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Green deal? No politica industriale verde, no party

Non basta fissare obiettivi climatici, per quanto ambiziosi, se a questi non s’accompagna una rivoluzione manifatturiera in grado di portare lavoro e benefici socio-economici alla collettività

Senza una politica industriale, non può esserci alcun Green deal. È quanto sostiene lo studio “A green industrial policy for Europe” pubblicato dal Brussels european and global economic laboratory, ovvero Bruegel, un think tank politico economico internazionale con sede a Bruxelles. Ma perché? La tesi è più che condivisibile: “Le politiche energetiche e climatiche, da sole, non sono sufficienti per raggiungere la neutralità climatica fissata entro il 2050”.

Il punto, in buona sostanza, è che se gli interventi contro la crisi climatica si riducono a sole indicazioni normative in campo ambientale, anche stringenti, non si andrà mai da nessuna parte. I benefici, secondo Bruegel, devono essere anche economici e per la collettività. Serve che la transazione dalle fonti fossile a quelle a minor impatto ambientale porti posti di lavoro, benessere, in poche parole a un miglioramento complessivo della qualità della vita. E per far questo serve una politica industriale verde, che al momento di fatto non esiste.

Un Green deal di successo, come evidenzia l’ASviS (l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) nell’analisi del documento, “dovrà favorire importanti cambiamenti nella struttura economica europea, comprese le transizioni dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, e dal diesel alle auto elettriche. Un cambiamento ampio e radicale per le nostre economie, oltre che un’importante trasformazione socioeconomica. Con il Green deal l’Ue riconosce che le politiche energetiche e climatiche da sole non sono sufficienti per perseguire la neutralità climatica. Ad esempio, una strategia basata solo sull’aumento del prezzo del carbone rimarrebbe sterile, soprattutto se fosse accompagnata da una rivolta popolare come si è verificato in Francia con il movimento dei gilets gialli. Solo una politica più ampia, che comprenda aspetti economici, industriali, fiscali, del lavoro, dell’innovazione e della politica sociale, può affrontare una sfida così importante”.

Ed ecco la proposta, almeno a grandi linee, dentro però a un’oggettiva difficoltà di trovare un punto di caduta: “La politica industriale verde deve conciliare gli obiettivi di decarbonizzazione con il benessere sociale. La mitigazione del cambiamento climatico diventa vincolante per il raggiungimento dell’obiettivo del benessere sociale.Una combinazione di obiettivi difficile da raggiungere contemporaneamente, soprattutto quando sono in conflitto, quando sono necessari dei compromessi e quando è necessario introdurre dei costi nel momento in cui uno degli obiettivi non viene raggiunto. Inoltre, continua il blueprint, la politica industriale verde necessita di un coordinamento più ampio con la politica climatica e con le altre politiche industriali”.

Come? Per Bruegel serve una forte coesione tra il pubblico e il privato: “È fondamentale sviluppare un solido quadro normativo accompagnato dall’applicazione della politica di concorrenza, che garantisca l’accesso a un mercato Ue unico e competitivo, con standard ambientali comuni. Per sviluppare una politica industriale verde di successo, l’Ue deve lavorare a stretto contatto con il settore privato. I partenariati pubblico-privato non riguardano solo il cofinanziamento di iniziative, ma anche la garanzia di accesso a competenze, conoscenze e informazioni. L’Unione europea dovrebbe essere più coraggiosa nel promuovere l’innovazione verde; questo richiede un’assunzione di rischi significativa da parte delle istituzioni pubbliche e l’accettazione del fatto che ci saranno fallimenti”.

Gli esempi positivi non mancano, e in particolare è di interesse anche per noi ciò che stanno facendo in Germania: il suo programma di transizione energetica, che si chiama Energiewende, ha introdotto un sistema di tariffe feed-in per promuovere l’energia rinnovabile. Le tariffe feed-in sono uno degli strumenti più comuni della politica sui cambiamenti climatici. Garantiscono ai produttori di elettricità rinnovabile un prezzo fisso superiore al prezzo di mercato. In genere, vengono utilizzate per promuovere la diffusione dell’energia solare ed eolica, riducendo l’incertezza commerciale attraverso l’individuazione di prezzi fissi nel lungo termine.

Un buon esempio, ma che per Bruegel è assolutamente insufficiente: tra il 1990 e il 2010, la Germania ha registrato performance più debole del settore della produzione di pannelli solari a causa della forte concorrenza cinese e alla mancanza di una politica industriale accomodante. Per questo se “l’obiettivo è la creazione di un’industria competitiva nazionale (…) è fondamentale sostenere anche la ricerca e lo sviluppo nel settore manifatturiero locale”. Un problema che storicamente attanaglia, e con maggiore intensità, anche il nostro Paese – dal fotovoltaico all’auto elettrica.

