale, solo nel ramo della produzione di energia, di quasi l’8% a un punto di distanza dal carbone. E a discapito delle rinnovabili. “L’incremento delle emissioni – scrive infatti l’Ispra – è dovuto principalmente all’incremento dei consumi di combustibili fossili per la produzione di energia collegata a una riduzione della produzione di energie rinnovabili”.
fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Decarbonizzare, eliminare le fonti fossili, emissioni zero. I più attenti, negli ultimi anni, si sono accorti che nella dialettica italiana ed europea per la lotta in difesa del clima e per la guerra alle fonti fossili, c’è stato un intoccabile: il gas. Il motivo è semplice: nella transizione energetica rappresenta un passaggio fondamentale in assenza di una copertura adeguata delle fonti rinnovabili che sono discontinue per natura mentre per l’Italia è la principale fonte di approvvigionamento energetico, nutre la quasi totalità delle centrali elettriche ed è al centro di grandi interessi industriali di cui Tap, la Trans Adriatic Pipeline, è l’emblema.
La decisionedella Banca europea per gli investimenti (Bei), che la settimana scorsa ha annunciato lo stop dal 2022 dei fondi pubblici alle fonti fossili, gas incluso, è stata il frutto di una trattativa per un compromesso al ribasso durata mesi, durante la quale anche l’Italia si è messa di traverso. “La bozza originaria della Bei era molto ambiziosa – spiega Luca Bergamaschi esperto del think tank europeo E3G – prevedeva un nuovo target di riduzione dal 2020 anche con lo stop a caldaie a gas, ma ha trovato la resistenza di due gruppi. Il primo, formato da Germania, Italia e commissione Ue in difesa degli interessi industriali legati al gas (leggi Eni, Snam, Edison per l’Italia, Uniper e Wintershall per la Germania, con Nordstream2 e Tap, ndr). Il secondo, composto dai paesi del blocco di Visegrad che, dipendenti ancora molto dal carbone, vedono il gas come fonte di transizione”. Anche la seconda bozza, infatti, in ottobre viene bocciata: ancora troppe restrizioni. Il compromesso arriva a metà novembre. Lo stop inizierà dal 2022. Non solo restano i soldi per le infrastrutture già avviate, ma c’è anche spazio di manovra per prevederne nel bilancio comunitario 2021-2027.
Solo in Italia, dal 2009 a oggi, sono stati finanziati 28 progetti legati al gas per un totale di fondi assegnati pari a 5,5 miliardi di euro. Il 31 ottobre, la Commissione Ue ha pubblicato una lista di 32 (o 55 per gli ambientalisti) progetti Ue sul gas che potrebbero essere rifinanziati in tutta Europa e che comprendono rigassificatori in Irlanda, Croazia, Polonia, Cipro e Grecia oltreché il Corridoio Sud del gas, incluso il Tap. Sono progetti che hanno accesso al cosiddetto fondo “Connecting Europe Facility”, che sostiene programmi infrastrutturali di interesse comune e che possono essere co-finanziati dalla Bei. Se il nuovo budget dedicherà soldi a questo fondo, la Commissione potrà decidere se assegnarli o meno al gas. Ed è probabile che lo faccia. “Il budget europeo, insomma, sarebbe una buona opportunità per capire se il cambio di passo c’è davvero”, dice Bergamaschi.
I progetti italiani sono sei: Tap, tra Grecia e Italia per portare in Europa il gas dall’Azerbaijan; il corridoio per le interconnessioni del gas nord-sud tra Malta e Italia (Gela); il corridoio nord-sud per le interconnessioni nell’Europa centrale e del sud-est Ungheria-Slovenia-Italia (Gorizia); la pipeline “Poseidon” che connette Grecia e Italia a Otranto; il rafforzamento delle capacità di trasmissione in Italia inclusi l’Adriatica Line e il rafforzamento delle capacità Matagiola-Massafra; la Transalpine pipeline tra Trieste e Ingolstadt (Germania). “Indirizzare fondi e capitale politico sulle infrastrutture del gas – conclude Bergamaschi – ci rende ancora più dipendenti dall’importazione. È una diversificazione, certo, ma che crea una nuova dipendenza e promette continui finanziamenti a regimi altrettanto autoritari. La si sposta dalla Russia alla Turchia e all’Azerbaijan. Una dipendenza che oggi si può risolvere con più rinnovabili, efficienza energetica, interconnessioni elettriche e sistemi di stoccaggio e di gestione della domanda intelligenti”.
