L’esposizione a basse dosi di glifosato – o, soprattutto, di erbicidi a base di glifosato come il famoso Roundup – si associa, nei topi, a una serie di piccole ma significative alterazioni dell’equilibrio endocrino e dello sviluppo riproduttivo, visibili sia nei maschi sia nelle femmine. È questa la conclusione di uno studio pilota coordinato da ricercatori dell’Istituto Ramazzini di Bologna, con la partecipazione anche dell’Istituto superiore di sanità (Iss), dell’Università di Bologna e di centri di ricerca esteri.
“Uno studio che, pur senza allarmismi, dovrebbe essere di stimolo a una revisione dello stato regolatorio del glifosato, attualmente non collocato tra gli interferenti endocrini da organismi ufficiali come l’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare”. Parola di Alberto Mantovani, tossicologo dell’Iss e coautore dello studio, al quale Il Fatto Alimentare ha chiesto di fare chiarezza sui risultati e sulle loro possibili implicazioni nell’intricata controversia relativa alla sicurezza del glifosato.
Dottor Mantovani: perché occuparsi ancora di glifosato, considerato che secondo un parere dell’Efsa non ci sono prove che possa determinare effetti endocrini?
Facciamo intanto un passo indietro, per ricordare che sul glifosato esistono massicce preoccupazioni da parte del pubblico, dovute a conclusioni contrastanti di varie agenzie internazionali in particolare riguardo al rischio di cancerogenicità. Secondo la Iarc, Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, questa sostanza potrebbe essere “probabilmente cancerogena”, mentre al contrario secondo l’Efsa e l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) è improbabile che possa avere effetti cancerogeni. C’è stato molto dibattito su questo tema, con argomenti non sempre convincenti e spesso senza considerare che Efsa ed Echa, come da mandato, hanno valutato la sostanza attiva in sé (glifosato puro), mentre la Iarc si è concentrata sui prodotti. Pertanto, un gruppo internazionale di ricercatori, guidati dall’Istituto Ramazzini, ha deciso di accantonare le polemiche e provare a raccogliere nuovi dati per rispondere in modo più solido alle preoccupazioni del pubblico, colmando anche alcune incertezze emerse dalle ricerche precedenti. Anche l’Istituto superiore di sanità ha ritenuto utile e importante partecipare a questa nuova raccolta dati.
Quanto al fatto che l’Efsa abbia già emesso un parere che non considera il glifosato come interferente endocrino, bisogna anche sottolineare che si tratta di un parere rilasciato nel 2017, cioè prima che venissero definiti, con il contributo di Efsa stessa, nuovi criteri più stringenti sull’interferenza endocrina di biocidi e pesticidi. Per questo non trovo affatto fuori luogo che si torni sulla questione.
Lei ha parlato sia di cancerogenicità sia di interferenza endocrina, cioè alterazioni sull’equilibrio ormonale: che rapporto c’è tra i due ambiti?
Ci sono molti casi nei quali la cancerogenicità non è provocata in modo diretto da una sostanza, ma in modo indiretto, mediato da altri effetti tra i quali sono importanti gli squilibri ormonali dovuti a interferenza endocrina. Il glifosato potrebbe ricadere in questa situazione, ed ecco perché vale la pena concentrarsi sugli eventuali effetti endocrini.
Lo studio ha confrontato lo sviluppo riproduttivo ed endocrino di due gruppi di topolini: alcuni esposti dalla gravidanza all’età adulta a basse dosi sia di glifosato puro sia di Roundup, un erbicida a base di glifosato, altri non esposti a questa sostanza. Quali sono i risultati che avete ottenuto?
Per cominciare mi lasci sottolineare l’importanza dell’esposizione a basse dosi di glifosato, che può essere considerata uno dei punti di forza dello studio, insieme al fatto che gli effetti sullo sviluppo sono stati valutati anche a lungo termine, durante la vita adulta degli animali. Una delle critiche avanzate a molti studi eseguiti con gli animali sul glifosato riguarda l’esposizione a dosi molto elevate della sostanza, che nulla hanno a che vedere con quella che potrebbe accadere nell’uomo. Ecco perché abbiamo deciso di concentrarci sulla dose per chilogrammo di peso corporeo che l’Epa, Agenzia di protezione ambientale degli Stati Uniti, considera come sicura per l’essere umano anche in caso di esposizione cronica, pari a 1,75 milligrami per kg al giorno.
