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Rimini, nasce il primo supermercato dove non servono i soldi: ecco come si fa la spesa

Il supermercato di Rimini
RIMINI - Gli scaffali sono pieni di alimenti per tutte le esigenze e si tratta di un vero e proprio supermercato, ma non serve avere con sé il portafogli. A Emporio Rimini è nato il primo market dove non serve il denaro per fare la spesa. L'iniziativa solidale del comune romagnolo ha conquistato tutti, ma occorrono alcuni requisiti per usufruire del servizio.
 
L'idea concepita in un sistema welfare viene in aiuto delle persone in difficoltà economiche. La spesa viene pagata attraverso punti che verranno assegnati sulla base di alcuni parametri e per un periodo massimo di 12 mesi.
I requisiti sono: residenza a Rimini o in uno dei 10 Comuni della Valmarecchia (in quanto il progetto è cofinanziato dal Piano di Zona del distretto socio-sanitario Rimini Nord); Dsu e Isee congruo con reddito fino a un massimo di 7.500 euro; stato occupazionale, per le persone in età lavorativa.

L'Emporio è stato inaugurato sabato mattina alla presenza del vescovo Francesco Lambiasi, del sindaco Andrea Gnassi e del vicesindaco con delega alla protezione sociale Gloria Lisi, oltre ai rappresentanti della Prefettura e delle tante associazioni coinvolte in questa nuova, “utopica” esperienza. Ci lavoreranno volontari e il cibo potrà essere raccolto anche grazie alle donazioni di privati.
#EmporioRimini è nato grazie a istituzioni e associazioni della provincia di Rimini.

fonte: http://www.ilmessaggero.it

Al via la seconda edizione di MercaTiAmo

Da venerdì 22 gennaio, dalle 16 alle 19, il mercato della biodiversità al Work Out Pasubio, fino a giugno.
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Al via la seconda edizione di MercaTiamo, il mercato della biodiversità ispirato alla sostenibilità ambientale a chilometro zero, che si svolgerà, con il patrocinio del Comune, da venerdì 22 gennaio, dalle 16 alle 19, al Work Out Pasubio, fino a giugno.
Ne hanno parlato la vicesindaco Nicoletta Paci con delega all'associazionismo ed i rappresentanti del gruppo di MercaTiamo: Aldo Caffagnini, Teresa Dejana, Andrea Tozzi e Roberta Mell.
“Riparte venerdì la nuova edizione di MercaTiamo – ha sottolineato la vicesindaco Nicoletta Paci – si tratta di un mercato ispirato ai valori della sostenibilità ambientale che l'Amministrazione ha patrocinato nell'ottica di una riscoperta del rapporto tra produttori e consumatori, grazie alla proposta di prodotti biologici e a chilometro zero”.
Andrea Tozzi ha ricordato che il gruppo di MercaTiamo è formato da circa 35 produttori. In gennaio ne saranno presenti una ventina, per dare avvio alla seconda edizione, dopo il successo riscontrato da ottobre al Natale scorso. “Si tratta di produttori locali – ha spiegato – che si riconoscono nel distretto di economica solidale e che adottano un sistema di qualità complementare basato sul rispetto dell'ambiente, la difesa della biodiversità e la valorizzazione dei prodotti tipici del territorio”.
“Vogliamo costruire una comunità che gravita attorno al tema del “cibo buono” - ha detto Teresa Dejana – frutto del lavoro dei singoli produttori che coltivano e vendono i loro prodotti fornendo consigli su come cucinarli e per un ritorno al valore intrinseco della spesa, intesa non più come momento meramente consumistico”.
Aldo Caffagnini ha ricordato che è attiva la pagina Facebook di MercaTiamo e che entro due settimane sarà pronto il sito da cui sarà possibile prenotare la spesa per i soggetti che si trovano nelle zone vicine a Work Out Pasubio. La spesa verrà consegnata in bicicletta. “Work Out Pasubio – ha concluso – sarà anche il punto di ritrovo per i produttori di acquisto solidale di Parma e provincia che sono oggi una quarantina e intende consolidare la propria presenza come punto di comunità”.
Riparte, così, "MercaTiAmo", dopo il successo di quest’autunno, e si rinnova l'appuntamento con la manifestazione che ogni venerdì fa incontrare la cittadinanza con gli agricoltori delle nostre terre e coi loro prodotti. Nuovo anno, nuovo passo avanti di questo innovativo progetto. Per i prossimi sei mesi, infatti, tutti i produttori aderenti a MercaTiAmo prenderanno parte al sistema di garanzia partecipata(PGS) promosso e coordinato dal DES (Distretto di Economia Solidale del parmense), con l’obiettivo di rendere trasparenti e condivisi i loro processi produttivi e di migliorarne ulteriormente l’impatto ecologico e sociale.
Il percorso prevede l’esplicitazione delle pratiche adottate dai partecipanti e del contesto ambientale ed organizzativo in cui operano, elementi che verranno verificati sul campo attraverso visite condotte da produttori affini e componenti dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) della nostra provincia, affiancati quando necessario da tecnici ed esperti.
Tutto questo per garantire un acquisto sempre più ecologicamente e socialmente sostenibile, oltre che per rafforzare la “comunità intorno al cibo” che MercaTiAmo sta contribuendo a costruire.
Per approfondire questa importante novità e per gustare tutti i prodotti, appuntamento come di consueto venerdì dalle 16.00 alle 19.00 all’interno del Workout Pasubio (complesso ex Manzini di via Palermo, 6), ingresso in via Catania, al riparo da pioggia, vento e freddo, con ampia possibilità di parcheggio.

