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Premio Goldman 2021: i 6 vincitori del Nobel dell’ecologia

Sono eroi dell’ambiente, ma anche persone comuni. Capaci di mobilitare le loro comunità e vincere battaglie importanti contro carbone, plastica, dighe, bracconaggio. Tutte le lotte delle 6 attiviste premiate




“Tutti noi abbiamo ruoli da svolgere, grandi e piccoli, nel compito cruciale di difendere il nostro pianeta”. Jane Fonda presenta così i vincitori del Premio Goldman 2021, 6 attiviste ambientali che portano avanti le loro lotte senza clamore, il più delle volte lontano dai riflettori, ma con successo. Trasformando le loro comunità, spingendole a prendere l’iniziativa e a difendere i loro diritti. Persone comuni, ma anche eroi dell’ecologismo al punto da ricevere il Goldman Environmental Prize 2021, un riconoscimento che viene considerato il “premio Nobel per l’ambiente”.

I vincitori del Premio Goldman 2021

Cinque donne, un uomo, sei battaglie contro la distruzione sistematica della natura e del clima. Protagoniste di campagne per cancellare il carbone e per ridare dignità alle comunità afroamericane intossicate dall’industria. Ma anche di lotte per la tutela della biodiversità (proteggendo il pangolino) e per mettere al bando la plastica. Ecco i loro nomi: i vincitori del Premio Goldman 2021 sono Kimiko Hirata dal Giappone e Thai Van Nguyen del Vietnam per l’Asia, Gloria Majiga-Kamoto dal Malawi per l’Africa, Maida Bilal dalla Bosnia-Erzegovina per l’Europa, Sharon Lavigne dagli Stati Uniti e Liz Chicaje Churay dal Perù per le Americhe.

Storie molto diverse tra loro, quelle delle 6 attiviste ambientali premiate con il Goldman Prize 2021. Il filo rosso però non manca ed è la dimensione collettiva, capace di innescare processi trasformativi nella comunità di origine. E magari avere un impatto a livelli molto più alti.

La sintesi migliore la offre Kimiko Hirata: “Molte persone pensano che l’azione climatica è qualcosa che fai solo a casa tua, risparmiando elettricità e usando meno plastica. Non è tutto qui. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, ciascuno di noi deve agire per cambiare il sistema economico, fare di più per la collettività”. Hirata ha visto il Giappone tornare a bruciare carbone dopo il 2011, per compensare la chiusura delle centrali nucleari in tutto il paese dopo il disastro di Fukushima. Con il suo Kiko Network ha promosso campagne di pressione e fatto chiudere 13 impianti, con una capacità di 7 GW che avrebbero rilasciato più di 1,6 mld di t di CO2 in atmosfera. Tutto questo grazie a una rete capillare di attivisti sparsa sul territorio del Giappone.

Le campagne dei vincitori

Kimiko Hirata: campagna per cancellare l’uso del carbone termico in Giappone dopo il disastro nucleare di Fukushima

Thai Van Nguyen: lotta per tutelare i pangolini, specie a rischio estinzione (e possibile animale-serbatoio di malattie zoonotiche) martoriata dal commercio illegale, in Vietnam

Gloria Majiga-Kamoto: prima premiata dal Malawi, ha creato una campagna che ha portato all’abolizione nel paese di tutta la plastica monouso, sia la produzione che l’importazione

Maida Bilal: l’attivista contro il boom dell’idroelettrico nei Balcani, dove scorre la maggior parte degli ultimi fiumi senza barriere europei, è partita da una campagna contro due dighe sul fiume Kruščica

Sharon Lavigne: ha bloccato la costruzione di una fabbrica di plastica in Louisiana che avrebbe peggiorato l’inquinamento ambientale che impatta soprattutto sulle comunità afroamericane

Liz Chicaje Churay: l’attivista peruviana ha convinto il governo a creare un parco nazionale grande come Yellowstone per tutelare la biodiversità dell’Amazzonia

Cos’è il Goldman Environmental Prize

Il “Nobel per l’ecologia” è stato creato dai filantropi Richard e Rhoda Goldman nel 1989 a San Francisco per dare risalto alle lotte di tanti attivisti ambientali in tutti i continenti. Le nomination vengono decise da una giuria internazionale che raccoglie e valuta i suggerimenti che arrivano da associazioni e reti di attivisti in tutto il mondo. Ogni anno sono 6 i premiati, scelti uno per regione.