Se da un lato è vero che l’Italia importa circa il 90 per cento del gas per soddisfare il suo fabbisogno, dall’altro è utile guardare bene l’andamento della domanda in questi anni: i dati Ispra mostrano, ad esempio, che a parità di consumi totali e nel contesto di una complessiva riduzione del consumo di fonti fossili, dal 1990 al 2016 il ricorso al gas naturale è aumentato sì di quasi 20mila ktep ma è diminuito di 12 mila rispetto al 2005 e di 10 mila rispetto al 2010. Nel 2016, il consumo finale di energia per gas naturale è più basso del valore del 1995, ma anche di quello dei quinquenni successivi. Certo, contano il calo dei consumi e l’arrivo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, ma è anche vero che sono gli anni in cui il gas diventa giustamente il mezzo di transizione per eccellenza, la rete arriva in tutte le case. Il carbone, in Italia, è da tempo confinato alla sola industria pesante. Per le associazioni ambientaliste e la lobby delle rinnovabili, quindi, ora l’Italia non ha bisogno di ulteriori infrastrutture, soprattutto visto che ci sono almeno tre rigassificatori sottoutilizzati: “Se necessario – si legge in uno studio di E3G – possono soddisfare significative esigenze di importazione aggiuntive: la capacità totale è di circa 15 miliardi di metri cubi con l’infrastruttura attuale, circa il 30% del consumo annuale”.
Dalla sua, il gas è sicuramente meno inquinante delle altre fonti fossili. Ormai è però il primo responsabile di emissioni a gas serra in Italia: quasi 7 mila tonnellate sono fuggitive, cioè gas metano che fuoriesce dalle infrastrutture a gas. Nel secondo semestre del 2019, il gas per la produzione di elettricità è stato la causa principale dell’aumento di emissioni a effetto serra in Italia con una percentuale, solo nel ramo della produzione di energia, di quasi l’8% a un punto di distanza dal carbone. E a discapito delle rinnovabili. “L’incremento delle emissioni – scrive infatti l’Ispra – è dovuto principalmente all’incremento dei consumi di combustibili fossili per la produzione di energia collegata a una riduzione della produzione di energie rinnovabili”.
fonte: www.ilfattoquotidiano.it
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La circular economy viaggia su quattro ruote: l’enciclopedia dell’auto sostenibile
"Scrivo di automobili dal ’91. In tutti questi anni mi sono occupato della loro parti più visibili, delle performance su strada. Con questo libro invece abbiamo voluto usare i raggi X per studiarne ogni componente. Ci siamo fatti delle domande: cosa si utilizzerà per costruire un’auto? Per me il futuro dell’auto si gioca sul concetto di leggerezza.
Nel libro diamo una panoramica su quali materiali si possono usare per comporne una e quanto questi si possono riutilizzare.” Sì, perché l’economia circolare viaggia anche su quattro ruote come ci ha spiegato Roberto Sposini, giornalista e curatore di Automotive – Neomateriali nell’economia circolare. Un dizionario che dal cofano alla marmitta orienta il lettore come in un’enciclopedia del mondo car che ha scelto sostenibilità, tecnologia e ambiente.
Il libro Automotive parte dai dati per far luce sugli orizzonti e suggerire riflessioni. 800 miliardi nel 2025 e 7.000 miliardi nel 2050: sono queste le prospettive di crescita della cosiddetta "Passenger Economy", il giro d’affari che i passeggeri di domani – ovvero i guidatori di oggi – garantiranno grazie a una smart mobility che si affiderà anche alle auto a guida autonoma sia per il trasporto pubblico che per quello privato. “Ma il futuro non è in discesa per l’industria automobilistica – avverte Sposini – perché in Cina, il più grande mercato delle e-car, l’elettricità proviene ancora dal carbone bruciato nelle centrali. Questo è un paradosso, insostenibile a livello ambientale.”