fonte: http://www.comune.parma.it

Riprendersi la città

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“Autorganizzazione, appropriazione dei luoghi e produzione di urbanità”
Le città sembrano essere intensamente attraversate, in questa fase storica, da processi e pratiche di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi, dei propri contesti di vita. Si tratta, in realtà, di esperienze molto diverse tra loro: dagli orti urbani alle forme di autogestione della città informale e autocostruita, dal parkour alle occupazioni a scopo abitativo, dagli spazi verdi autogestiti alle recenti occupazioni dei luoghi di produzione culturale (cinema, teatri, ecc.), dagli usi temporanei di spazi abbandonati all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate, ecc.
In questa varietà di situazioni, emergono alcune motivazioni, a diversi livelli: “di necessità”, di carattere politico e di carattere personale. Queste tre dimensioni sono in realtà inscindibili e si influenzano reciprocamente. Anzi, sono un elemento innovatore: ad esempio, l’azione e il pensiero politici sono ripensati anche in considerazione di una relazionalità profonda e di un rapporto con la vita quotidiana; così come le risposte ai bisogni sociali sono cercate all’interno di idee diverse di città e di pratiche alternative di convivenza.
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Casa Bettola autogestita, Reggio Emilia

Il lavoro sul campo evidenzia, però, un’altra motivazione, che emerge non solo nelle persone, ma nei collettivi, spesso nella dimensione sociale della convivenza locale, e cioè un bisogno di urbanità e di qualità di vita urbana. È un bisogno che non risponde soltanto a giuste necessità basilari, ma che si radica anche nel bisogno di una qualità dell’abitare, intesa in termini di possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di sentirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città (e non semplicemente di subirlo), di partecipare e di sentirsi corresponsabile delle scelte che riguardano il proprio contesto di vita, di creare condizioni per una socialità reale e profonda, di non subire modelli eterodiretti e condizionati soltanto dalle logiche economiciste dell’interesse e del profitto, di decolonizzare l’immaginario collettivo dai modelli imposti di abitare, di dare valore alla memoria e alla bellezza, di prestare attenzione alle storie degli abitanti e alla dimensione della quotidianità, di dare forma ad una progettualità collettiva. Si tratta di dimensioni che l’attuale sviluppo della città sembra aver cancellato, e su cui converge un’attenzione che travalica le differenze sociali o culturali, perché va a interessare la persona nella sua essenza. E allo stesso tempo, quello dell’urbanità è un bisogno costitutivo dell’idea stessa di appropriazione dei luoghi e di autorganizzazione, che altrimenti non potrebbero sussistere.
Conflitti e territori
Anche la dimensione del conflitto assume caratteri diversi. Sembra assumere forme che non sono più quelle del confronto frontale sulle politiche, sostenuto da una diffusa mobilitazione sociale. Per questo motivo, in alcuni casi il conflitto sembra perdere la sua valenza politica e la sua forza euristica e costruttiva. D’altra parte, questo cambiamento può essere interpretato diversamente, e l’evoluzione del conflitto può anche rappresentare l’affermarsi di modi diversi dell’azione politica e l’esprimersi di energie innovative.
In alcune esperienze si rinuncia ad un conflitto diretto nel senso tradizionale del termine, pur mantenendo ovviamente un clima di conflittualità, per lavorare invece sulla costruzione di un’alternativa che è prima di tutto culturale e poi politica, attraverso la sua sperimentazione diretta nella pratica della propria organizzazione, attraverso la costruzione di relazioni con i propri territori di riferimento o di reti territoriali a livello cittadino e sovralocale, e – in alcuni casi – anche attraverso la ricerca di un riconoscimento istituzionale, preparato tramite un grande lavoro in campo culturale. È su questo terreno, quello dell’elaborazione culturale, ovvero dell’elaborazione di possibili innovative categorie interpretative della politica e delle istituzioni, interpretata in un senso non egemonico, ma inclusivo, che si gioca l’affermazione di un’innovazione e di un’autonomia al di fuori dei tradizionali spazi del conflitto e del confronto politico, ritenuti inadeguati e di fatto colonizzati dalla prevalenza dell’economico sul politico.
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Centro sociale Il Pozzo, Comunità delle Piagge, Firenze

