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Nasce l’Alleanza europea Materie Prime, per un Green Deal indipendente

La Commissione europea lancia la nuova European Raw Materials Alliance. Il compito? Costruire capacità in tutte le fasi della catena del valore delle materie prime, dall’estrazione mineraria al recupero dei rifiuti.





“Con la transizione verso una società climaticamente neutra e digitale, la nostra dipendenza dai combustibili fossili rischia di essere sostituita dalla dipendenza da materie prime non energetiche, per le quali la concorrenza globale sta diventando sempre più intensa”. Con queste parole Maroš Šefčovič, Vice Presidente della Commissione europea, ha motivato la nascita della Alleanza europea Materie Prime (European Raw Materials Alliance). Creata su modello dell’European Battery Alliance, la nuova intesa mira a riunire tutte le forze comunitarie su un obiettivo preciso: ridurre la dipendenza UE dalle risorse estere essenziali per la transizione ecologica in atto.

Il blocco si è dato importanti obiettivi energetici e climatici per il 2030 e il 2050, inaugurando un nuovo percorso di decarbonizzazione. Non è un mistero, però, che la maggior parte delle tecnologie necessarie al Green Deal europeo necessitano di materiali preziosi o rari che arrivano per lo più da fuori i confini comunitari.

Ad esempio, le terre rare utilizzate nelle turbine eoliche, nelle batterie, nei radar e nella nuova robotica, provengono oggi quasi esclusivamente dalla Cina, nonostante la presenza di giacimenti in Europa (in Francia, Germania, Portogallo, Spagna, Svezia o Groenlandia e Norvegia) e l’enorme potenziale legato al riciclo. Solo per questi elementi si stima un aumento di 10 volte della domanda europea entro il 2050. Domanda che si dovrà scontrare inevitabilmente anche con il consumo degli altri Paesi nel mondo.

Non è solo la concorrenza globale a preoccupare. In questi mesi, la pandemia e le conseguenti interruzioni nelle catene del valore hanno acuito il problema, lasciando diversi nervi scoperti. “Pertanto – ha dichiarato Šefčovič – dobbiamo cambiare il nostro approccio alle materie prime critiche, ridurre la nostra dipendenza e rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento. A tal fine, il piano d’azione sui Raw Materials, insieme al piano d’azione per l’economia circolare, è parte integrante della nostra strategia di ripresa e resilienza”.

Cosa farà nella pratica la nuova Alleanza europea Materie Prime? Metterà assieme attori industriali e investitori, Stati e Regioni, mondo della ricerca e società civile. Un gruppo solido che identificherà barriere, opportunità e casi di investimento per costruire capacità in tutte le fasi della catena del valore delle materie prime, dall’estrazione mineraria al riciclo.

“Ogni anno l’UE genera circa 9,9 milioni di tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche”, ha aggiunto il vicepresidente UE. “Circa il 30% viene raccolto e riciclato. Ma il recupero delle materie prime critiche da questi scarti è inferiore all’1%. Sfruttare queste miniere urbane potrebbe alla fine soddisfare gran parte della domanda dell’UE di materie prime essenziali”.

In una prima fase, l’Alleanza europea Materie Prime si concentra sulla necessità più urgente, ossia aumentare la resilienza UE sul fronte terre rare e nelle catene del valore dei magneti permanenti, poiché questi sono vitali per la maggior parte degli ecosistemi industriali comunitari. Successivamente, si espanderà per soddisfare altre esigenze critiche e strategiche di materie prime e metalli di base, come litio e cobalto.

fonte: www.rinnovabili.it

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Economia circolare, nei nostri dispositivi elettrici c’è una miniera per la transizione ecologica

Sessant’anni fa il cittadino medio dei paesi europei deteneva in media circa 37 Kg di questi oggetti, ad oggi ne possiede circa 730 Kg



Nonostante una lunga pausa dalla crescita economica, viviamo in Italia un’epoca piena di benessere e novità nel campo tecnologico rispetto al passato anche recente. Infatti, per quanto le differenze siano enormi in termini di ricchezza tra il famoso 1% e il resto della popolazione, la quasi totalità di noi ha accesso ad un frigorifero, un cellulare e possibilmente un computer. Tutti i beni di largo consumo direttamente alimentati ad elettricità sono considerati Electrical and electronic equipment (Eee). Questi beni sono rilevanti per svariati motivi.

