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E' italiano il primo impianto europeo di biogas bi-stadio

E' stato inaugurato a Soliera, in provincia di Modena, il primo impianto di biogas in Europa dotato di tecnologia di digestione anaerobica bi-stadio e realizzato dall’azienda Biogas Italia Srl.

















Rispetto ad un impianto tradizionale, la nuova tecnologia bi-stadio consente di aumentare la resa energetica di circa il 20%. Separando le fasi biologiche della digestione anaerobica, il processo bi-stadio consente una più veloce degradazione della biomassa, con un aumento della produzione di idrogeno nel primo stadio del processo e della produzione di biometano alla fine del ciclo. L'idrogeno può essere utilizzato in celle a combustibile, commercializzato come gas tecnico o usato per incrementare il tenore in metano del biogas, facilitandone il successivo upgrading a biometano.
Grazie ai tempi ridotti di digestione della biomassa, l'impianto bi-stadio comporta volumi inferiori e costi di realizzazione più contenuti rispetto agli impianti tradizionali. Inoltre, biomasse a elevato contenuto di zucchero (siero di latte, sansa di olive, pastazzo di agrumi, ecc.) possono essere usate senza i problemi di stabilità biologica normalmente riscontrati nei sistemi tradizionali, facendole così rientrare in un ciclo virtuoso di riutilizzo.
L'impianto di Soliera, dotato di una potenza di 100 KW e alimentato prevalentemente a reflui zootecnici, rappresenta un ottimo esempio di collaborazione tra mondo della ricerca e mondo dell'impresa. Numerosi infatti i soggetti coinvolti: ENEA e CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria) in qualità di depositari del brevetto, l'azienda Biogas Italia che – licenziataria del brevetto – ha realizzato l'impianto beneficiando di un finanziamento di Invitalia e infine l'azienda agricola Lugli, che ha ceduto in comodato d'uso il terreno e che fornisce la materia prima per l'alimentazione dell'impianto partecipando alla gestione dello stesso.
"Ancora una volta – dichiara Piero Gattoni, presidente del CIB (Consorzio Italiano Biogas) – il settore del biogas/biometano si dimostra in grado di trainare l'innovazione tecnologica, stimolando la ricerca di nuove soluzioni e favorendo l'instaurarsi di collaborazioni proficue tra soggetti pubblici e privati. Biogas e biometano si confermano risorse fondamentali nel bilanciamento delle rinnovabili all’interno di una strategia di progressiva decarbonizzazione del sistema energetico nazionale. Il biogas/biometano italiano è 100% Made in Italy perché nasce dai sottoprodotti dell'agricoltura e della zootecnia italiana: è programmabile, flessibile e capace di valorizzare il settore primario. Col giusto supporto del legislatore – conclude Gattoni – il comparto potrà offrire un contributo importante allo sviluppo del Paese".

fonte: http://www.nextville.it

Energia da reflui zootecnici: il modello Biogas Wipptal

Nato dall’iniziativa di 62 allevatori dell’Alta Val d’Isarco, l’impianto trasforma letame e liquami raccolti nei masi in energia pulita


















Ha aperto ufficialmente le porte per festeggiare il suo primo anno di attività l’impianto Biogas Wipptal, innovativa centrale di produzione di energia da reflui zootcnici a Val di Vizze (BZ). Nato dall’iniziativa di 62 allevatori dell’Alta Val d’Isarco, l’impianto celebra oggi  un sistema di gestione dei rifiuti divenuto in brevissimo tempo un modello a livello europeo. Il perché è presto detto: il sistema ha permesso di chiudere il cerchio generando un beneficio non solo per l’ambiente ma per l’economia delle aziende agricole del posto.
Non solo. L’iniziativa – tra i progetti italiani che beneficiano degli incentivi europei del Programma LIFE+ è stata scelta lo scorso ottobre dalla Germania come unica realtà italiana che contribuirà, per conto del Governo di Berlino, a identificare le migliori tecniche disponibili nel settore della gestione degli effluenti dalla tenuta di bovini per la produzione di latte.

Come funziona Biogas Wipptal?

Ma per capire da dove proviene tutta l’attenzione per Biogas Wipptal è necessario fare un viaggio (virtuale) al suo interno. I 63 soci raccolgono, con degli appositi macchinari per il trasporto, da propri masi letame e liquami. Nell‘impianto, i rifiuti sono fatti fermentare per ottenere biogas e digestato. Il primo è trasformato in elettricità e calore: dalle prime 30mila tonnellate di reflui trattati, la società ha ottenuto a 4 milioni di kilowatt elettrici e in un’identica quantità di energia termica. Il digestato viene per metà riportato agli agricoltori e con un prototipo effettuato lo spargimento ad alta precisione e bassa emissione, e per l’altra metà essiccato attraverso il calore prodotto dal biogas, macinato e “pelletato” per diventare fertilizzante. La parte liquida rimanente è trasformata in acqua pulita attraverso l’osmosi inversa.
I reflui zootecnici trattati – 60% letame e 40% liquame – hanno prodotto un quantitativo di energia tale da comportare un risparmio di 900 tonnellate equivalenti di petrolio e, dopo un solo anno di attività, l’impianto sta già producendo un quantitativo di energia pari al 50% delle proprie capacità, con l’obiettivo di entrare a pieno regime nei prossimi mesi.