Ripensare la politica
Alcune esperienze pongono direttamente ed esplicitamente diversi interrogativi sui modi di produzione della politica e delle istituzioni, inserendosi in un vasto dibattito e diventando spesso protagonisti di una specifica elaborazione culturale. D’altronde anche le esperienze che non lo fanno esplicitamente, di fatto sollevano indirettamente il problema.
In primo luogo, un aspetto caratterizzante è la dimensione dell’azione, l’idea di costruire e realizzare la politica attraverso l’azione e la pratica. La politica si elabora e si rielabora nel farsi dell’azione.
In secondo luogo, sembra rilevante l’obiettivo di ricostruzione di uno ‘spazio pubblico’ (concetto abusato e spesso trasformato in slogan), non più come categoria astratta della modernità e luogo logoro del dibattito politico tradizionale, ma come luogo di produzione della politica che affondi le radici nelle esperienze e nelle domande della quotidianità e della convivenza, e diventi la costruzione libera di idee a partire dal confronto e dalla condivisione sulle situazioni di vita e non da ideologie precostituite. Uno ‘spazio pubblico’ quindi che si radica nelle esigenze e nelle domande delle persone nella vita di ogni giorno, che a quelle cerca risposte, che si confronta con le ragioni dell’altro, dove non è il prevalere di una posizione che importa o interessa ma il percorso del consenso, il processo che porta alla costruzione di una posizione condivisa e che risponde alle esigenze espresse e messe in comune.
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Casetta rossa, Roma

In terzo luogo, mirano quindi a spostare i luoghi di produzione della politica e a ripensarne le modalità, rispetto a quelli tradizionali. Queste esperienze sviluppano quindi il tentativo di ricostruire il politico, non più come categoria autonoma con sue regole specifiche, ma come in-between, a partire cioè dal ‘sociale’, come attributo del sociale, del vivere in relazione, in una sua forma che si potrebbe considerare più “basale”.
In conseguenza di questo approccio, ed è questo un quarto punto di particolare attenzione, le esperienze di autorganizzazione pongono il problema del ripensamento delle istituzioni.
Questo processo ricostruttivo che riparte dalle persone e dalle narrazioni trova la sua centralità nel territorio, come luogo della vita quotidiana, come luogo della presa diretta con i vissuti, con le esigenze personali che diventano sociali, come luogo della concretezza, dell’empatia e della convivenza. Come già molti hanno affermato, perché la politica recuperi un significato è necessario che riparta dai territori; non come localismo ma come luogo della ricostruzione di senso. Vi è la necessità di un re-incanto della politica. Il ‘territorio’, come proprio ‘contesto di vita’, rappresenta proprio il luogo e il medium di un tale re-incantamento.

Carlo Cellamare

Carlo Cellamare è docente di urbanistica alla facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza. Svolge attività di ricerca sui processi di progettazione urbana e territoriale e sulla partecipazione (con particolare attenzioni alle trasformazioni dei quartieri e alle politiche urbane per le periferie). Tra le sue pubblicazioni: Culture e progetto del territorio (Franco Angeli, 1999), Labirinti della città contemporanea (a cura di, Meltemi, 2001), Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008). Altri articoli scritti per Comune sono qui. La sua adesione alla campagna Facciamo Comune insieme è leggibile qua.

fonte: http://comune-info.net

L’emporio, il negozio senza mercanti

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Giornata di laboratori per grandi e piccoli a Verderame, Casa dell’economia solidale di Pesaro

Nata più di dieci anni fa, la Rete dell’economia etica e solidale delle Marche, associa un centinaio di aziende, 50 gruppi di acquisto, 14 associazioni culturali, alcune amministrazioni comunali e 7 punti vendita che chiamano “empori”: Galleria AltraEconomia ad Urbino, AltraEco a Recanati, Emporio di Gaia a Civitanova, Emporio AE a Fano, Circolo Eco e Bio ad Ancona, EcoAma a Fermo, Verderame a Pesaro. Sono gestiti da consorzi di produttori o da cooperative sociali o anche da semplici volontari. Sono punti di incontro, snodi logistici e di idee tra produttori (non solo contadini, ma artigiani, operatori sociali, prestatori di servizi vari) e cittadinanza che desidera essere sempre più informata e responsabile delle proprie scelte di vita.
L’aria che si respira negli empori è straordinariamente diversa da quella di un qualsiasi negozio. Non ci sono merci, ma beni. Sai cosa compri e chi te la vende. Non ci sono pubblicità e confezioni ingannevoli. Il prezzo serve a ripagare un lavoro utile e ben fatto. Null’altro. Il ragazzo tiene in ordine gli scaffali, molto probabilmente, fa parte di un progetto di inserimento lavorativo di persone con fragilità di vario tipo. Ma puoi entrare anche se non hai bisogno di nulla perché gli empori sono anche luoghi di informazione e cultura.
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I principi guida della Rees sono la cooperazione sociale, il biologico, la filiera corta. Nella rete vi possono entrare imprese di qualsiasi forma giuridica e ramo d’attività, ma sono chiamate a stipulare un “accordo di rete” che è un vero e proprio patto etico, impegnativo tanto nella conduzione dell’azienda, quanto nel rapporto con l’esterno. Alla base di tutto c’è il vasto mondo contadino che nelle Marche è stato pioniere del biologico (pensiamo alla cooperativa La terra e il cielo) e dell’agriturismo. Poi ci sono i laboratori di trasformazione (pasta, olio, formaggi, cosmetica ecc.) e le imprese che si occupano di bioedilizia. Infine i servizi: da quelli finanziari con la Banca Popolare Etica, a quelli che si occupano di trasporti, informatica, grafica e cultura. L’obiettivo strategico è creare reti di comunità che sappiano soddisfare i propri bisogni con modalità sostenibili ed eque.
Roberto Mancini insegna filosofia all’università di Macerata e fa parte del direttivo della Rees: invita a pensare all’economia come all’attività di cura del bene comune: “L’economia è un segmento della democrazia e la democrazia a sua volta deve essere espressione di una civiltà etica che abbia un senso per l’umanità”. Katya è una delle fondatrici, ci ricorda il lungo lavoro umano, collettivo e plurale, declinato al femminile, svolto per mescolare provenienze e identità diverse e aprirle al territorio. I Gruppi di acquisto, spiega, sono l’anello che chiude la catena delle filiere dell’altra economia e c’è bisogno di una convergenza con la società locale e con gli enti pubblici.