In primis ci permettono di mantenere standard di vita impensabili fino a sessant’anni fa. Il loro accumulo non è stato più veloce della crescita delle nostre economie. In termini di peso, dove il cittadino medio dei paesi europei deteneva in media circa 37 Kg, ad oggi ne possiede circa 730 Kg.

Ma non è tutto oro quello che luccica. In aggiunta ad aver indirettamente aiutato ad allungare la vita umana grazie alla conservazione alimentare e migliori strumenti medici, gli Eee possono portare nuovi problemi. Poiché l’usura tende a comprometterne le prestazioni, anche questi beni sono destinati al cassonetto. Tuttavia, un incauta gestione dei rifiuti può generare impatti seri.

Il sistema legale a cui facciamo riferimento circa la classificazione dei rifiuti è inquadrato dalla direttiva sulla restrizione delle sostanze pericolose 2002/95/EC, entrata in vigore nel 2003 (da questa legislazione deriva la classifica evidenziata nella prima illustrazione). La ragione di questo dispositivo legale è la minimizzazione degli impatti: questi sono dovuti alla complessa composizione materiale dei prodotti che noi usiamo tutti i giorni. Molti di essi, come piombo, nickel e plastica possono avere effetti dannosi se disperse nell’ambiente. Ma con l’avvento di una visione circolare dell’economia, abbiamo compreso che gli stessi scarti possono essere riconvertiti in risorse.

Dove un computer non può essere riconvertito per problemi di hardware, può infatti essere comunque considerato un piccolo deposito di oro, cobalto, nickel, litio e altro ancora. Per quanto possa sembrare riduttivo pensando al nostro computer di casa, facendo riferimento a tutti gli Eee, in media un cittadino europeo è in possesso di circa 160 Kg di materiale riciclabile. Tra questi troviamo tra ferro, rame, argento, oro, palladio, alluminio ed altri ancora. Secondo la best available technology (BAT), il potenziale di riciclo di alcuni di questi materiali (in particolare i rari come oro) raggiunge il 90%. Sommato tutto quello attualmente classificato, potremmo riciclare circa il 20% del peso del nostro stock.

Questa è una stima potenziale iniziale e solo per 16 materiali, come mostra lo studio Estimating total potential material recovery from EEE in EU28. Si tratta in poche parole di un valore totale di 71.761.633 tonnellate annuali. Per quanto possa sembrare un grande numero, bisogna tenere a mente che la sola produzione di rame nel mondo è nell’ordine delle milioni di tonnellate annuali. Allora perché sarebbe rilevante questa dinamica? E quanto costerebbe essere circolari solo nell’ambito degli Eee?

Adottando un approccio da economisti minerari, la ricchezza di un deposito è spesso dipendente dal grado di roccia o “ore grade”. Un geologo potrebbe alzare la mano avanzando giustamente perplessità. Ci sono svariate accezioni di questo temine. Per semplicità, viene chiamata “ore grade” la percentuale di minerale che si può estrarre da un deposito. Questo valore ha fatto più volte discutere gli esperti in quanto è in caduta libera da decenni. Eppure l’estrazione non sembra diminuire.

Se noi applichiamo lo stesso principio sul “deposito” di Eee, il fenomeno accade nella stessa maniera; poiché si tratta di una variabile insita in manufatti, potremmo definirla artificiale (“Artificial Ore Grade” o AOG in inglese). E anche la percentuale di AOGche possiamo recuperare è in caduta da oltre vent’anni.

Tuttavia, buona parte dei minerali presenti in depositi naturali non ha i livelli di “ore grade” comparabili a quelli artificiali. Se guardiamo ad esempio al rame, i ricchi depositi cileni si misurano in valori millesimali. In Europa sarebbero invece in valori percentuali.

Sebbene in quantità assolute minori, l’habitat umano (chiamato antroposfera) è, secondo questa ipotesi, ricco di risorse. Gli stessi minerali verdi (green minerals) come litio, cobalto, nickel che potrebbero garantirci i materiali per la transizione ecologica sono già qui in Europa.

