“Autorganizzazione, appropriazione dei luoghi e produzione di urbanità”
Le
città
sembrano essere intensamente attraversate, in questa fase storica, da
processi e pratiche di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi,
dei propri contesti di vita. Si tratta, in realtà, di esperienze molto
diverse tra loro: dagli
orti urbani alle
forme di autogestione della città informale e autocostruita, dal
parkour alle
occupazioni a scopo abitativo, dagli
spazi verdi autogestiti alle recenti
occupazioni dei luoghi di produzione culturale (cinema, teatri, ecc.), dagli
usi temporanei di spazi abbandonati all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate, ecc.
In questa varietà di situazioni, emergono alcune motivazioni, a
diversi livelli: “di necessità”, di carattere politico e di carattere
personale. Queste tre dimensioni sono in realtà inscindibili e si
influenzano reciprocamente. Anzi, sono un elemento innovatore: ad
esempio,
l’azione e il pensiero
politici sono ripensati anche in considerazione di una relazionalità
profonda e di un rapporto con la vita quotidiana; così come le risposte ai bisogni sociali sono cercate all’interno di idee diverse di città e di
pratiche alternative di convivenza.

Casa Bettola autogestita, Reggio Emilia
Il lavoro sul campo evidenzia, però, un’altra motivazione, che emerge
non solo nelle persone, ma nei collettivi, spesso nella dimensione
sociale della convivenza locale, e cioè un
bisogno di urbanità e di qualità di vita urbana.
È un bisogno che non risponde soltanto a giuste necessità basilari, ma
che si radica anche nel bisogno di una qualità dell’abitare, intesa in
termini di
possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di sentirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città (e non semplicemente di subirlo),
di partecipare
e di sentirsi corresponsabile delle scelte che riguardano il proprio
contesto di vita, di creare condizioni per una socialità reale e
profonda,
di non subire modelli eterodiretti e condizionati soltanto dalle logiche economiciste dell’interesse e del profitto, di decolonizzare l’immaginario collettivo dai modelli imposti di abitare,
di dare valore alla memoria e alla bellezza,
di prestare attenzione alle storie degli abitanti e alla dimensione
della quotidianità, di dare forma ad una progettualità collettiva. Si
tratta di dimensioni che l’attuale sviluppo della città sembra aver
cancellato, e su cui converge un’attenzione che travalica le differenze
sociali o culturali, perché va a interessare la persona nella sua
essenza. E allo stesso tempo, quello dell’urbanità è un bisogno
costitutivo dell’idea stessa di appropriazione dei luoghi e di
autorganizzazione, che altrimenti non potrebbero sussistere.
Conflitti e territori
Anche la dimensione del conflitto assume caratteri diversi.
Sembra assumere forme che non sono più quelle del confronto frontale
sulle politiche, sostenuto da una diffusa mobilitazione sociale. Per
questo motivo, in alcuni casi il conflitto sembra perdere la sua valenza
politica e la sua forza euristica e costruttiva. D’altra parte, questo
cambiamento può essere interpretato diversamente, e l’evoluzione del
conflitto può anche rappresentare l’affermarsi di modi diversi
dell’azione politica e l’esprimersi di energie innovative.
In alcune esperienze si rinuncia ad un conflitto diretto nel senso
tradizionale del termine, pur mantenendo ovviamente un clima di
conflittualità, per lavorare invece sulla
costruzione di un’alternativa
che è prima di tutto culturale e poi politica, attraverso la sua
sperimentazione diretta nella pratica della propria organizzazione,
attraverso la costruzione di relazioni con i propri territori
di riferimento o di reti territoriali a livello cittadino e
sovralocale, e – in alcuni casi – anche attraverso la ricerca di un
riconoscimento istituzionale, preparato tramite
un grande lavoro in campo culturale.
È su questo terreno, quello dell’elaborazione culturale, ovvero
dell’elaborazione di possibili innovative categorie interpretative della
politica e delle istituzioni, interpretata in un senso non egemonico,
ma inclusivo, che si gioca l’affermazione di un’innovazione e di
un’autonomia al di fuori dei tradizionali spazi del conflitto e del
confronto politico, ritenuti inadeguati e di fatto colonizzati dalla
prevalenza dell’economico sul politico.

