Economia circolare, se non cambia il "disfarsi", l'illusione linguistica è dietro l'angolo





















Il lupo e la volpe, la favola povera di Calvino dove tutti sono ingannatori e ingannati e
dove il trionfo è acido e breve.
Ma le favole, scriveva ancora Calvino, “sono il catalogo dei destini” e quindi alla fine
“sono vere”.
E allora quella fiaba sembra restituire il volto vero della nostra non redimibile Italia,
affetta – da sempre – da familismo amorale e clientelismo diffuso, dove i ponti crollano
e il terremoto frantuma quello che è già fragile di per sé, dove l’istruzione e la ricerca
sono al collasso, dove i cervelli scappano e la legge si maschera da giustizia.
Non solo, l’ambiente subisce danni sistematici; lo fa anche in ragione di una esagerata
pressione antropica, perché siamo decisamente troppi e il respiro (ormai) ansimante
della nostra impronta ecologica ci spinge a desiderare un paese di riserva. Ma non ce
l’abbiamo.
E allora facciamo i conti con quello che c’è, provando a modificare scelte alimentari,
quantità e qualità dei rifiuti prodotti, superficie di suolo occupato, beni acquistati,
energia consumata, anidride carbonica emessa in atmosfera.
Con l’uso di questo rinverdito paradigma ecologico, si prova a risalire la china del
risanamento morale. E lo si fa con il nuovo mantra dell’economia circolare dove i rifiuti
sono le miniere di domani, i prodotti destinati a diventare rifiuti sono sostituiti dai
servizi che consentiranno di utilizzare il bene per poi rimettere in circolo i materiali che
lo compongono. Le difficoltà, però, sono tante.
Prime fra tutte la definizione di “rifiuto” che con il termine “disfarsi”, come interpretato
dalla Corte di Giustizia Ue e dalla nostra giurisprudenza di legittimità, non lascia spazio
giuridicamente a nessuna “creatività” e alla narrazione dominante che gli sta intorno:
l’ennesimo aspetto della cultura dell’immagine condito con slogan più o meno epicodidattici.
L’attuale concetto di rifiuto è giuridico e non economico.
Per questo, senza la modifica della relativa nozione, l’economia circolare resta una
illusione linguistica, fagocitata da una malintesa e febbrile apprensione di proteggere la
società dai rischi della materia contaminata dal nome “rifiuto”. Rischi che
misteriosamente scompaiono quando ad agire è la cd. “economia del sociale”, mai
toccata dai contenuti persecutori e cristallizzati.
Doppie velocità e concorrenza sleale condite con una propaganda più o meno intensa.
Niente a che vedere con il naturale respiro dei fatti.
Nel frattempo parte la vera e propria procedura d’infrazione Ue contro l’Italia perché 44
discariche, autorizzate prima del 16 luglio 2001, non sono state adeguate o chiuse entro
il 16 luglio 2009 (in compagnia di Bulgaria, Cipro, Spagna, Romania, Slovenia e
Slovacchia).

Del resto, se è vero che la discarica è il meno sostenibile dei modi di smaltimento, è
anche vero che in Italia non si può fare molto. Non appena si pensa ad un qualsiasi altro
impianto le proteste iniziano a mugghiare come marosi impazziti.
Tutto alimentato dal culto delle immagini che, formando ormai l’identità nazionale, non
consente più di distinguere tra realtà e fantasia, tra innocenza e ferocia, dove ognuno dà
corpo al proprio dolore di essere inquinato o alla sua gioia di aver allontanato un
impianto con la sua personale protesta.
Una invasione simbolica priva di conoscenza e simmetria. Dove al posto della parola
c’è solo un gergo, afasico e ripetitivo. Un fumetto che reitera la drammatizzazione di sé
e la non negoziabilità dei propri convincimenti. Tutto agisce per icone e condanna al
conflitto.
Invece, dalla miseria del gergo dobbiamo tornare alle parole; passare dalla democrazia
recitativa a parole dotate di senso, capaci di trasformare l’adesso in presente e poi,
attraverso il passato, in un nuovo futuro.
Un passaggio rovente ma non rinunciabile, perché nulla può sopravvivere al potere
distruttivo dell’assenza.

Paola Ficco

fonte: http://www.reteambiente.it