Poiché però la composizione degli Eee è in cambiamento in favore di parti plastiche per ragioni ergonomiche, la quantità di metallo estraibile si riduce (da notare la seconda immagine). Sarebbe meglio avere beni più ricchi di minerali preziosi e riciclare di più? No, l’abbassamento dell’Aog non è un problema, in quanto come per i depositi naturali è controbilanciato da uno stock massiccio di beni da trattare. Con questa logica la riduzione della dipendenza dai minerali vergini si ridurrebbe drasticamente.

Questo avrebbe un impatto duplice. Il primo di tipo ambientale e sociale, in quanto l’estrazione mineraria estera è spesso correlata con violazioni dei diritti umani (si pensi al Coltan in Congo). Secondo, riduce la dipendenza da produttori esteri. Una logica di recupero a livello europeo (magari tramite grandi hot-spot di raccolta) darebbe le basi ad una strategia comune. Ci sarebbero inoltre positive risvolti occupazionali.

In termini di prospettiva, dovremmo forse guardare alle nostre economie più in termini materiali e di peso piuttosto che di valore.

fonte: www.greenreport.it


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Cresce il numero di rifiuti elettronici a livello globale

I maggiori produttori di rifiuti elettronici sono Cina, Usa e India, con una produzione pari al 38% del totale globale. Ma in Europa si registra la più alta produzione pro-capite.



Nel 2019, il mondo ha raggiunto un triste record. Secondo i dati del rapporto Global E-waste Monitor 2020, durante lo scorso anno sono state scaricate 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, registrando un incremento del 21% rispetto al 2018. Di queste, solo il 17,4% è stato riciclato.

Tra i paesi che hanno contribuito di più alla produzione di rifiuti elettronici troviamo la Cina (con 10,1 milioni di tonnellate), gli Stati Uniti (con 6,9 milioni) e l’India (con 3,2 milioni). Insieme, questi tre paesi hanno rappresentato quasi il 38% dei rifiuti elettronici mondiali nel corso del 2019.

Il messaggio conclusivo del report è dunque chiaro: “il modo in cui produciamo, consumiamo e smaltiamo i rifiuti elettronici è insostenibile“. Infatti, oltre alla bassissima percentuale di materiale riciclato, Global E-waste Monitor segnala che circa 98 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica sono stati rilasciati nell’atmosfera a causa di un riciclaggio inadeguato di frigoriferi e condizionatori d’aria.

Secondo il report, il lockdown su scala globale ha certamente esacerbato il problema dei rifiuti elettronici. A causa della pandemia, infatti, vi è stata una notevole riduzione delle operazioni di raccolta e riciclo della spazzatura, sottolinea a Reuters Kees Balde, ricercatore della United Nations University e collaboratore del rapporto.

Tuttavia, al di là del coronavirus, “nei paesi a medio e basso reddito, l’infrastruttura di gestione dei rifiuti elettronici non è ancora completamente sviluppata o, in alcuni casi, è del tutto assente“, si legge nel rapporto. Tutto ciò, a fronte della crescita del numero dei cosiddetti “nuovi consumatori”, che comporta un aumento della domanda di beni come lavatrici, frigoriferi e condizionatori d’aria.

Se, in assoluto, i maggiori produttori di rifiuti elettronici sono Cina, Usa e India, la prospettiva si ribalta andando a vedere i dati della produzione pro-capite. In questo caso, le persone nel nord Europa hanno prodotto il maggior numero di rifiuti elettronici, circa 22,4 kg ciascuno nel 2019. L’Europa ha però registrato il più alto tasso di riciclaggio, pari al 42%. L’Asia ha raggiunto il secondo posto, con il 12%. In Nord e Sud America il tasso di riciclo di rifiuti elettronici è stato del 9% e in Africa dello 0,9%.