Paolo Cacciari

fonte: http://comune-info.net

Fatti che generano speranza

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Dappertutto si va a caccia di alternative alla produzione industrial/mercantilistico/consumistica, visto che gli effetti sulle società e sulla natura si dimostrano sempre più disastrosi. Il caos climatico, l’erosione della biodiversità, la scarsità di acqua potabile, la penetrazione dei pesticidi negli alimenti e il riscaldamento globale sono i sintomi più rivelatori. Questo modo di produzione è ancora dominante, ma non è indenne da serie critiche.
In compenso, appaiono dappertutto forme alternative di produzione ecologica, come l’agricoltura organica, cooperative di alimenti biologici, agricoltura familiare, eco-cittadine e altre affini. La visione di un’economia della sufficienza ossia del “ben vivere e convivere” dà spessore al bioregionalismo. L’economia bioregionale si propone di soddisfare i bisogni umani (in contrasto con la soddisfazione dei desideri) e realizzare il ben vivere e convivere, rispettando le possibilità e i limiti di ogni eco-sistema locale.
Innanzitutto dobbiamo interrogarci sul senso della ricchezza e del suo uso. Invece di avere come obiettivo l’accumulazione materiale al di là di ciò che è necessario e decente, dobbiamo cercare un altro tipo di ricchezza, questa sì umana veramente, come il tempo per la famiglia e i figli, per gli amici, per sviluppare la creatività, per godersi incantati lo splendore della natura, per dedicarsi alla meditazione e al tempo libero. Il senso originario dell’economia non è l’accumulazione di capitale ma creazione e ri-creazione della vita. Essa è ordinata a soddisfare le nostre necessità materiali e a creare le condizioni per la realizzazione dei beni spirituali (non materiali) che non si trovano sul mercato, ma provengono dal cuore e da corretti rapporti con gli altri e con la natura, tipo la convivenza pacifica, il senso di giustizia, di solidarietà, di compassione, di amorizzazione e di cura per tutto quello che vive.
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Mettendo a fuoco la produzione bioregionale, abbiamo minimizzato le distanze che i prodotti devono affrontare, abbiamo economizzato energia e diminuito l’inquinamento. Quel che occorre per i nostri bisogni può essere fornito da industrie di piccola scala e con tecnologie sociali facilmente assorbite dalla comunità. I rifiuti possono essere maneggiati o trasformati in bio-energia. Gli operai si sentono legati a ciò che la natura locale produce e siccome operano in piccole fabbriche, considerano il loro lavoro più significativo. Qui risiede la singolarità dell’economia regionale, invece di adattare l’ambiente alle necessità umane, sono queste ultime che si adattano e si armonizzano con la natura e perciò assicurano l’equilibrio biologico. L’economia usa in grado minimo le risorse non rinnovabili e usa razionalmente le rinnovabili, dando alla Terra il tempo per il riposo e la rigenerazione. I cittadini si abituano a sentirsi parte della natura e suoi curatori.
Invece di creare posti di lavoro, si cerca di creare, come afferma la Carta della Terra, “modi sostenibili di vita” che siano produttivi e diano soddisfazione alle persone.
I computer e le moderne tecnologie di comunicazione permetteranno di lavorare in casa, come si faceva nell’era pre-industriale. La tecnologia serve non per aumentare la ricchezza, ma per liberarci e garantirci più tempo – come sempre enfatizza il leader nativo Ailton KrenaK – per la convivenza, per il riposo creativo, per il rilassamento, per la restaurazione della natura e per la celebrazione delle feste tribali.
L’economia bioregionale facilita l’abolizione della divisione del lavoro fondata sul sesso. Uomini e donne assumono insieme i lavori domestici e l’educazione dei figli e hanno cura della bellezza ambientale.
Questo rinnovamento economico favorisce anche un rinnovamento culturale. La cooperazione e la solidarietà diventano più realizzabili e le persone si abituano a un comportamento corretto tra di loro e con la natura perché è più evidente che questo fa parte dei suoi interessi come di quelli della comunità. La connessione con la Madre Terra e i suoi cicli suscita una coscienza di reciproca appartenenza e di un’etica della cura.
Il modello bioregionale, a partire dalla piccola città inglese Totnes è assunto oggi da circa 8.000 città, chiamate Transition Towns: passaggio verso il nuovo. Questi fatti generano speranza per il futuro.