Quello che abbiamo osservato negli individui (sia maschi sia femmine) esposti al glifosato è un aumento della distanza ano-genitale rispetto agli individui non esposti. Si tratta di un parametro che la comunità scientifica considera un valido indicatore di disturbi dello sviluppo riproduttivo. Non solo: nelle femmine è stato osservato anche un ritardo nella comparsa del primo estro (la pubertà), altro indicatore di possibili ripercussioni negative sulla vita riproduttiva. Infine, in entrambi i sessi abbiamo registrati squilibri nel sistema ormonale, come un aumento dei livelli di testosterone e alterazioni – anche se meno chiare – dei livelli di ormoni tiroidei. Ma soprattutto abbiamo osservato che questi effetti sono decisamente più significativi con l’erbicida commerciale rispetto al glifosato puro.
Da cosa potrebbe dipendere questa differenza?
Non lo sappiamo ancora: potrebbe dipendere dalla presenza di particolari additivi che non conosciamo (la composizione dettagliata del prodotto utilizzato è coperta da segreto commerciale), dalla presenza di impurezze o dal fatto che nel prodotto derivato il glifosato è assorbito o metabolizzato in modo differente. In ogni caso si tratta di uno degli aspetti che dovrebbero essere oggetto di ulteriori indagini sull’argomento.
Quindi la ricerca non dovrebbe fermarsi qui?
Assolutamente no. Questo è uno studio pilota, che fornisce indicazioni sull’opportunità di proseguire le indagini, ma non porta di per sé a conclusioni definitive. Certo, se non avessimo osservato alcun effetto, tanto sarebbe bastato per confermare il parere di Efsa ed Echa e chiudere la questione, ma così non è stato. Abbiamo al contrario visto effetti che non dovrebbero esserci a una dose considerata sicura. Certo, trattandosi di uno studio con modelli animali non significa che i risultati siano immediatamente trasferibili all’essere umano, ma riteniamo che siano comunque meritevoli di approfondimento. Tra l’altro, bisogna anche capire se c’è una gradazione nelle risposte in seguito all’esposizione a dosi differenti e individuare, se c’è, una dose senza effetti osservabili.
Che cosa auspicate dunque a questo punto?
Che appunto la ricerca continui e che la situazione regolatoria del glifosato sia rivista uscendo dalla diatriba cancerogeno sì/cancerogeno no, ma guardando invece a queste nuove prove relative al rischio di interferenza endocrina, anche alla luce dei nuovi criteri per la definizione del rischio. Ci sono delle lacune conoscitive che vanno colmate e le Agenzie regolatorie dovrebbero tenerne conto. Poi, se a colmarle vuole essere l’industria per me non ci sono problemi, a patto che conduca studi seri e verificabili. Parliamo di una sostanza sicuramente utile e importante in l’agricoltura, che l’industria ha tutto il diritto di difendere, però deve produrre dati davvero in grado di farlo.
Per chiudere, cosa pensa del tanto contestato rinnovo dell’autorizzazione al commercio del glifosato votata nel 2017 dall’Unione europea?
Che nel momento in cui, sulla base dei criteri e dei dati disponibili fino al 2017, Efsa ed Echa avevano definito una sicurezza d’uso di questa sostanza, non ci fossero motivi solidi per evitare un rinnovo, anche se ovviamente il legislatore avrebbe tutto il diritto di applicare il principio di precauzione, laddove lo ritenga opportuno. Allo stesso tempo, però, penso che ora l’Efsa debba considerare i nuovi dati a disposizione. D’altra parte, il compito della comunità scientifica non è certo quello di insolentire le autorità regolatorie (che non possono produrre dati), ma di fornirne di nuovi e aggiornati, dove esistono manchevolezze, per permettere decisioni più accurate.
fonte: www.ilfattoalimentare.it