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Perché Shell e le altre compagnie fossili sono il “motore del disastro climatico”

Non bastano minuscoli investimenti in sostenibilità a far diventare le aziende delll'oil&gas una speranza di cambiamento e una parte della soluzione climatica
















Qualche mese fa un editoriale di Gianni Silvestrini ricordava un documento della Shell, “Sky Scenario”, in cui si ipotizzava di raggiungere una neutralità dei flussi di carbonio entro il 2070 in modo da non superare l’incremento di 2 °C.
A parte il ruolo in forte crescita del solare in grado di coprire un terzo di tutta la domanda di energia, gli attori protagonisti di questo ipotetico processo di decarbonizzazione  sarebbero 10mila impianti per il sequestro della CO2.
Insomma, è un po’ quello che da almeno un paio di decenni fanno le grandi compagnie petrolifere: prenderci in giro. Ci fanno sapere che loro puntano ad un pianeta con meno CO2, ma che alle fonti fossili non si può rinunciare.
Proprio una ventina di anni fa una dichiarazione di un Ceo di un grande gruppo petrolifero stimava, citando un report aziendale, che le rinnovabili avrebbero coperto il 50% del fabbisogno al 2050.
All’epoca si trattava di una quota rivoluzionaria, insperata, e tanti ambientalisti si eccitarono per la novità che veniva da un acerrimo “avversario”. Ma una volta visti con attenzione i dati dello scenario a 50 anni, si notava che in termini assoluti l’offerta di energia da fonti fossili sarebbe rimasta pressoché immutata, vista anche una correlata stima della relativa domanda in forte crescita.
Lo stesso fa Shell con il suo più recente scenario (ma anche BP con il suo ultimo Outlook): pensano di usare tecnologie per il sequestro della CO2 e continuano ad estrarre combustibili fossili, e danno allo stesso tempo segnali che il cambiamento è in atto, con etiche dichiarazioni di sostenibilità e annunciando nei loro studi che le rinnovabili avranno un peso sempre più importante. Purtroppo il denominatore (il consumo di energia) è sempre più grande e, allora, il loro business non ne viene intaccato più di tanto (un bel segnale anche per i loro azionisti).
Chi continua a dare loro credito non tiene conto del fatto che per questi giochini di cifre non c’è più tempo e continuare a investire in fonti fossili, come in effetti sta avvenendo e avverrà nei prossimi anni secondo i piani di molte compagnie, accelererà tutti gli elementi e le variabili destabilizzanti del clima del pianeta.
La Shell due mesi fa ha annunciato la creazione di un fondo di 300 milioni di dollari per investimenti in ecosistemi naturali nei prossimi tre anni. Lo scopo è “sostenere la transizione per un futuro a basso contenuto di carbonio”. Così c’è scritto.
George Monbiot, un famoso giornalista ambientale del Guardian, nel suo blog ha spiegato come la compagnia petrolifera intenda compensare, di fatto, un pochino di gas ad effetto serra prodotto dall’estrazione di petrolio e gas nei suoi pozzi.
Nonostante l’entusiasmo di molti ambientalisti per questo presunto cambiamento di Shell, il giornalista ha puntualizzato intanto che questa cifra spalmata in tre anni è un trascurabile investimento di una società che ha un reddito annuale pari a 24 miliardi di dollari e che nell’abstract dell’ultimo bilancio non compaiono nemmeno i fondi relativi agli investimenti in fonti rinnovabili (così come nell’anno precedente), forse solo perché non rilevanti nel bilancio.
Ma, ricorda Monbiot, nel 2018 la Shell nel comparto oil&gas ci ha messo ben 25 miliardi di dollari.
Tutto denaro che include anche le esplorazioni per nuove riserve nelle acque profonde del Golfo del Messico e a largo del Brasile e della Mauritania, per non parlare del suo ruolo nelle sabbie bituminose del Canada per produrre petrolio sintetico e della sua attività futura nel fracking e nelle tecnologie per la liquefazione del gas naturale. Ma, respiro di sollievo, ha abbandonato le esplorazioni nell’Artico.
Insomma, ecco la transizione in salsa Shell.
Non può bastare una minuscola compensazione nella protezione delle risorse naturali o uscire con comunicati e dichiarazioni con consigli “green” ridicoli per i consumatori (“d’estate non mettete la cravatta così potete abbassare di alzare di un grado i condizionatori” oppure “non mangiate le fragole in inverno per vengono dall’altra parte del pianeta e incidono sulle emissioni dei trasporti”). Non può bastare così poco per dimenticare i danni ambientali, economici e sociali creati da queste multinazionali a livello locale e globale.
Come afferma Monbiot e gli scienziati del clima dobbiamo subito lasciare le fossili sotto terra e proteggere i nostri  ecosistemi. Ma “l’età delle compensazioni è finita”.
Un messaggio per chi si ostina ancora a vedere in ogni barlume di sostenibilità promesso da queste aziende fossili una speranza di cambiamento, e farle diventare una parte della soluzione climatica.
Per il momento, e non siamo smentiti dai fatti, condividiamo quanto scrive George Monbiot: “la Shell (come le altre big oil&gas, aggiungiamo) non sono nostre amiche, ma il motore della distruzione planetaria”.
fonte: https://www.qualenergia.it/

