All’Italia piace anche fossile : fondi emotivi per cui vogliamo più gas

Serve per la transizione energetica, ma inquina (seppur meno). In 10 anni l’Ue ha destinato 5,5 miliardi a Tap&C. e continuerà a farlo nonostante i buoni propositi




Decarbonizzare, eliminare le fonti fossili, emissioni zero. I più attenti, negli ultimi anni, si sono accorti che nella dialettica italiana ed europea per la lotta in difesa del clima e per la guerra alle fonti fossili, c’è stato un intoccabile: il gas. Il motivo è semplice: nella transizione energetica rappresenta un passaggio fondamentale in assenza di una copertura adeguata delle fonti rinnovabili che sono discontinue per natura mentre per l’Italia è la principale fonte di approvvigionamento energetico, nutre la quasi totalità delle centrali elettriche ed è al centro di grandi interessi industriali di cui Tap, la Trans Adriatic Pipeline, è l’emblema.

La decisionedella Banca europea per gli investimenti (Bei), che la settimana scorsa ha annunciato lo stop dal 2022 dei fondi pubblici alle fonti fossili, gas incluso, è stata il frutto di una trattativa per un compromesso al ribasso durata mesi, durante la quale anche l’Italia si è messa di traverso. “La bozza originaria della Bei era molto ambiziosa – spiega Luca Bergamaschi esperto del think tank europeo E3G – prevedeva un nuovo target di riduzione dal 2020 anche con lo stop a caldaie a gas, ma ha trovato la resistenza di due gruppi. Il primo, formato da Germania, Italia e commissione Ue in difesa degli interessi industriali legati al gas (leggi Eni, Snam, Edison per l’Italia, Uniper e Wintershall per la Germania, con Nordstream2 e Tap, ndr). Il secondo, composto dai paesi del blocco di Visegrad che, dipendenti ancora molto dal carbone, vedono il gas come fonte di transizione”. Anche la seconda bozza, infatti, in ottobre viene bocciata: ancora troppe restrizioni. Il compromesso arriva a metà novembre. Lo stop inizierà dal 2022. Non solo restano i soldi per le infrastrutture già avviate, ma c’è anche spazio di manovra per prevederne nel bilancio comunitario 2021-2027.

Solo in Italia, dal 2009 a oggi, sono stati finanziati 28 progetti legati al gas per un totale di fondi assegnati pari a 5,5 miliardi di euro. Il 31 ottobre, la Commissione Ue ha pubblicato una lista di 32 (o 55 per gli ambientalisti) progetti Ue sul gas che potrebbero essere rifinanziati in tutta Europa e che comprendono rigassificatori in Irlanda, Croazia, Polonia, Cipro e Grecia oltreché il Corridoio Sud del gas, incluso il Tap. Sono progetti che hanno accesso al cosiddetto fondo “Connecting Europe Facility”, che sostiene programmi infrastrutturali di interesse comune e che possono essere co-finanziati dalla Bei. Se il nuovo budget dedicherà soldi a questo fondo, la Commissione potrà decidere se assegnarli o meno al gas. Ed è probabile che lo faccia. “Il budget europeo, insomma, sarebbe una buona opportunità per capire se il cambio di passo c’è davvero”, dice Bergamaschi.

I progetti italiani sono sei: Tap, tra Grecia e Italia per portare in Europa il gas dall’Azerbaijan; il corridoio per le interconnessioni del gas nord-sud tra Malta e Italia (Gela); il corridoio nord-sud per le interconnessioni nell’Europa centrale e del sud-est Ungheria-Slovenia-Italia (Gorizia); la pipeline “Poseidon” che connette Grecia e Italia a Otranto; il rafforzamento delle capacità di trasmissione in Italia inclusi l’Adriatica Line e il rafforzamento delle capacità Matagiola-Massafra; la Transalpine pipeline tra Trieste e Ingolstadt (Germania). “Indirizzare fondi e capitale politico sulle infrastrutture del gas – conclude Bergamaschi – ci rende ancora più dipendenti dall’importazione. È una diversificazione, certo, ma che crea una nuova dipendenza e promette continui finanziamenti a regimi altrettanto autoritari. La si sposta dalla Russia alla Turchia e all’Azerbaijan. Una dipendenza che oggi si può risolvere con più rinnovabili, efficienza energetica, interconnessioni elettriche e sistemi di stoccaggio e di gestione della domanda intelligenti”.

Se da un lato è vero che l’Italia importa circa il 90 per cento del gas per soddisfare il suo fabbisogno, dall’altro è utile guardare bene l’andamento della domanda in questi anni: i dati Ispra mostrano, ad esempio, che a parità di consumi totali e nel contesto di una complessiva riduzione del consumo di fonti fossili, dal 1990 al 2016 il ricorso al gas naturale è aumentato sì di quasi 20mila ktep ma è diminuito di 12 mila rispetto al 2005 e di 10 mila rispetto al 2010. Nel 2016, il consumo finale di energia per gas naturale è più basso del valore del 1995, ma anche di quello dei quinquenni successivi. Certo, contano il calo dei consumi e l’arrivo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, ma è anche vero che sono gli anni in cui il gas diventa giustamente il mezzo di transizione per eccellenza, la rete arriva in tutte le case. Il carbone, in Italia, è da tempo confinato alla sola industria pesante. Per le associazioni ambientaliste e la lobby delle rinnovabili, quindi, ora l’Italia non ha bisogno di ulteriori infrastrutture, soprattutto visto che ci sono almeno tre rigassificatori sottoutilizzati: “Se necessario – si legge in uno studio di E3G – possono soddisfare significative esigenze di importazione aggiuntive: la capacità totale è di circa 15 miliardi di metri cubi con l’infrastruttura attuale, circa il 30% del consumo annuale”.

Dalla sua, il gas è sicuramente meno inquinante delle altre fonti fossili. Ormai è però il primo responsabile di emissioni a gas serra in Italia: quasi 7 mila tonnellate sono fuggitive, cioè gas metano che fuoriesce dalle infrastrutture a gas. Nel secondo semestre del 2019, il gas per la produzione di elettricità è stato la causa principale dell’aumento di emissioni a effetto serra in Italia con una percentuale, solo nel ramo della produzione di energia, di quasi l’8% a un punto di distanza dal carbone. E a discapito delle rinnovabili. “L’incremento delle emissioni – scrive infatti l’Ispra – è dovuto principalmente all’incremento dei consumi di combustibili fossili per la produzione di energia collegata a una riduzione della produzione di energie rinnovabili”.

fonte: www.ilfattoquotidiano.it