L’amministrazione Trump non è
mai stata divisa tra quelli che volevano stracciare l’Accordo di Parigi e
quelli che volevano rispettarlo. È stata divisa tra quelli che volevano
stracciarlo e quello che volevano restarvi ma ignorarlo del tutto. Cosa
possiamo fare ora? Un appello maturato tra i movimenti sociali di tutto
il mondo propone di applicare sanzioni economiche di fronte al
vandalismo climatico di Trump. Ma i governi non sono i soli che possono
imporre penali economiche per un comportamento letale e immorale: i
movimenti possono farlo direttamente sotto forma di campagne di
boicottaggio e disinvestimenti mirate contro governi e imprese
Ora che pare virtualmente certo che Donald Trump ritirerà gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi
sul clima e che il movimento sul clima si sta molto giustamente
mobilitando di fronte a questo più recente sbandamento, è ora di essere
concreti riguardo a una cosa: praticamente tutto ciò che è debole, deludente e inadeguato riguardo a tale accordo è il risultato dell’attività di pressione statunitense a partire dal 2009.
Il
fatto che l’accordo impegni unicamente i governi a mantenere il
riscaldamento al di sotto di un aumento di due gradi, piuttosto che di
un obiettivo molto più sicuro di 1,5 gradi, è stato forzato e ottenuto
dagli Stati Uniti.
Il fatto che l’accordo ha lasciato alle singole
nazioni decidere quanto sono disposte a fare per raggiungere quella
temperatura obiettivo, consentendo loro di venire a Parigi con impegni
che collettivamente ci pongono su una via più disastrosa di un
riscaldamento di tre gradi, è stato forzato e ottenuto dagli Stati
Uniti.
Il fatto che l’accordo tratti persino questi impegni
inadeguati come non vincolanti, il che significa che i governi non hanno
nulla da temere se ignorano i loro impegni, è un’altra cosa che è stata
forzata e ottenuta dagli Stati Uniti.
Il
fatto che l’accordo vieti specificamente ai paesi poveri di pretendere i
danni per i costi dei disastri climatici è stato forzato e ottenuto
dagli Stati Uniti.
Il fatto che si tratti di un
“accordo” o “intesa” e non di un trattato – esattamente ciò che rende
possibile a Trump mettere in scena il film d’azione al rallentatore del
suo ritiro, con il mondo in fiamme dietro di lui – è stato forzato e
ottenuto dagli Stati Uniti.
Potrei continuare. E continuare. Spesso gli Stati Uniti hanno avuto, in questo bullismo dietro le quinte, l’aiuto di illustri petro-stati quali l’Arabia Saudita.
Quando hanno aggressivamente esercitato pressioni per indebolire
l’accordo di Parigi, i negoziatori statunitensi hanno solitamente
sostenuto che qualsiasi impegno maggiore sarebbe stato bloccato dalla
Camera e dal Senato controllati dai Repubblicani. E ciò era
probabilmente vero. Ma parte dell’indebolimento – in particolare le
misure concentrare sull’equità tra nazioni ricche e povere – è stato
perseguito principalmente per abitudine, perché preoccuparsi degli
interessi delle industrie e ciò che gli Stati Uniti fanno nei negoziati
internazionali.
Quali che siano le ragioni, il risultato finale è stato un accordo che ha un obiettivo decente riguardo alla temperatura, e un piano dolorosamente debole e meschino per raggiungerlo.
Ed è questo il motivo per il quale, quando è stato rivelato per la
prima volta, James Hansen, verosimilmente il più rispettato scienziato
del clima al mondo, ha definito l’accordo “una frode, davvero, un
falso”, poiché “non c’è nessuna azione, solo promesse”.
Ma debole non è sinonimo di inutile. Il potere dell’Accordo di Parigi è sempre stato riposto in quanto i movimenti sociali hanno deciso di farne.
Avere un chiaro impegno a mantenere il riscaldamento sotto i due gradi
Celsius, perseguendo contemporaneamente “sforzi per limitare l’aumento
della temperatura d 1,5 gradi” significa che non rimane spazio perché il
bilancio globale del carbonio sfrutti nuove riserve di combustibili
fossili.