Petrolio, così l’industria ricattava l’Europa

La lobby del petrolio ha minacciato il Commissario all’Energia di delocalizzare se non avesse indebolito le leggi su clima e inquinamento


Petrolio così l'industria ricattava l'Europa

L’industria del petrolio ha ricattato la Commissione europea riuscendo a indebolirne la legislazione sulle emissioni. Lo dimostrano le lettere tra i vertici di British Petroleum e l’ex Commissario al clima e l’energia, Guenther Oettinger finite in mano al Guardian. È l’ennesima prova schiacciante della cortigianeria dimostrata da alti livelli della governance comunitaria nei confronti delle lobby dell’industria.
Grazie ad una richiesta di accesso agli atti, la testata britannica ha potuto leggere uno scambio del 2013 tra il Commissario e un dirigente della BP. Il contenuto delle lettere aiuta a capire molto di quanto è successo in Europa negli anni successivi. L’Ue ha abbandonato o indebolito proposte chiave per aumentare il livello della protezione ambientale dietro il ricatto di una deindustrializzazione del continente da parte delle società petrolifere. Le Big Oil hanno minacciato Bruxelles di delocalizzare la produzione e la raffinazione se le nuove regole fossero state troppo restrittive.
Nelle 10 pagine che la BP ha inviato al Commissario Oettinger, vengono criticati tutti i provvedimenti che l’Unione aveva in mente di adottare per migliorare la qualità dell’aria, il settore dei trasporti e dell’energia.

Petrolio così l'industria ricattava l'Europa 2

Ad esempio i vertici BP, come tutta l’industria del petrolio, erano fortemente critici verso la bozza di direttiva sulla qualità dei carburanti, che avrebbe scoraggiato l’importazione di petrolio da sabbie bituminose. Questo provvedimento, ha scritto BP a Oettinger, «rischia di costringere le industrie ad alta intensità energetica, come la raffinazione e petrolchimica, a trasferirsi fuori dall’Ue, con un impatto altrettanto dannoso sulla sicurezza dell’approvvigionamento, i posti di lavoro e la crescita».
Risultato? Nel 2014, la direttiva sulla qualità dei carburanti è stata stravolta. Stesso discorso per le rinnovabili: BP era contraria ad ogni forma di sussidio, soprattutto in Germania, così come al tetto per i biocarburanti di prima generazione, inquinanti e nocivi. L’anno successivo, l’Ue ha eliminato le sovvenzioni alle rinnovabili e alzato la soglia dei biofuel.
Questo documento, in sostanza, traccia un quadro preoccupante della capacità delle multinazionali di sovvertire il processo democratico, di influenzare la Commissione europea e minacciare la transizione energetica.
Nella sua risposta, Oettinger ha detto di condividere le aspettative dell’azienda riguardo alla garanzia che il TTIP, l’accordo di libero scambio tra USA e Ue, comprendesse esportazioni illimitate di greggio e gas.

fonte: www.rinnovabili.it