Dal 1989 a oggi sono stati due gli italiani insigniti del Premio Goldman. La pioniera è stata Anna Giordano nel 1998, conservazionista attiva con Lipu e Wwf contro il bracconaggio. Nel 2013 è stata la volta di Rossano Ercolini, maestro elementare di Capannori e fondatore del movimento “Rifiuti zero” che prese le mosse dall’opposizione a un inceneritore previsto a poca distanza dalla scuola.

fonte: www.rinnovabili.it




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Rossano Ercolini: “Occorre uscire dal sacco nero della spazzatura! Come?”

 










Rossano Ercolini, presidente di Zero Waste Italy e Zero Waste Europe, vincitore del Goldman Environmental Prize 2013 - Nobel Alternativo per l’Ambiente, lancia un appello per la riconversione ecologica. Occorre orientarsi verso Rifiuti Zero. “IL BIVIO - Manifesto per la rivoluzione ecologica” ed. Baldini+Castoldi scritto da Rossano Ercolini.



LIBRO IL BIVIO


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ReteEcologistaUmbra: I Rifiuti non si buttano - incontro con Rossano Ercolini - Giovedi 14 gennaio 2021 - ore 21


 












Siete proprio sicure/i di sapere tutto riguardo ai nostri rifiuti?

Mettetevi ancora alla prova! Questa volta vi aspettiamo giovedì 14 gennaio 2021 alle 21 per parlarne con Rossano Ercolini, fondatore del movimento Rifiuti zero nonché vincitore del Goldman Environmental Prize e autore del libro "Il Bivio”.

Potrete rispondere ad un simpatico quiz ed avrete la possibilità di chiarire ed approfondire alcuni concetti riguardanti questo tema così complesso ed al tempo stesso importante. Ogni giorno produciamo rifiuti ed è bene avere la consapevolezza di come vanno smaltiti, l'impatto che questi hanno e la possibilità di ridurre la loro quantità.

L'evento verrà trasmesso in diretta dalla pagina Facebook di UdU Eco-solidal, quindi vi aspettiamo lì! L'organizzazione è a cura del gruppo di lavoro dedicato della Rete Ecologista Umbra, con la speciale conduzione a cura del Gruppo Locale Greenpeace Perugia e UdU Eco-solidal con l'importante collaborazione di Zero Waste Umbria.

Non mancate!

Rete Ecologista Umbra


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Chi sono i paladini dell’ambiente premiati con il Goldman environmental prize 2020

Sei storie di coraggio e dedizione, sei esempi da seguire. Sono i vincitori del Goldman environmental prize 2020, il “Nobel per l’Ambiente”.








C’è la leader indigena che finisce nella classifica delle 100 persone più influenti redatte dal Time. C’è l’apicoltrice maya che sconfigge in tribunale una potenza dell’agroindustria. C’è l’attivista che, a poco più di trent’anni, fa cambiare idea alle banche più ricche d’Europa. Quando alla base c’è una ferrea volontà di difendere il nostro Pianeta, non c’è limite che tenga. È l’insegnamento che possiamo trarre dai Goldman environmental prize, i “Nobel per l’ambiente”. Scopriamo chi sono i vincitori dell’edizione 2020 e perché meritano la nostra gratitudine.

Leydy Pech, Messico

Da un lato Leydy Pech, apicultrice maya nata e cresciuta nello stato messicano del Campeche, membro di una cooperativa agricola composta soltanto da donne indigene. Dall’altro lato Monsanto, la multinazionale degli ogm e dei pesticidi acquisita dal colosso farmaceutico Bayer. Sarebbe difficile trovare una trasposizione più fedele della parabola di Davide contro Golia. Anche in questo caso, la disfida ha avuto un esito che in pochi sarebbero riusciti a prevedere.

Sono passati vent’anni da quando Monsanto ha iniziato a coltivare in Messico soia geneticamente modificata e resistente all’erbicida Roundup, il cui principio attivo è il contestatissimo glifosato. Nel 2012 il governo le ha fornito i permessi anche per il Campeche e lo Yucatán, senza però confrontarsi con le comunità locali. Di fronte alle minacce che incombevano sull’apicoltura, sull’ambiente e sulla salute dei suoi concittadini, Leydy Pech non è rimasta ferma con le mani in mano. Ha creato la coalizione Sin Transgenicos, ha coinvolto l’università in una serie di studi scientifici sui rischi connessi agli ogm e al glifosato, e ha trascinato in tribunale il governo messicano. La corte suprema le ha dato ragione, decretando che gli indigeni meritano di essere consultati su questioni così vitali per il loro territorio. A settembre 2017 Monsanto si è vista ufficialmente revocare le autorizzazioni.