L’Europa, conclude il documento, è caratterizzata da una moltitudine di iniziative di politica industriale verde, intraprese a livello regionale e nazionale, ma è lontana dall’avere una vera e propria politica industriale verde coordinata a livello europeo. Non solo, “il nostro continente produce meno del 10% delle emissioni globali di gas serra (…)” e “per fare davvero la differenza in termini di protezione del clima, il Green deal deve guardare alle relazioni con i Paesi in via di sviluppo”.

fonte: www.greenreport.it

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Gli ecologisti domenicali

Dobbiamo incominciare a chiarire il significato delle parole ricordando, ad esempio, che la riconversione ecologica non si esaurisce certo nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti e utilizzando altre correzioni del modello industriale novecentesco. Quell’espressione, coniata da Alexander Langer, rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo



Davvero allarga il cuore sentire dirigenti politici e giornalisti, usare con generosità l’espressione riconversione ecologica, per alludere al nuovo corso dello sviluppo economico italiano ed europeo. Si capisce che non sanno di cosa parlano, ma il fatto che ormai ne parlino anche loro è un segno della popolarità che, almeno l’espressione verbale, ha finalmente guadagnato presso i produttori di senso comune.

Ricordo che il sintagma riconversione ecologica è stato coniato in Italia da Alexander Langer e che Guido Viale vi dedica da anni studi e ricerche, purtroppo con scarsi esiti, sia culturali che strutturali. Ma che oggi anche l’Ue tenti di progettare i suoi ingenti investimenti entro la filosofia di un Green Deal, di un modello verde di sviluppo, è sicuramente una grande novità e un’opportunità da cogliere.

Esattamente al tal fine occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco.




Quell’espressione rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo, quello, per intenderci, nato negli Usa negli anni ’30 e fondato sulla cosiddetta planned obsolescence, l’obsolescenza programmata dei beni: le merci devono durare poco per alimentare il processo produttivo, senza nessuna considerazione del fatto che le merci consumano natura e che la natura non è infinita. Dunque è necessaria una vera rivoluzione industriale, possibile solo con un profondo rivolgimento culturale.

Mi confermo in tale necessità, soprattutto in Italia, dopo aver appreso gli ultimi dati del rapporto Ispra sull’espansione del cemento nel 2019. Ne ha dato ampio conto Luca Martinelli sul manifesto (23/7), ricordando che l’anno scorso, seguendo un ritmo senza tregua, sono stati cementificati 57 milioni di m2, due metri quadrati al secondo. Perché tanto cemento, edifici, strade, ponti, in aumento di anno in anno, mentre diminuisce la popolazione?

Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un bene essenziale dell’equilibrio ambientale, ma una risorsa facile per i propri affari. Bisogna che il ceto politico e l’intero governo comprendano questo nodo drammatico dello sviluppo italiano.

I capitali investiti in cemento sfuggono di fatto al mercato, alla competizione, all’innovazione tecnologica e di prodotto e si rifugiano nel settore più tradizionale e primitivo dell’economia.

Tutte le facilitazioni offerte a questo tipo di attività predatoria l’Italia la paga innanzi tutto con un arretramento progettuale e strategico della sua industria. Il nostro Mezzogiorno ha pagato duramente, in termini di arretratezza del suo apparato produttivo, il fatto che i suoi imprenditori hanno avuto agio di fare affari col territorio anziché misurarsi con nuovi settori merceologici, affrontare mercati e sfide tecnologiche.

Naturalmente il suolo, soprattutto in Italia, costituisce il cuore di ciò che chiamiamo natura, ambiente, risorse.

Mostrare preoccupazione per il riscaldamento climatico e continuare a coprire il suolo verde non è più accettabile, perché il cemento innalza la temperatura, così come non è accettabile recriminare per l’allagamento delle città, perché è la copertura totalitaria del verde che trasforma in letti di fiume le strade cittadine appena piove.



Costruire in Italia significa non soltanto sottrarre terra all’agricoltura, ma contribuire al riscaldamento globale, operare per rendere catastrofici gli eventi meteorici. Mentre milioni di edifici vanno in rovina per abbandono, costruire ancora è opera criminale, indirizzata contro l’interesse generale.

Purtroppo non sono solo gli imprenditori che consumano suolo. Anche i comuni fanno la loro parte. Voglio qui segnalare un caso prima che sia troppo tardi e che riguarda la Calabria. A Catanzaro, nella località Giovino, sorge una pineta in riva al mare, connessa a un sistema di dune popolate da una flora selvatica con specie insolite e anche rare. Si tratta di un gioiello naturalistico di quasi 12 ettari presidiato amorevolmente da gruppi ambientalisti locali.

Naturalmente il comune non si azzarda a mettere le mani su un tale patrimonio, ma poiché questo innalza i valori fondiari dell’area adiacente, un piano di lottizzazione per costruzioni varie è sicuramente un buon affare.

In questo modo si salvaguarda l’ambiente e si dà una mano allo sviluppo. Ricordo che dal 2001 la Calabria ha perso quasi 100 mila abitanti, Catanzaro è passata da 95.512 a 88.313 nel 2020. Mentre il centro storico si spopola e nessuno ristruttura vecchi edifici, anche di pregio, si va in cerca di territori vergini più appetibili.

Considero questo caso esemplare di quel che può accadere in Italia, dove circola tanta fame di affari e c’è la possibilità di gabellarli per ecologicamente compatibili.

Articolo pubblicato anche sul il manifesto

fonte: www.comune-info.net



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