Quante vite umane
potremmo salvare, sostituendo tutte le centrali a carbone degli Stati
Uniti con impianti fotovoltaici? Quanto costerebbe e su quali vantaggi
sociali ed economici potremmo contare?
Sembrano quesiti destinati a rimanere senza risposte plausibili. Eppure c’è un gruppo di ricercatori della Michigan Technological University che ha provato a stimare i benefici di questa transizione energetica accelerata coal-to-solar, in uno studio intitolato "Potential Lives Saved by Replacing Coal with Solar Photovoltaic Electricity Production in the U.S." (allegato in basso).
In
sintesi, senza addentrarci nei complessi calcoli eseguiti
dall’università USA, il team guidato dal prof. Joshua Pearce ritiene che
si potrebbero evitare quasi 52.000 morti premature ogni anno,
dovute all’utilizzo di carbone con relativo incremento delle emissioni
inquinanti, rimpiazzando l’intera capacità di generazione della fonte
fossile “sporca” con il solare FV.
Parliamo di circa 755 GW
cumulativi di potenza fotovoltaica necessaria per eliminare il carbone,
con un investimento complessivo di quasi 1.500 miliardi di dollari.
L’investimento iniziale per ogni vita umana, quindi, è nell’ordine di 1,1 milioni di $, ma lo studio intende dimostrare che è un’operazione profittevole.
In altre parole, i benefici sociali, economici e ambientali
permettono di assegnare a ogni individuo “salvato” un valore di alcuni
milioni di $, secondo le circostanze e i parametri di riferimento. Ad
esempio: tasso di mortalità indicato in kWh/anno di produzione del
carbone, inquinamento atmosferico, costo dell’energia elettrica generata
dai moduli solari in 25 anni di durata media utile e così via.
A
prescindere dalle ipotesi formulate nello studio, che possono essere
criticate sotto vari aspetti - partendo dall’obiettivo stesso di cancellare completamente il carbone
dal mix energetico statunitense con il solo fotovoltaico, mentre
sarebbe più utile pensare a un portafoglio più esteso di rinnovabili -
le conclusioni dei ricercatori americani meritano attenzione per diversi
motivi.
Il primo è che bisogna incorporare le esternalità negative
nei prezzi elettrici: sono quegli extra-costi, molto difficili da
quantificare con precisione, che normalmente sono scaricati sulla
collettività anziché “pesare” su chi gestisce gli impianti di produzione
o parti della filiera (articolo di QualEnergia.it sulla proposta di una carbon tax globale).
Costi sanitari,
soprattutto, dovuti alle morti premature e all’insorgere di determinate
malattie cardiovascolari e respiratorie provocate dall’inquinamento
atmosferico, oltre ai costi ecologici per contrastare
gli effetti più rovinosi dei cambiamenti climatici, attraverso bonifiche
ambientali, ripristino di ecosistemi danneggiati, eccetera.
La seconda considerazione rilanciata da questo studio è che le rinnovabili sono in grado di competere con le fonti tradizionali di generazione elettrica.
Di recente, Lazard ha pubblicato delle tabelle con i valori LCOE (Levelized Cost of Energy) medi delle diverse tecnologie negli Stati Uniti (vedi QualEnergia.it),
mostrando che i migliori progetti eolici e solari riescono già a
produrre elettricità in piena concorrenza - senza sussidi - con gas,
nucleare e carbone.
Parliamo di
valori prettamente economici: tassi d’interesse, fattori di capacità,
spese fisse-variabili per l’operatività e manutenzione degli impianti,
prezzi dei combustibili (quando pertinenti) e così via, per definire il
costo “tutto compreso” delle fonti nel loro ciclo di vita, ma tralasciando le esternalità negative.
Il documento dell’università americana, oltre a farci riflettere sui benefici aggiuntivi delle rinnovabili rispetto ai combustibili fossili, si lega infine al tema degli stranded asset,
le infrastrutture energetiche obsolete, inefficienti e sempre meno
remunerative, di cui gli impianti a carbone sono un perfetto esempio.
Fa quasi sorridere - anche se purtroppo Donald Trump
sta prendendo la sua politica nazional-fossile molto sul serio - che
nei giorni scorsi, proprio mentre la Casa Bianca stava preparando il suo
annuncio di uscire dagli accordi di Parigi, tre grandi centrali a
carbone sono state chiuse in New Jersey e Massachusetts, messe definitivamente fuori mercato dai prezzi bassi del gas naturale.
Il
rischio per le utility, quindi, è conservare investimenti in beni e
servizi destinati a essere scavalcati dalle nuove tecnologie delle
rinnovabili e dell’accumulo energeticofonte: www.qualenergia.it