*Leonardo Boff, scrittore, ecólogo, teologo. Traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato (https://leonardoboff.wordpress.com/
fonte: http://comune-info.net/
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Una famiglia “rifiuti zero”

Lei è Linda Maggiori, abita a Faenza, è madre di tre figli e, insieme al marito, ha concretizzato obiettivi di tutto rispetto. La loro è una famiglia “a rifiuti zero”, come altre che fanno parte di una vera e propria rete che sta cambiando le cose dal basso e dal piccolo.

Una famiglia “rifiuti zero” «Insieme al mio Gruppo d’acquisto, con la consulenza di Natale Belosi  e insieme ad una rete di famiglie dislocate in tutta la regione Emilia Romagna, abbiamo ideato l'iniziativa "famiglie rifiuti zero"» spiega Linda.  «Ci impegnamo a ridurre i rifiuti (non solo riciclare), monitorando il peso di ogni sacco di  immondizia che buttiamo. Dieci famiglie hanno aderito al progetto di monitoraggio, ma tante altre simpatizzanti ruotano intorno, riducendo senza però riuscire a monitorare. Dopo 6 mesi abbiamo raggiunto risultati sorprendenti (anche per noi!).  Tra chi ha monitorato, abbiamo fatto una media di 2,6 kg di rifiuti indifferenziati per abitante in 6 mesi. La mia famiglia (2 adulti e 3 bambini) ha  raggiunto la punta più bassa, facendo 0,6 kg di RSU per abitante in  6 mesi». Per avere un parametro di paragone, si pensi che la media in Emilia Romagna per le utenze domestiche è di 160 chili di rifiuti solidi urbani per abitante, mentre le famiglie della rete ne producono 5,1 chili e la famiglia di Linda 1,048!! Per i Raee, 0 la famiglia Maggiori, 0,5 la rete delle famiglie a rifiuti zero e 2,5 chili la media regionale; per la plastica, rispettivamente, 1,2 chili, 5,9 chili e 15 chili; per la carta 6,2 chili, 15,1 chili e 35 chili; per il vetro la famiglia Maggiori 1,36 chili, la media della rete 12,1 e la media regionale 22 chili.
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«Come abbiamo fatto a raggiungere questi risultati? Nella mia famiglia autoproduciamo tutto quello che  è possibile: pane, crema spalmabile, marmellata, yogurt, biscotti. Inoltre acquistiamo il più possibile locale e senza imballaggi o con imballaggi vuoto a rendere. Ad esempio cereali e legumi da un produttore locale che ci dà il prodotto in sacchi grandi. Smistiamo cereali e legumi tra le famiglie del gas con paletta e bilancia e rendiamo il sacco al produttore. Dentifrici e creme prodotti localmente, in vasetti in vetro vuoto a rendere. Latte alla spina o in bottiglie vuoto a rendere. Miele in vasi vuoto a rendere. Alimenti vegan in contenitori vuoto a rendere.  Pasta in pacchi grandi o addirittura sfusa: c'è infatti un negozietto a Faenza che vende tutto sfuso. Farina e corn flakes e altri cereali dal fornaio, che normalmente può vendere sfuso. Shampoo eco in taniche grandi, vuoto a rendere. Quando andiamo a comprare gelato, carne, pesce, formaggi o gastronomia, ci portiamo dietro il nostro bel contenitore riutilizzabile e pulito. La cassetta di frutta e verdura, la rendiamo costantemente al produttore, vuota, così come altri possibili contenitori in plastica o polistirolo. Quando andiamo al mercato ortofrutta, ci portiamo dietro le sportine, anche quelle leggere in nylon per mettere l'insalata o verdura bagnata. Assorbenti lavabili,  coppette mestruali per donne, o pannolini lavabili per bambini. Per questo il nostro cesto di rifiuti non si riempie quasi mai. Purtroppo da noi a Faenza il tipo di raccolta è ancora stradale, non ancora porta a porta, e questo non aiuta a divulgare l'esperienza tra famiglie "non del giro". Sappiamo inoltre che la plastica differenziata non si ricicla al 100%. Buona parte va in inceneritore. Quindi, come dice Gesualdi, non ci basta ridurre l'indifferenziata. Noi vogliamo ridurre ogni tipo di materiale, in particolare plastica, perché ogni materiale ha uno zaino ecologico alle sue spalle e anche il riciclo impegna risorse energetiche. Noi continuiamo a ridurre e monitorare, ma spero che questa iniziativa possa allargarsi».
QUI il vademecum con suggerimenti e consigli
Ciliegina sulla torta: la famiglia di Linda riduce anche la CO2, andando sempre a piedi, bici o mezzi pubblici, raramente car pooling o carsharing. «Infatti da 4 anni e mezzo non abbiamo auto. Abbiamo creato una rete di famiglie senz'auto che si riunisce e scambia consigli intorno al Gruppo FB "famiglie senz'auto"».