Raggiunto dal Guardian, Mijke Hertoghs, della UN’s International Telecommunication Union, ha sottolineato che “se raccolta e riciclaggio dei rifiuti elettronici fossero organizzati meglio, le economie di scala aumenterebbero e ci sarebbero opportunità per creare una nuova economia e nuovi posti di lavoro. Il riciclaggio, infatti, ridurrebbe l’impatto ambientale dell‘estrazione di nuovo metallo: un grammo d’oro ha un’impronta enorme”.

fonte: www.rinnovabili.it


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Tutto il mondo vuole il cobalto, tutto il cobalto è in Congo: perché quindi in Congo muoiono di fame?

Il paradosso di uno dei Paesi più ricchi di materie prime al mondo, con una ricchezza enorme e una popolazione allo stremo. 












Scavare una latrina nel cortile di casa e trovare un tesoro. Non è una favola di altri tempi. È quello che può accadere nella Repubblica democratica del Congo. Un Paese, uno scandalo geologico come lo definiscono in molti, dove puoi trovare tutto quello che ti serve, in termini di materie prime. Un territorio popolato da circa 80 milioni di persone che vivono, per oltre il 50% in stato di povertà assoluta, ma così ricco da poter sfamare l’Europa intera e non riuscirebbe, neppure così, ad esaurire le sue scorte di riserve naturali.
Costruire una latrina e trovare un tesoro. E’ quando è accaduto a un poliziotto di Kolwezi, una città mineraria abitata da mezzo milione di persone, nella parte meridionale del paese. L’ufficiale di polizia, come racconta Michael J. Kavanagh sul New Tork Times, nel 2014 ha deciso che la sua famiglia aveva bisogno di una nuova latrina.

I bambini che scavano a mani nude, la città svuotata

Pala in mano inizia a scavare nel cortile di casa e poco sotto, nemmeno tanti metri sotto, trova qualcosa che potrebbe cambiargli la vita. La terra scintilla: un cumolo di cobalto si presenta ai suoi occhi. Uno dei minerali più importanti al mondo. Kavanagh torna in quei luoghi nel 2015 e lo scenario che ha di fronte è di tutt’altra natura. Non più una città tranquilla dove ognuno degli abitanti si ingegnava con il proprio mestiere. No, le case cadevano a pezzi, e il territorio sembrava essere stato bombardato, crivellato, ferito. Un’immensa area di buchi profondi fino a 25 metri.

Un luogo dove, tutti, si sono ingegnati a trovare fortuna con la ricerca del cobalto e del rame. I bambini non hanno altra attività se non quella di scavare a mani nude la cruda terra, entrare in questi buchi per portare alla luce un minerale che, appena estratto non ha nessun valore, non lo ha per quei bambini che scavano senza sicurezza, che spesso vengono inghiottiti dagli smottamenti della terra senza che nessuno se ne accorga o li reclami. Un minerale, tuttavia, che acquista valore appena arriva a un porto internazionale che lo trasporta nel mondo civilizzato. La dove serve. E a farla dai padroni, in questa attività, sono le aziende cinesi che si sono accaparrate i diritti di estrazione senza assicurare un salario giusto ai minatori, privi di ogni diritto che lavorano sette giorni su sette, che piova o ci sia il sole.

Perché tutti vogliono il cobalto

Il cobalto è un componente essenziale delle batterie ricaricabili delle automobili e nei telefoni cellulari. La rivoluzione dell’auto elettrica può essere grazie a quel minerale. La Repubblica democratica del Congo è il più grande produttore al mondo, con circa la metà di tutte le riserve conosciute. Eppure questo minerale finisce nelle mani di Pechino con ricadute per la popolazione che lo estrae praticamente nulle. Ad avvantaggiarsene, oltre alla Cina, sono i governanti del Congo che, in una sorta di bulimia di denaro, se ne spartiscono i profitti.

Quello che è capitato al poliziotto, può capitare a chiunque. Magari invece del cobalto trova un filone d’oro, oppure un giacimento di diamanti. Magari di uranio. E, come per la corsa all’oro, le aeree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo. La Repubblica democratica del Congo è un non luogo.

O meglio, è il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie. Come è stata la guerra che ha portato al potere Desiré Kabila padre, a cui è succeduto il figlio, denominata la prima Guerra Mondiale d’Africa. In sette paesi africani si sono contesi pezzi di territorio. Le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali. Una guerra che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni.