Inoltre, il progetto ha permesso alle imprese agricole della zona di non ridurre i capi di bestiame in esubero scendendo al di sotto della soglia critica di sopravvivenza, dal momento che il tradizionale spandimento dei reflui zootecnici, anche per la ridotta disponibilità di terreni, non rientra più negli stringenti canoni dettati dalle Direttive europee.

fonte: www.rinnovabili.it

Inquinamento: in Italia va meglio anche grazie alle rinnovabili, ma la strada è ancora lunga

In Italia, dal 1990 ad oggi sono diminuite complessivamente le emissioni dei cinque principali inquinanti identificati dall’Unione europea come i più dannosi per la salute e gli ecosistemi naturali. Ma siamo ancora lontani dal raggiungimento dei limiti previsti dall'UE per il 2030, Uno studio ENEA.
















In Italia, dal 1990 ad oggi, sono diminuite complessivamente le emissioni dei cinque principali inquinanti identificati dall’Unione europea come i più dannosi per la salute e gli ecosistemi naturali, in particolare biossido di zolfo (-93%), monossido di carbonio (-69%), ossidi di azoto (-61%), composti organici volatili non metanici (-57%) e polveri sottili PM2,5 (-31%).
Ma siamo ancora lontani dal raggiungimento dei limiti previsti dalla direttiva NEC dell’Ue sui tetti alle emissioni al 2030,
È quanto emerge, in estrema sintesi, dal rapporto sugli effetti dell’inquinamento dell’aria presentato dall’ENEA, che ha curato il coordinamento e la pubblicazione dei contenuti scientifici elaborati dai maggior esperti nazionali in materia.
“Oltre al miglioramento dell’efficienza energetica e alla diffusione delle rinnovabili, questi risultati sono stati ottenuti grazie alla combinazione di molteplici fattori: una più ampia diffusione di nuove tecnologie, limiti di emissione più stringenti nei settori energia e industria, carburanti e autovetture più ‘puliti’ e l’introduzione del gas naturale nella produzione elettrica e negli impianti di riscaldamento domestici”, spiega Gabriele Zanini, responsabile della divisione ‘Modelli e tecnologie per la riduzione degli impatti antropici e dei rischi naturali’ dell’ENEA.
L’agricoltura, in particolare la gestione dei reflui animali, ha registrato la più piccola percentuale di riduzione degli inquinanti: a fronte di un comparto responsabile di oltre il 95% delle emissioni di ammoniaca, la contrazione è stata pari solo al 17%.
Di segno opposto quanto avvenuto nel settore civile, che ha registrato un incremento del 46% delle emissioni di PM2,5 rispetto ai valori del 1990, principalmente per l’aumento dell’uso di biomassa in impianti di riscaldamento a bassa efficienza.
“In Italia resta ancora alto l’impatto negativo dell’inquinamento atmosferico sulla salute e gli ecosistemi – aggiunge Zanini - nonostante le riduzioni delle concentrazioni osservate negli ultimi due decenni. Oltre ad essere a rischio biodiversità e produttività agricola, sono in aumento tra la popolazione malattie respiratorie e cardiovascolari. Da solo il particolato fine causa circa 30mila decessi ogni anno, come risulta da un recente studio a cui abbiamo partecipato. In termini di mesi di vita persi, l’inquinamento accorcia la vita di ciascun italiano di 10 mesi in media: 14 per chi vive al nord, 6,6 al centro e 5,7 al sud e nelle isole”.
“Le emissioni di ossidi di azoto da trasporto stradale non si sono ridotte quanto atteso con l’introduzione degli standard Euro per le macchine a gasolio, avendo i test su strada mostrato che le emissioni nei cicli reali di guida sono più alte rispetto alle emissioni misurate nei test di omologazione” sottolinea Alessandra De Marco, ricercatrice del Laboratorio Inquinamento Atmosferico dell’ENEA e tra i coordinatori del rapporto presentato oggi.
“Nonostante i significativi progressi dal 1990 a oggi – aggiunge Zanini – i più recenti scenari emissivi sviluppati dall’ENEA mostrano che siamo ancora lontani dal raggiungimento dei limiti previsti dalla direttiva NEC dell’Ue sui tetti alle emissioni al 2030, in particolare per PM2,5, composti organici volatili non metanici e ammoniaca. Ma per ridurre le emissioni sono disponibili differenti misure, da un uso più efficiente della legna da ardere nel settore residenziale, all’introduzione di una dieta a basso tenore di azoto negli allevamenti o ad un uso più efficiente dell’urea come fertilizzante. Accanto alle misure tecnologiche, occorre promuoverne altre che interessino direttamente le abitudini e gli stili di vita dei cittadini, quali il ricorso a una dieta meno proteica o l’uso di mezzi di trasporto pubblici e meno inquinanti”.
“Tecnologie a parte – sottolinea Alessandra De Marco - in città le foreste urbane possono contribuire alla riduzione dell’inquinamento perché sono in grado di catturare gli inquinanti come polveri sottili e ozono. Un nostro studio sulla città di Firenze, realizzato in collaborazione con CNR e Università di Firenze, ha dimostrato come gli alberi in città possano abbattere del 13% il PM10 e del 5% l’ozono. Molto problematica, invece, laconservazione dei beni culturali, dove sempre un studio mostra un rischio corrosione del 26% dei siti archeologici e del 17% di chiese e conventi storici.”
“Abbiamo soluzioni che possono ridurre gli impatti - conclude Zanini - ma occorre integrare le politiche climatiche e quelle di qualità dell’aria, utilizzando misure e modelli e coordinando differenti settori scientifici e gruppi di ricerca”.

fonte: www.qualenergia.it