Centro sociale Il Pozzo, Comunità delle Piagge, Firenze
Ripensare la politica
Alcune esperienze pongono
direttamente ed esplicitamente diversi interrogativi sui modi di
produzione della politica e delle istituzioni,
inserendosi in un vasto dibattito e diventando spesso protagonisti di
una specifica elaborazione culturale. D’altronde anche le esperienze che
non lo fanno esplicitamente, di fatto sollevano indirettamente il
problema.
In primo luogo,
un aspetto caratterizzante è la dimensione dell’azione, l’idea di
costruire e realizzare la politica attraverso l’azione e la pratica.
La politica si elabora e si rielabora nel farsi dell’azione.
In secondo luogo, sembra rilevante l’obiettivo di ricostruzione di uno ‘spazio pubblico’ (concetto
abusato e spesso trasformato in slogan), non più come categoria
astratta della modernità e luogo logoro del dibattito politico
tradizionale, ma come
luogo di produzione della politica che affondi le radici nelle esperienze e nelle domande della quotidianità e della convivenza,
e diventi la costruzione libera di idee a partire dal confronto e dalla
condivisione sulle situazioni di vita e non da ideologie precostituite.
Uno ‘spazio pubblico’ quindi che si radica nelle esigenze e nelle
domande delle persone nella vita di ogni giorno, che a quelle cerca
risposte, che si confronta con le ragioni dell’altro, dove non è il
prevalere di una posizione che importa o interessa ma il percorso del
consenso, il processo che porta alla costruzione di una posizione
condivisa e che risponde alle esigenze espresse e messe in comune.

Casetta rossa, Roma
In terzo luogo, mirano quindi a spostare i luoghi di produzione della politica e a ripensarne le modalità, rispetto a quelli tradizionali.
Queste esperienze sviluppano quindi
il tentativo di ricostruire il politico, non più come categoria autonoma con sue regole specifiche, ma come in-between,
a partire cioè dal ‘sociale’, come attributo del sociale, del vivere in relazione, in una sua forma che si potrebbe considerare più “basale”.
In conseguenza di questo approccio, ed è questo
un quarto punto di particolare attenzione, le esperienze di autorganizzazione pongono il problema del
ripensamento delle istituzioni.
Questo processo ricostruttivo che riparte dalle persone e dalle narrazioni trova la sua
centralità nel territorio,
come luogo della vita quotidiana, come luogo della presa diretta con i
vissuti, con le esigenze personali che diventano sociali,
come luogo della concretezza,
dell’empatia e della convivenza. Come già molti hanno affermato, perché
la politica recuperi un significato è necessario che riparta dai
territori;
non come localismo ma come luogo della ricostruzione di senso.
Vi è la necessità di un re-incanto della politica. Il ‘territorio’,
come proprio ‘contesto di vita’, rappresenta proprio il luogo e il
medium di un tale re-incantamento.
Carlo Cellamare
Carlo Cellamare è docente di urbanistica alla facoltà di
Ingegneria dell’Università La Sapienza. Svolge attività di ricerca sui
processi di progettazione urbana e territoriale e sulla partecipazione
(con particolare attenzioni alle trasformazioni dei quartieri e alle
politiche urbane per le periferie). Tra le sue pubblicazioni: Culture e progetto del territorio (Franco Angeli, 1999), Labirinti della città contemporanea (a cura di, Meltemi, 2001), Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008). Altri articoli scritti per Comune sono qui. La sua adesione alla campagna
Facciamo Comune insieme è leggibile
qua.
fonte: http://comune-info.net