Non c’è più spazio per costruire nuovi impianti che bruciano combustibili fossili, se si vogliono rispettare gli accordi internazionali sul clima, e, anzi, bisogna chiudere in anticipo quelli esistenti.
Un nuovo studio dell’Università della California, Irvine (UCI) torna su un tema ampiamente dibattuto: l’incompatibilità del mix energetico attuale/in costruzione con l’obiettivo di ridurre le emissioni inquinanti per limitare a +1,5-2 gradi centigradi il surriscaldamento medio terrestre entro fine secolo.
Gli autori del documento Committed emissions from existing energy infrastructure jeopardize 1,5º C climate target (qui un estratto), appena pubblicato su Nature, affermano che le centrali elettriche alimentate con risorse fossili dovranno cessare le attività prima del previsto, anziché funzionare per l’intera vita utile indicata in fase di progetto.
Oppure, dovranno essere equipaggiate con sistemi CCS (Carbon Capture and Storage) per catturare l’anidride carbonica emessa nell’atmosfera e immagazzinarla nel sottosuolo.
Senza misure radicali di questo tipo, evidenzia una nota dell’università californiana, le aspirazioni degli accordi di Parigi per combattere il cambiamento climatico sono già a rischio.
I ricercatori, infatti, hanno analizzato una serie di dati sulle emissioni di CO2 stimate per gli impianti fossili in funzione e quelli pianificati/in corso di realizzazione nel mondo, assumendo una vita utile di 40 anni.
In sintesi, si legge nella ricerca, se le infrastrutture fossili esistenti su scala globale continueranno a operare fino al termine del loro ciclo di vita progettuale e senza interventi per limitare il loro impatto ambientale (business as usual), finiranno per emettere 658 giga-tonnellate di CO2.
E il settore elettrico sarà responsabile, dicono gli scienziati, di oltre metà di tutte quelle emissioni, con la Cina largamente in testa e la previsione di costruire più di 250 GW di nuove unità a carbonein pochi anni.
Qui è bene precisare che lo studio non ha considerato solo le centrali termoelettriche, ma anche gli altri settori che utilizzano gas, carbone e petrolio, in particolare i processi industriali e i trasporti.
E se saranno costruiti gli impianti di produzione energetica già programmati/autorizzati nei diversi paesi, chiariscono gli autori del documento, bisognerà mettere in conto altre 188 giga-tonnellate di CO2.
Il punto, avvertono i ricercatori dell’UCI e delle università che hanno collaborato alle analisi, è che le emissioni di CO2 stimate complessivamente per le infrastrutture fossili, sia quelle esistenti sia quelle pianificate, già superano il carbon budget compatibile con l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature medie a +1,5 gradi.
Difatti, per stare entro quel limite, si potranno ancora emettere nell’atmosfera un massimo di 580 giga-tonnellate di CO2.
Se invece volessimo provare a contenere il global warming a +2 gradi avremmo un carbon budget un po’ più ampio, tra 1.170-1.500 Gt di anidride carbonica, che però per almeno due terzi sarebbe “consumato” dagli impianti fossili in attività/in corso di sviluppo nel mondo.
Certo, chiariscono gli scienziati, le stime sul carbon budget sono molto variabili perché dipendono da numerosi fattori, tra cui l’eventuale impiego di tecnologie per assorbire il carbonio già emesso nell’atmosfera (si parla di emissioni negative).
Tuttavia, gli autori concordano sul fatto che per stare negli obiettivi di Parigi, con ogni probabilità, sarà necessario dismettere in anticipo molti impianti convenzionali e non finanziare nuove infrastrutture volte ad accrescere la produzione e il consumo di carbone, gas e petrolio.
Ricordiamo che a simili conclusioni sono giunti altri studi recenti di Oil Change International e Global Witness, dove si afferma, in particolare, che sfruttando le riserve esistenti di carburanti fossili da tutte le miniere e da tutti i giacimenti in attività o in corso di esplorazione, si emetterà più CO2 rispetto a quella “ammessa” per contrastare il cambiamento climatico.
fonte: www.qualenergia.it