Tale semplice fatto, anche senza un vincolo legale a sostenerlo, è stato un potente strumento nelle mani dei movimenti contro nuovi oleodotti, campi di fratturazione idraulica e miniere di carbone,
nonché nelle mani di alcuni giovani coraggiosi che hanno portato in
tribunale il governo statunitense per proteggere il loro diritto a un
futuro sicuro. E in molti paesi, inclusi gli Stati Uniti fino a molto di
recente, il fatto che i governi abbiano dato almeno un’adesione di
facciata a tale obiettivo della temperatura li ha lasciati vulnerabili a
quel tipo di pressione morale e popolare. Come ha detto il giornalista e
fondatore di 350.org Bill McKibben il giorno in cui è stato rivelato
l’accordo di Parigi, i leader mondiali hanno fissato “un obiettivo di
1,5 gradi e poco ma sicuro che glielo faremo rispettare”.
In molti paesi tale strategia prosegue, indipendentemente da Trump. Alcune settimane fa, ad esempio, una
delegazione di nazioni isolane del Pacifico poco sopra il livello del
mare si è recata presso le sabbie bituminose di Alberta per chiedere che
il primo ministro Justin Trudeau smetta di espandere la produzione di
quella fonte di combustibile ad alta emissione di
carbonio, sostenendo che se egli non lo farà violerà lo spirito delle
sua belle parole e promesse a Parigi.
E
questo è sempre stato il compito del movimento globale per la giustizia
climatica quando si è trattato di Parigi: cercare di vincolare i
governi al forte spirito, piuttosto che alla debole lettera,
dell’accordo. Il problema è che non appena Trump è
salito alla Casa Bianca è stato perfettamente chiaro che Washington non
era più suscettibile a quel genere di pressione. Il che rende piuttosto
sconcertati alcuni degli istrioni di fronte alla notizia che Trump pare
ritirarsi ufficialmente. Comunque vada la decisione sull’Accordo di
Parigi, tutti già sapevamo che sotto Trump era nelle carte un ritorno al
peccato riguardo al clima. Lo abbiamo saputo non appena egli ha
nominato Rex Tillerson a capo del Dipartimento di Stato e Scott Pruitt a
capo dell’Epa. Ne abbiamo avuto conferma quando nella prima settimana
in carica ha firmato i suoi decreti presidenziali sul Keystone XL e sulla Dakota Access Pipeline.
Per
mesi abbiamo sentito parlare delle presunte lotte di potere tra quelli
che volevano restare nell’accordo (Ivanka, Tillerson) e quelli a favore
di abbandonarlo (Pruitt, il capo stratega Steve Banno, lo stesso Trump).
Ma il fatto stesso che Tillerson abbia potuto essere la voce del campo
del “restiamo” avrebbe dovuto rivelare l’assurdità di questa totale
farsa.
Sono state le
compagnie petrolifere come quella per la quale Tillerson ha lavorato per
41 anni a esercitare pressioni che hanno contribuito a garantire che
gli impegni presi a Parigi fossero privi di qualsiasi meccanismo di
imposizione. È per questo che un mese dopo la
negoziazione dell’accordo la Exxon Mobil, con Tillerson ancora al
timone, se n’è uscita con un rapporto che affermava “ci aspettiamo che
petrolio, gas naturale e carbone continueranno a soddisfare circa
l’ottanta per cento della domanda globale “ tra ora e il 2040. Era una
sfrontata manifestazione di arroganza da parte dei sostenitori del “non è
successo niente”. La Exxon sa benissimo che se vogliamo una decente
opportunità di mantenere il riscaldamento sotto 1,5 – 2 gradi,
l’obiettivo dichiarato dell’Accordo di Parigi, l’economia globale deve
abbandonare virtualmente tutti i combustibili fossili entro la metà del
secolo. Ma la Exxon ha potuto offrire tali assicurazioni ai suoi
investitori – e anche affermare che appoggiava l’accordo – perché sapeva
che l’accordo di Parigi non aveva forza vincolante.