fonte: http://www.terranuova.it

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Orto in affitto a Roma: la proposta a distanza di leverduredelmioorto.it



Orto in affitto: a Roma il primo orto biologico a distanza in affitto

Vi abbiamo spesso parlato del concetto di orto biologico anche urbano ma ora c’è una novità per tutti coloro che lo vorrebbero ma non si sentono in grado di gestirlo da soli, la possibilità quindi di avere un orto biologico a distanza coltivato per voi secondo le vostre preferenze ed in modo biologico.

“Siamo arrivati anche nella provincia di Roma. Affrettatevi a prenotare il vostro orto!” Questo è il messaggio che appare sul sito leverduredelmioorto.it, un servizio di cui vi abbiamo anche parlato nella nostra recensione di offerte di ecommerce di verdura e frutta bio.
Orto in affitto a Roma
Orto in affitto a Roma: un vero orto biologico a distanza grazie alla proposta di Le Verdure del mio Orto
Le verdure del mio orto” è un progetto nato a Vercelli nel 2009 che propone un rapporto diretto tra produttore e consumatore e che, da qualche giorno, grazie alla partnership con l’Azienda Biologica Le Spinose, in Sabina, offre un nuovo canale per usufruire di prodotti biologici: nasce così il primo orto biologico italiano a distanza a Marchio Garanzia AIAB, che coprirà tutta la zona di Roma e dell’Agro romano.

Orto in affitto a Roma: la proposta a distanza di leverduredelmioorto.it

Ma come funziona un orto biologico a distanza? I romani avranno la possibilità, attraverso il portale, di affittare un appezzamento di terreno e farlo coltivare da un contadino secondo le proprie preferenze e i propri gusti sulle verdure di stagione, fiori, erbe e piccoli frutti da piantare.
Per venire incontro alle esigenze di tutti (coppie, single, famiglie, gruppi e ristoranti) si possono affittare appezzamenti di terreno di dimensioni diverse: si parte da 16 euro per un orto di 30 mq e una fornitura settimanale di 3-4 Kg di orto-frutta fino a 34 euro per una fornitura di 11-12 Kg.
L’invito, dunque, è quello di provare a diventare “contadini virtuali“. E’ certamente un modo nuovo e diverso di vivere l’agricoltura: non sarà necessario seminare e irrigare il terreno; basterà iscriversi on-line e gestire l’orto dal proprio pc, scegliendo in prima persona le verdure di stagione che verranno coltivate e controllate da agricoltori ed esperti secondo metodi di coltivazione tradizionali, impianti di irrigazione a goccia per un maggior risparmio d’acqua e senza utilizzare prodotti chimici.
Quello disponibile sul sito ‘Le verdure del mio orto, si propone, dunque, come un servizio di alimentazione biologica davvero innovativo e altamente personalizzabile che offre all’utente finale anche la possibilità di adottare una piccola risaia scegliendo tra le varietà Carnaroli, Sant’Andrea e Arborio, il metodo di essicazione, il tempo di invecchiamento e il tipo di lavorazione.
Il progetto degli orti biologici  a distanza fa parte di una serie di azioni che contribuiscono ad ampliare una tendenza sempre più diffusa: il ritorno della campagna in città.
Verdure bio a casa vostra
Verdure bio a casa vostra
La stretta correlazione tra alimentazione e salute spinge il cittadino ad una maggiore attenzione alla qualità, alla genuinità e alla provenienza dei prodotti, la quale costituisce un elemento di garanzia di freschezza.
L’orto biologico a distanza viene incontro a queste esigenze riproponendo in un certo senso il concetto dell‘autoproduzione, già ripreso dal 25% degli italiani che hanno deciso di coltivare un orto nel giardino di casa, sul terrazzo o in appositi spazi verdi comunali.
Andrea Ferrante, presidente nazionale dell’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica, e Antonella
Deledda, titolare dell’Azienda Agricola Le Spinose, dichiarano di essere molto soddisfatti di poter inaugurare questa iniziativa di filiera corta, la quale sviluppa un’ulteriore consapevolezza nei consumatori, perchè direttamente coinvolti nella scelta dei prodotti.
Dunque, un modo di agire che non solo fornisce cibo sano e genuino ma nutre anche la fantasia dei consumatori.
Per maggiori informazioni: http://www.leverduredelmioorto.it/