“L’e-car è senz’altro il futuro, ma non sarà l’unica opzione.” Sposini non ha tralasciato il problema che ruota attorno all’approvvigionamento energetico e alle materie prime necessarie per le batterie. Come il litio, che si estrae da riserve conosciute (e in gran parte ancora inutilizzate) nel cosiddetto triangolo sudamericano, e il cobalto, prodotto per due terzi nella Repubblica Democratica del Congo. “Se teniamo conto dell’intero ciclo produttivo di un’auto non possiamo scordarci delle condizioni drammatiche a cui sono sottoposti i lavoratori che estraggono queste materie prime.”
Ma come si fa a parlare di leggerezza quando l’auto più venduta oggi in America è un pick up? “I primi cambiamenti si vedranno nelle città, nelle smart cities che io mi immagino nasceranno in paesi come la Bolivia o negli Emirati Arabi. Nelle grandi realtà urbane sarà comunque più facile far circolare un’auto a guida autonoma o spostarsi con un’auto elettrica. Fuori, nelle province italiane ad esempio, le alternative saranno ancora i veicoli di proprietà, ma più ecologici perché cammineranno a biometano e biodiesel.” Ma quando arriveranno i veicoli più ‘temuti’ di questa ondata tech?
“Che se ne dica – scrive Sposini – la diffusione dei veicoli con funzionamento autonomo non arriverà prima del 2040. C’è tempo per preoccuparsi”. Soccorso dagli interventi di diversi giornalisti ed esperti del settore che hanno contribuito alla realizzazione del libro, il coautore ha spiegato a StartupItalia! perché, oltre ai giustificati dubbi e paure, dietro alla self driving car ci sia in realtà una tecnologia più che sicura per l’incolumità nel traffico. “È normale che le persone abbiano paura di qualcosa che non conoscono. Io però ho sperimentato l’auto a guida autonoma a livello 5: se tutti vedessero come funziona non si spaventerebbero”.
Il futuro dell’automobile si gioca anche sui carburanti. Da una parte ci sono ricerche come quella di Transport&Environment che mettono in guardia dai rischi del metano, dall’altra non sembra ancora tempo per un verdetto definitivo. Come ha spiegato a StartupItalia! Roberto Sposini “il metano resta un carburante molto più che transitorio.” E infatti, come si spiega in Automotive, il futuro non potrebbe essere molto diverso dal Ritorno al futuro cinematografico: come nella celebre pellicola, dove la Delorean era alimentata da rifiuti organici, così oggi diverse aziende italiane hanno iniziato a produrre biogas da utilizzare come carburante grazie al compostaggio.
Parlando poi di open innovation, anche l’industria automobilistica sembra essersi aperta alle nuove idee che germogliano fuori dagli stabilimenti. “Si tratta sì di un settore conservatore, ma credo anche che i grandi marchi dovranno accettare, prima o poi, di passare da costruttori a fornitori di servizi. Questo cambiamento – precisa il coautore di Automotive Sposini – si nota anche per i contest che le case automobilistiche organizzano per scovare le migliori idee partorite dai giovani. Gli stessi giovani che in futuro faranno sempre a meno dell’auto di proprietà.”
Ma, alla fine, come sarà il futuro? Sarà simile a una puntata di Black Mirror, a una terribile distopia? “Innanzitutto penso che tra dieci anni non ci potremo più permettere un’auto di proprietà. Nelle città ci sarà sempre meno spazio per le auto, che diventeranno un servizio più che un bene privato. I veicoli saranno come un telefonino a quattro ruote: sapranno il giorno del compleanno della nostra fidanzata e ci indicheranno lungo la strada dove prendere i loro fiori preferiti e in quale negozio.” Tutto questo ha però un prezzo: la nostra privacy. “Certo – risponde Sposini – ma credo che sia ormai una parola desueta. Tutto quello che uno smartphone sa di noi, presto anche auto lo saprà.”
fonte: http://www.puntosostenibile.it
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