Kristal Ambrose, Bahamas

Mentre lavorava presso un acquario alle Bahamas, Kristal Ambrose ha passato due giorni a cercare di liberare una tartaruga marina dalla plastica. A ventidue anni si è unita a una spedizione per studiare la cosiddetta isola di plastica del Pacifico, restando sconcertata nello scoprire che i detriti non erano altro che gli oggetti che lei stessa era abituata a usare in casa: sacchetti, polistirolo, posate in plastica, cannucce.

Forte di questa presa di coscienza, nel 2013 ha fondato l’organizzazione no profit Bahamas plastic movement. Da allora si è dedicata a una fitta opera di divulgazione rivolta soprattutto ai giovani; dai campi di volontariato in cui hanno monitorato i rifiuti sulle spiagge e le microplastiche sulla superficie del mare, ai progetti di riuso creativo dei rifiuti. Nel mese di gennaio del 2018 Kristal Ambrose e i “suoi” studenti si sono messi in viaggio dall’isola di Eleuthera alla capitale Nassau, dove sono stati ricevuti dal ministro dell’Ambiente. Solo quattro mesi dopo il governo annunciava il divieto alla plastica usa e getta, entrato in vigore a gennaio di quest’anno e accompagnato – a partire da luglio – da multe salate.










Paul Sein Twa, Myanmar

Diffusa soprattutto in Myanmar, dove conta circa quattro milioni di abitanti, l’etnia karen ha chiesto l’indipendenza già a partire dal secondo Dopoguerra. Con il cessate il fuoco del 2015, i conflitti armati hanno lasciato il posto a tensioni e schermaglie occasionali con il governo centrale. È karen anche Paul Sein Twa che si è messo all’opera per salvaguardare il bacino del fiume Saluen dalla costruzione di una gigantesca diga.

La formula che ha scovato si chiama parco della pace (anche nota come area protetta transfrontaliera) ed è già stata sperimentata con successo nella Cordillera del Cóndor, tra Ecuador e Perù, nel corridoio di vita selvatica Selous-Niassa, tra Tanzania e Mozambico, o nel Triangolo di smeraldo, dove si toccano i confini di Thailandia, Laos e Cambogia. Tutte zone in cui la tutela della biodiversità e quella del patrimonio culturale vanno a braccetto, favorendo la pace.

Paul Sein Twa ha discusso la sua idea coi rappresentanti di 348 diversi villaggi e l’ha sottoposta a un referendum, in cui il sì ha raccolto il 75 per cento delle preferenze. Il 18 dicembre del 2018 la sua intuizione è diventata realtà. Il parco della pace di Saluen si estende su oltre cinquemila chilometri quadrati e ospita tigri, pangolini, orsi e decine di altre specie selvatiche. Gestito dalla comunità karen, è un avamposto contro le mire dell’industria.









Lucie Pinson, Francia

Nata in Francia, Lucie Pinson ha maturato la sua coscienza ambientalista durante gli studi in Sudafrica. Quando si è unita alla ong Les amis de la terre, ha scelto subito di focalizzare le sue forze sul fronte della finanza. A convincerla, alcuni dati eclatanti. Venti banche internazionali, da sole, erogano il 75 per cento dei finanziamenti all’industria del carbone. E proprio tre istituti transalpini – Bnp Paribas, Crédit Agricole e Société Générale – li hanno foraggiati con 32 miliardi di dollari tra il 2007 e il 2013.

L’azione di Pinson è stata capillare. Campagne mediatiche, relazioni con i giornalisti, stesura di ricerche, conferenze pubbliche, interventi alle assemblee degli azionisti delle grandi banche, lettere indirizzate personalmente ai loro dirigenti. Poco per volta, anche grazie a lei, si è affermato un cambiamento culturale. Nel 2017 nessuna banca francese era più disposta a finanziare nuovi progetti legati al carbone. Ben presto a loro si sono uniti giganti assicurativi del calibro di Axa e Scor.











Chibeze Ezekiel, Ghana

Risolvere la cronica penuria di energia in Ghana costruendo una centrale termoelettrica da 700 MW e un porto che accogliesse 2 milioni di tonnellate di carbone all’anno in arrivo dal Sudafrica. C’era il via libera del governo, c’erano i capitali cinesi. Sembrava tutto già deciso, ma nessuno sospettava di dover fare i conti con la sezione locale della ong 350.org, guidata da Chibeze “Chi” Ezekiel.

Mentre l’industria cercava di conquistare i favori della popolazione promettendo prosperità e posti di lavoro, gli attivisti raccontavano l’altra faccia della medaglia: le emissioni di mercurio e anidride solforosa, l’impatto sui cambiamenti climatici, le piogge acide, la prospettiva concreta di trovarsi senza acqua potabile. A suon di evidenze scientifiche e testimonianze reali, la comunità locale ha preso posizione in modo sempre più netto e il ministero dell’Ambiente non ha potuto fare a meno di gettare la spugna. Nella strategia energetica per il 2030 le rinnovabili hanno finalmente un ruolo da protagoniste.