fonte: www.tuttogreen.it

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Una logica predatoria


Questa volta non è difficile immaginare cosa accadrà a Parigi alla Cop 21. Dopo gli annunci di Obama e Xi Jimping e persino dei governi dei paesi del Golfo. Dopo i piani di disinvestimento dal petrolio di alcune grandi compagnie e i successi della green economy, questa volta la svolta ci sarà.
Aveva ragione l’economista britannico Nicholas Stern: costa di più riparare i danni provocati dai mutamenti climatici che non prevenirli. Ora, l’ex manager della Deutsche Bank, Pavan Sukhdev (Corporation 2020, Edizioni Ambiente), ha calcolato che le esternalizzazioni negative del sistema produttivo sono pari all’11 per cento del Prodotto interno lordo globale, mentre basterebbe impegnarne il 2 per cento per stabilizzare il clima.  Ma ciò che davvero fa cambiare la visione delle cose agli investitori è la dimostrazione che si può guadagnare di più  investendo nella riconversione e nella sostenibilità ambientale. Temo che non siano state le assennate parole di papa Bergoglio a far cambiare idea agli amministratori delegati delle multinazionali. In un mondo per un terzo saturo di merci e per gli altri due terzi tenuto in una condizione di non solvibilità nel mercato, continuare nella strada del business us usual non è conveniente.
Per rilanciare investimenti, creare profitti, accumulare risorse finanziarie servono nuovi mercati, nuovi prodotti, nuove applicazioni tecnologiche. L’ambiente è ciò che ci vuole, rappresenta la grande occasione. Gli stati sono chiamati a creare la cornice normativa imponendo delle quote di emissione (autorizzazioni commerciabili all’inquinamento) o/e carbon tax (inquina solo chi può pagare). Gli scienziati devono inventarsi tecnologie pulite da brevettare per ristabilire le gerarchie tra paesi sviluppati e “paesi in ritardo”, condannati ad esportare materie prime e ad importare tecnologie. Le imprese devono industriarsi di più nell’eficientizzare gli apparati energetici e produttivi. Insomma, ancora una volta, in barba a gufisti e catastrofisti, sarà il mercato a salvare se stesso e il pianeta Terra.
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A Parigi si discuterà solo di tempi. Sarà il 2015 o il 2050 o la fine del secolo, ma la strada è segnata. Ci vorrà ancora qualche milione di profughi ambientali da aggiungere a quelli che scappano dalle guerre. Ancora qualche arcipelago del Pacifico verrà sommerso e qualche centinaio di chilometri delle coste italiane verrà eroso, ma alla fine il sole tornerà a splendere anche su Pechino e la green economy sconfiggerà la brown economy. Me lo vorrei augurare. Ma non riesco a superare una antico pregiudizio sulla possibilità che il capitalismo possa non solo umanizzarsi, ma persino naturalizzarsi. C’è una logica predatoria che sovraintende i comportamenti delle imprese capitalistiche e dei loro sistemi di governo che non gli consente di considerare il lavoro umano e le risorse naturali come beni da preservare in sè stessi. Valori assoluti e non strumenti e mezzi da immolare per la creazione di denaro.
Molto onestamente, Obama ha ammesso in una recente intervista di non condividere le critiche di Bergoglio al sistema delle relazioni sociali capitalistiche (Il Cantico che non c’era). Ma temo che anche molta sinistra riformista nostrana non voglia affrontare questo nodo. C’è una incompatibilità strutturale, di sistema, tra il bisogno delle imprese capitaliste di aumentare in continuazione il volume delle merci vendute e comprate e la necessità di salvaguardare i cicli biogeofisici della vita nel pianeta. Non basteranno tutte le energie rinnovabili dell’universo a sostenere stili di vita e consumi “americani”. Non basteranno le nano-bio-tecnologie ad evitare l’esaurimento delle risorse se l’obsolescenza programmata dei nostri computer è inferiore all’anno. Fino a quando i governi continueranno a pensare che il benessere umano sia un sinonimo della crescita economica continueranno a sacrificare il lavoro e la natura a favore di un totem chiamato denaro e misurato in Prodotto interno lordo.

Paolo Cacciari
Paolo Cacciari è autore di articoli e saggi sulla decrescita e sui temi dei beni comuni. Il suo nuovo libro, Vie di fuga (Marotta&Cafiero) – un saggio splendido su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita – è leggibile qui nella versione completa pdf (chiediamo un contributo di 1 euro). Questo articolo è stato inviato anche a Left.
fonte: http://comune-info.net
 

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Un patto di pasta, preparato insieme