È lo stesso
motivo per cui la fazione di Tillerson nell’amministrazione Trump ha
ritenuto di poter conciliare l’essere a Parigi e contemporaneamente
smantellare il nucleo centrale dell’impegno statunitense in base
all’accordo, il Pianto Energia Pulita. Tillerson, meglio di chiunque
altro sul pianeta, sa quanto legalmente debole è l’accordo. Da
amministratore delegato della Exxon ha contribuito ad assicurare che lo
fosse.
Così quando cerchiamo di dare un senso a quest’ultima commedia, non sbagliamoci: l’amministrazione
Trump non è mai stata divisa tra quelli che volevano stracciare
l’Accordo di Parigi e quelli che volevano rispettarlo. È stata divisa
tra quelli che volevano stracciarlo e quello che volevano restarvi ma
ignorarlo del tutto. La differenza è di ottica; in un modo o nell’altro viene emessa la stessa quantità di carbonio.
Alcuni
dicono che non è quello il punto, che il rischio vero del ritiro degli
Stati Uniti è che incoraggerà tutti gli altri a ridurre le loro
ambizioni e presto tutti abbandoneranno Parigi. Forse, ma non
necessariamente. Proprio come il
disastro di Trump riguardo all’assistenza sanitaria sta incoraggiando
stati a considerare un’assicurazione unica più seriamente di quanto
abbiano fatto da decenni, l’incendio climatico di Trump ha sinora
alimentato unicamente l’ambizione climatica in stati come la California e
New York. Anziché gettare la spugna, coalizioni come New York Renews, che sta premendo con forza perché lo stato passi interamente all’energia rinnovabile entro il 2050, stanno diventando ogni giorno più forti e più audaci.
Anche fuori dagli Stati Uniti i segnali non sono malvagi.
La transizione alle energie rinnovabili sta già procedendo così
rapidamente in Germania e in Cina, e i prezzi stanno calando così
notevolmente, che forze di gran lunga maggiori di Trump stanno oggi
stanno spingendo la svolta. Ovviamente è ancora possibile che il ritiro
di Trump provochi un ritorno all’indietro globale. Ma è anche possibile
che accada l’opposto, che altri paesi, sotto la pressione delle loro
popolazioni arrabbiate per le azioni di Trump praticamente a ogni
livello, diventino più ambiziosi se gli Stati Uniti tralignano.
Potrebbero persino decidere di rinforzare l’accordo senza negoziatori
statunitensi che li rallentino ogni momento.
E
c’è ancora un altro appello che sempre più si sente da movimenti
sociali di tutto il mondo: a sanzioni economiche di fronte al vandalismo
climatico di Trump. Poiché ecco l’idea folle: che sia o
no scritto nell’Accordo di Parigi, quando si decide unilateralmente di
bruciare il mondo, dovrebbe esserci un prezzo da pagare. E ciò dovrebbe
valere sia che si tratti del governo degli Stati Uniti, della Exxon
Mobil o di qualche fusione alla Frankenstein dei due.
Un
anno fa nei circoli dirigenziali si rideva del suggerimento che gli
Stati Uniti dovessero subire una punizione tangibile per il fatto di
mettere a rischio il resto dell’umanità: certamente nessuno avrebbe
messo in pericolo le proprie relazioni commerciali per qualcosa di così
frivolo come un pianeta vivibile. Ma giusto questa settimana Martin
Wolf, scrivendo sul Financial Times ha dichiarato: “Se gli Stati Uniti
si ritirassero dall’accordo di Parigi il resto del mondo dovrebbe
prendere in considerazione sanzioni”.
Probabilmente siamo ben lungi da un passo simile da parte di partner commerciali degli Stati Uniti, ma i governi non sono i soli che possono imporre penali economiche per un comportamento letale e immorale.
I movimenti possono farlo direttamente sotto forma di campagne di
boicottaggio e disinvestimenti mirate contro governi e imprese,
sul modello sudafricano. E non soltanto le imprese dei combustibili
fossili ma anche l’impero di marca Trump. La persuasione morale non
funziona con Trump. La pressione economica potrebbe riuscirci. È
arrivata l’ora delle sanzioni popolari.
Naomi Klein
fonte: http://comune-info.net