Nemonte Nenquimo, Ecuador

La comunità indigena Waorani, che vive nell’Amazzonia ecuadoriana, ha la sua paladina. È Nemonte Nenquimo, co-fondatrice dell’alleanza Ceibo ed eletta presidente dell’organizzazione Conconawep che rappresenta gli indigeni della provincia di Pastaza.

Facendo leva su una grande determinazione, ha inanellato una vittoria ambientale dietro l’altra. Ha sostenuto l’indipendenza economica delle comunità indigene, con l’installazione di pannelli solari e sistemi di raccolta di acqua piovana e il supporto alla micro-imprenditoria femminile. Ha dato vita a una mobilitazione dal basso per la tutela della foresta amazzonica, raccogliendo centinaia di migliaia di firme. E alla fine ha vinto una causa contro il governo dell’Ecuador, salvando oltre 200mila ettari dalle esplorazioni petrolifere.

Ormai Nenquimo è considerata un faro da seguire per chi crede negli stessi principi, anche ben al di là dei confini dell’Ecuador. L’ultima prova in ordine di tempo è arrivata dalla rivista statunitense Time, che l’ha annoverata tra le cento persone più influenti dell’anno.














fonte: www.lifegate.it/


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Zuzana Čaputová, l'avvocato coraggioso che ha fatto chiudere una discarica di rifiuti tossici

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La discarica di rifiuti tossici stava avvelenando la terra, l’aria e l’acqua della sua comunità. L’avvocato Zuzana Čaputová però non è rimasta a guardare e ha guidato la campagna per la sua chiusura nella Slovacchia post-comunista.
Zuzana Čaputová è una delle sei vincitrici del Goldman Environmental Prize 2016, il cosiddetto Nobel per l’ambiente.
Madre di due figlie e avvocato di successo di Pezinok, una ridente cittadina della Slovacchia occidentale, che vive principalmente grazie alla viticoltura, Zuzana ha aiutato la sua comunità e ha salvaguardato il suo territorio.
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Dal 1960, infatti, il paese era diventato luogo di una discarica di rifiuti provenienti dalle zone vicine dell’Europa occidentale.
Una discarica costruita senza permessi e senza misure di sicurezza affinché venisse impedito che le sostanze chimiche tossiche danneggiassero la salute dei cittadini e il suolo pubblico.
Se tutto questo non bastasse, una volta raggiunta la massima capacità di contenimento, le autorità regionali avevano deciso di spingere un progetto per la costruzione di una nuova discarica per lo smaltimento dei rifiuti. Il tutto nonostante ci fosse un’ordinanza del 2002 che lo vietasse.
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A pagarne le conseguenze tutta la comunità di Pezinok con cancro, malattie respiratorie, allergie e numerosi casi di leucemia.
Tra gli abitanti appunto la battagliera Zuzana che viveva con la sua famiglia proprio vicino alla discarica. Dopo la diagnosi di cancro per lo zio e la moglie di un collega e numerosi altri casi nella stessa settimana, l’avvocato ha deciso che doveva fare qualcosa per mantenere la sicurezza delle sue due giovani figlie.
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Grazie al suo carisma da leader ha così riunito artisti, imprese locali, produttori di vino, membri della comunità a vario titolo e ha iniziato la sua battaglia per la chiusura della discarica e per impedire che ne venisse costruita una nuova.
Attraverso mostre fotografiche, concerti, proteste e manifestazioni pacifiche, Čaputová è riuscita a raccogliere 8mila firma per la petizione presentata al Parlamento europeo. E oltre all’attivismo della società civile ha impiantato numerose sfide legali.
Migliaia le persone che sono scese in piazza sotto lo slogan “le città non appartengono alle discariche”.
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Nel 2013 arriva la prima buona notizia, la Corte suprema slovacca stabilisce che la costruzione di una nuova discarica è illegale, ritira l’autorizzazione e ordina la chiusura anche della vecchia.
Il verdetto fa eco anche con quello della Corte europea di giustizia che dà ragione ai cittadini. La battaglia dell’avvocato continua ancora oggi per combattere l’inquinamento industriale e difendere il diritto di un ambiente pulito e sicuro. Ciò che è riuscita a mettere su Zuzana è stata la più grande mobilitazione degli ultimi vent’anni in Slovacchia.

fonte: http://www.greenme.it