Adesso Pasta! è un progetto per la fornitura di pasta di qualità, dove produttori e consumatori gestiscono insieme l’intera filiera produttiva, dai costi ai rischi. Una specie di Sistema di garanzia partecipata applicato non solo alle fasi di coltivazione ma anche di trasformazione e distribuzione, in forma cooperativa, del prodotto. Sono sessanta i Gruppi di acquisto solidale che partecipano a questo patto e concorrono per l’8 per cento al fatturato complessivo di una cooperativa marchigiana, che da anni lavora nel bio, e che è stata coinvolta nel progetto. Insieme alla cooperativa, i Gas contribuiscono anche ad un Fondo di Solidarietà per lo sviluppo dell’Economia Solidale in Italia
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È più facile parlare di processi di economia solidale nei territori: ci si conosce tra gli attori della filiera corta e il rapporto produttore-consumatore è spesso diretto e salta le intermediazioni. Ma questo è sufficiente per definire solidale la relazione? Per molti Gas la “disintermediazione”, il rapporto diretto produttore consumatori, è un “mantra” essenziale accanto a quello della salubrità degli alimenti, della loro sostenibilità, ambientale ed economica. Forse però non basta.
Per chi, all’inizio di questo secolo, leggeva La rivoluzione delle Reti(E.A. Mance – Emi) era chiaro che il modello è molto più largo ed include tutti gli attori dei territori che condividono i valori del bene comune. La relazione, ed una economia basata sulla relazione, si cementa sulla pari dignità, sulla reciprocità, sulla solidarietà e sulla fiducia dei partecipanti al processo. La comunità e il suo sviluppo diviene il contesto ideale per questi processi.
Questo “miracolo” accade a volte a livello territoriale (si pensi ai processi ed ai progetti dei Distretti di economia solidale…..) ma non è facile applicarlo sul piano sovraterritoriale o addirittura nazionale. D’altra parte, come potrebbe un singolo Gas o una rete di Gas contrattare il costo dell’energia, della banda Adsl, di una produzione di scarpe o di abiti? Ecco che entra il tema della rappresentanza, della delega e della partecipazione, altri “tabù”, che evocano il fantasma dei tanti fallimenti di questo periodo storico (si pensi alla trasformazione nei fatti dei grandi principi della Cooperazione, fino a scadere al puro e semplice piano commerciale….).
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Assemblea Adesso Pasta!

Il processo di Adesso Pasta!, che ha ripreso vigore in questi ultimi mesi, sostenuto anche dall’apporto dell’associazione Co-Energia “Progetti collettivi di Economia Solidale” (che al suo interno raccoglie a sua volta una dozzina di Des), accetta questa scommessa: offrire ai sessanta Gas italiani – e potenzialmente anche agli altri – che vogliono partecipare alla fornitura di pasta di qualità (da grano duro e cereali italiani, certificata bio ed essiccata a bassa temperatura) uno spazio di confronto diretto, “delegato/partecipato”, con la cooperativa La Terra e il Cielo di Arcevia (Ancona), che ha creduto nel bio italiano fin dalla sua nascita, trentacinque anni fa.
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Si è formato un Gruppo di Lavoro Misto (Terra e Cielo/Co-Energia/Gas) che ha principalmente affrontato la esplicitazione dei costi trasparenti  di tutte le fasi della filiera produttiva (costi agricoli, di produzione industriale, di gestione della cooperativa, utile e contributi al Fondo di Solidarietà, Iva) per comprendere come incidono sulla singola confezione di prodotto.
Si sono poi concordate le referenze di prodotto da inserire nel nuovo listino decidendo ad esempio di puntare sulle confezioni da 3 chilogrammi, più ecologiche ed economiche, attraverso una linea di prodotto con marchio ed etichetta propria, destinata essenzialmente ai Gas (è forse la prima esperienza italiana, in questo senso).
Questa linea di produzione offre anche ai Gas acquirenti la garanzia che tutto il prodotto deriva da materia prima proveniente dai soci della cooperativa. Si è poi discusso sulle condizioni di fornitura (imballi, trasporto, minimi d’ordine), cercando di contemperare le esigenze di diversi Gas con l’organizzazione del lavoro nella cooperativa: la soluzione scelta è stata quella di rendere evidente il tempo-lavoro necessario nelle varie fasi del ciclo e lasciare al Gas la scelta di internalizzare quel lavoro al suo interno o riconoscerlo economicamente alla cooperativa.
Infine è stato steso assieme il testo del nuovo patto, che lega per una stagione il singolo Gas a una fornitura minima di 2.000 euro ed entrambi gli attori (Gas e Coop.) alla destinazione di un contributo dell’1 per cento ciascuno in un Fondo di Solidarietà e Futuro che, a fine stagione, l’Assemblea di progetto (Gas, soci Coop, cooperativa) deciderà come destinare (il Fondo 2014 ha superato i 4.000 euro).
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Di comune accordo si è anche stabilito che eventuali contenziosi circa i Patti che saranno sottoscritti saranno affrontati in ultima istanza dal Tavolo Res nazionale. Il Gruppo Misto ha infine deciso di continuare il suo lavoro sul piano della informazione e comunicazione, definendo alcuni incontri territoriali con i Gas, nei quali spiegare il processo ed il progetto e raccogliere quella partecipazione che può fare la differenza rispetto ad una semplice relazione commerciale.
Questo processo non è scontato: la disponibilità di una azienda cooperativa nel “mettere a nudo” i propri dati, lo sforzo dei Gas di comprendere e condividere anche i problemi dei soci agricoli, delle difficoltà legate ai singoli raccolti, degli investimenti per il futuro della Cooperativa. Sono lavori in corso verso una economia “diversa e possibile”.

Sergio Venezia
(Ass. Co-EnergiaDes BrianzaGaes F.Marotta Villasanta)
fonte: http://comune-info.net 
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