La Repubblica democratica del Congo è un non luogo

Alla fine della guerra sono stato in questo paese e ho potuto constatare che la popolazione non aveva nulla. Molte organizzazioni hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva. Mi sono chiesto il perché. Sono andato nella boscaglia per capire ed ecco il risultato: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso. In quello stesso viaggio, nel 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa.

Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei e elicotteri. Non solo. Paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan che si trova solo in Congo.

Nella Repubblica democratica del Congo si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tugsteno, cadmio, petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo modo e che rappresentano una “condanna a morte” per molti degli abitanti del paese.

Ricchissimo di materie prime, e povero

Solo se i governanti investissero le royalty ricavate dalle estrazioni minerarie del paese, gli oltre 80 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, invece no. L’autosufficienza alimentare in molte aeree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4% del totale, nonostante il 75% della popolazione attiva si occupa di agricoltura, per lo più di sussistenza. Invece l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie.

Quello che interessa davvero è l’enorme ricchezza costudita dal sottosuolo congolese. Quello che vi cammina sopra un po’ meno. E, del resto, questo è un vecchio adagio del dittatore Mobutu Sese Seko, che in un’intervista a un quotidiano francese diceva: “Quello che c’è sotto terra è mio, quello che si muove sulla terra è mio, quello che c’è nelle acque è mio, quello che vola nel cielo è mio, l’intervistatore osservava: “Cosa rimane al popolo?, e Mobutu divertito rispondeva: “Il multipartitismo”, diremmo noi la democrazia. Ma con quella non si mangia: il pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176esimo posto al mondo.
fonte: www.agi.it

L’Europarlamento chiede la moratoria sulle miniere sottomarine

Finché gli impatti ambientali sui fondali oceanici non saranno noti, gli eurodeputati chiedono di impedire l’apertura delle miniere sottomarine




















Il Parlamento Europeo ha chiesto una moratoria sulle miniere sottomarine, con una importante risoluzione passata praticamente sotto silenzio. Il voto dell’Eurocamera arriva mentre L’International Seabed Authority (ISA) si sta occupando di redigere i regolamenti per governare l’estrazione mineraria dai fondali oceanici (Deep Sea Mining). L’organo intergovernativo fondato nel ’94, con sede in Giamaica, ha la potestà sulle acque extraterritoriali, e quest’anno dovrebbe pubblicare le linee guida per le attività minerarie in mare aperto. Ma la risoluzione del Parlamento Europeo riapre un dibattito che vede contrapposti gli ambientalisti alle grandi aziende interessate all’estrazione di minerali preziosi per la crescente domanda di dispositivi elettronici. Fino a che non saranno compresi a fondo gli impatti ambientali sui fondali marini, Strasburgo chiede che nessuna licenza venga rilasciata alle aziende.
Gli studi condotti finora sono ancora pochi e poco estesi, ma spesso concordano nel dire che gli impatti ambientali del deep sea mining potrebbero essere praticamente irreversibili. A grandi profondità, infatti, gli ecosistemi hanno un bassissimo livello di resilienza.

 

Gli eurodeputati chiedono alla Commissione Europea di persuadere gli stati membri a smettere di supportare le attività estrattive, anche nelle acque territoriali, e di «sostenere invece una moratoria internazionale sulle licenze commerciali di sfruttamento minerario in acque profonde fino al momento in cui gli effetti dell’estrazione di acque profonde sull’ambiente marino, sulla biodiversità e sulle attività umane in mare saranno stati studiati e studiati a sufficienza e tutti i possibili rischi compresi».
L’International Seabed Authority è composta da 168 stati membri, che rilasciano licenze a società e compagnie statali per l’esplorazione e l’eventuale estrazione dei fondali marini. L’ ISA sta attualmente sviluppando regolamenti che consentirebbero l’estrazione dal mare profondo di giacimenti minerari ricchi di manganese, nichel, ferro, cobalto e elementi rari fondamentali nella produzione di oggetti di largo consumo, dagli smartphone ai pannelli solari fino alle batterie.

fonte: www.rinnovabili.it