Una carbon tax per accelerare la transizione energetica

Negli Usa e in Germania si propone una tassa sul carbonio. In Svezia già esiste. Grandi imprese la utilizzano per indirizzare i propri investimenti. In Italia una voce contro sul Corsera. Il Kyoto Club ha avanzato una proposta per l’Italia. A quanto dovrebbe ammontare e come utilizzarla? Una nota di Gianni Silvestrini.














Nel mondo si torna a parlare della necessità di una carbon tax.
Negli Stati Uniti ha stupito ad esempio la proposta degli ex ministri del tesoro di Nixon, Reagan e Bush a favore di una tassa da 40 $ a tonnellata di CO2 che consentirebbe di ridurre le emissioni di gas serra e distribuire alle famiglie 2.000 dollari all’anno.
In Europa, dove le associazioni tedesche delle rinnovabili ne auspicano l’introduzione, il dibattito si è riaperto con il fallimento del meccanismo previsto per le imprese energivore, l’Emissions Trading System, che ha portato ad un valore della CO2 così basso da non favorire l’utilizzo delle centrali a metano a scapito di quelle a carbone e da risultare poco incisivo anche per le altre industrie coinvolte.
Un quadro non ammissibile dopo l’Accordo sul Clima di Parigi che prevede un’accelerazione della decarbonizzazione delle economie.
La carbon tax rappresenta, invece, uno strumento efficace e la sua adozione è stata auspicata anche da molte istituzioni internazionali proprio ora che i prezzi dei combustibili sono bassi.
Ma quale valore considerare?
La stima del governo Usa per i danni climatici è di 37 $/t CO2, mentre molte grandi imprese già utilizzano, per orientare i propri investimenti, un prezzo che va da 25 a 45 $/t. 
Il Kyoto Club ha avanzato una proposta per l’Italia, volta a penalizzare l’impiego dei fossili in una logica di neutralità fiscale. Ipotizzando un livello iniziale di 20 €/t, le entrate sarebbero dell’ordine di 8 miliardi di euro, una cifra che consentirebbe di tagliare del 10% le bollette elettriche, ridurre il costo del lavoro e favorire interventi sulle emissioni.
Stefano Agnoli, in un articolo sul Corriere Economia del 27 febbraio ha raccolto invece alcune perplessità sulla proposta, a partire dalla già elevata tassazione sui carburanti.
In realtà, le attuali entrate fiscali riescono a malapena a compensare i danni causati dai trasporti. L’incremento proposto, 5 c€ a litro dovrebbe penalizzare principalmente il diesel e servirebbe in parte ad incentivare la mobilità elettrica, attualmente su livelli ridicoli, consentendo di avere mezzo milione di veicoli su strada entro cinque anni.
Sul versante della generazione elettrica il suo effetto sarebbe quello di scoraggiare le centrali a carbone a favore di metano, rinnovabili ed efficienza energetica.
Insomma, si tratta di uno strumento per accelerare la transizione energetica che, gestito in modo flessibile per tenere conto di specifiche controindicazioni, darebbe slancio ad una politica climatica inesistente.
Riqualificare energeticamente interi quartieri, passare alla mobilità elettrica, rilanciare le rinnovabili: alternative che andrebbero seriamente perseguite e che sarebbero facilitate da una carbon tax.
La Svezia, che l’ha introdotta nel 1991 portandola fino a 136 €/t, ha un’economia florida e si ripromette di uscire dai fossili in meno di trent’anni.
Cerchiamo anche noi di utilizzare gli strumenti che consentano di cogliere in maniera intelligente le straordinarie opportunità legate ad uno sviluppo low carbon.
(Gianni Silvestrini è anche direttore scientifico del Kyoto Club).

fonte: http://www.qualenergia.it