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Gomma da PFU e intasi nel nuovo regolamento UE

Secondo Ecopneus, l'utilizzo nei campi sportivi in erba sintetica risponde già ai limiti sugli IPA che entreranno in vigore l'anno prossimo.













Il polverino di gomma ottenuto dal riciclo di pneumatici fuori uso (PFU) può essere utilizzato come intaso nei campi sportivi in erba sintetica o in altri utilizzi in forma sfusa, anche alla luce del nuovo Regolamento UE 2021/1199
(leggi articolo), che fissa limiti più restrittivi alla presenza di di Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA).

Ad affermarlo è Ecopneus, società consortile senza scopo di lucro per la gestione degli pneumatici fuori uso (PFU) in Italia, che cita i risultati di uno studio condotto cinque anni fa con il supporto scientifico dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS e della società Waste and Chemicals (leggi articolo).


I risultati sui campioni analizzati evidenziarono infatti che la somma degli otto IPA soggetti alla restrizione 28 del Regolamento REACh era compresa tra 5 e 20 mg/kg, quindi sotto la nuova soglia di 20 mg/kg che entrerà in vigore il il 10 agosto 2022, nonché inferiore ai limiti introdotti dal decreto End of waste per la gomma granulare vulcanizzata (DM 178/2020).

" Il Regolamento (UE) 2021/1199 – sostiene Federico Dossena, Direttore Generale di Ecopneus - introduce riferimenti importanti per la salute degli sportivi e cittadini cui la gomma riciclata risponde già, anche con sistemi di campionamento e controllo sugli impianti di produzione definiti dal decreto End of waste, a differenza di altri materiali polimerici che, proveniendo da filiere non altrettanto controllate, possono introdurre sul mercato materiali fuori limite e spesso erroneamente confusi con la gomma riciclata, creando pericolosa confusione per le aziende, il sistema e per i cittadini".

fonte: www.polimerica.it


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Ecodesign: Risparmiare elettricità sufficiente per alimentare un’intera nazione

Migliorare l’efficienza energetica di motori e azionamenti è una bella idea in linea di principio, ma che cosa significa concretamente?



Dal 1° luglio di quest’anno entrerà in vigore il nuovo Regolamento EU 2019/1781 sulla Progettazione Ecocompatibile (Ecodesign) di motori e azionamenti. L’obiettivo è ridurre il consumo di energia in tutta l’Unione Europea. Il nuovo regolamento interesserà direttamente le aziende che acquistano, vendono e utilizzano motori e azionamenti, ma è più difficile valutare i benefici per il grande pubblico. Quanta energia spera di risparmiare l’UE e che cosa significa questo concretamente?

Secondo le stime della stessa UE, nell’Unione Europea sono attualmente utilizzati circa 8 miliardi di motori elettrici. Il conteggio comprende tutti i motori elettrici, dai prodotti di largo consumo come le ventole dei computer, ai grandi motori elettrici industriali per pompe e sistemi di climatizzazione (HVAC). Aumentando l’efficienza di questi motori e degli azionamenti che li controllano, l’UE punta a risparmiare 110 terawattora entro il 2030. Per contestualizzare questo dato, l’energia risparmiata sarebbe sufficiente per coprire il fabbisogno energetico dei Paesi Bassi per un anno intero. Si tratta di un dato impressionante: semplicemente utilizzando motori e azionamenti più efficienti, l’UE risparmierebbe in un anno una quantità di energia superiore a quella consumata da un intero Paese.

“Semplicemente utilizzando motori e azionamenti più efficienti, l’UE risparmierebbe in un anno una quantità di energia superiore a quella consumata da un intero Paese.”

Risparmi energetici realizzabili

La buona notizia è che questi miglioramenti di efficienza energetica sono realizzabili. Il cambiamento comporta semplicemente che, invece di utilizzare motori appartenenti alla vecchia classe di efficienza energetica minima IE2, i nuovi motori dovranno essere di categoria IE3, e tutti i nuovi azionamenti dovranno essere IE2. I prodotti conformi al nuovo regolamento sono già in commercio da anni, pertanto la transizione è semplice dal punto di vista tecnico e garantirà ai proprietari di motori una riduzione tangibile dei consumi energetici e dei costi operativi.

Dotando questi motori di azionamenti si può ottenere un ulteriore risparmio energetico. La giusta combinazione di azionamento e motore può ridurre la bolletta energetica del 60% rispetto a un motore che gira sempre a pieno regime in modalità DOL (Direct-on-Line).

Questo è solo l’inizio

L’utilizzo di motori e azionamenti più efficienti, in linea con i nuovi regolamenti, produrrà enormi benefici, ma esistono ulteriori margini di riduzione dei consumi energetici. Questo perché i regolamenti specificano solo lo standard di efficienza minimo richiesto. Esistono però motori che superano ampiamente il livello minimo di efficienza prescritto e, insieme ad azionamenti altrettanto efficienti, possono offrire prestazioni ancora migliori, soprattutto a carico parziale.

Scegliendo motori e azionamenti a velocità variabile ad alta efficienza, le aziende possono risparmiare grandi quantità di energia e avere la garanzia di rispettare i nuovi requisiti di efficienza energetica per molti anni a venire.

Quanta energia potremmo risparmiare con i nostri motori?

Poiché ABB offre prodotti conformi, è utile chiedersi anche quale impatto potrebbero avere i motori e gli azionamenti di ABB sul consumo energetico mondiale. Per rispondere a questa domanda, nel corso del 2020 la base installata di motori e azionamenti ad alta efficienza di ABB ha consentito risparmi di elettricità per 198 terawattora, un valore oltre tre volte superiore al fabbisogno annuale totale della Svizzera. Anche in questo caso, un enorme risparmio di energia.


Maggiori informazioni sul regolamento Ecodesign

Per approfondire gli effetti dei nuovi requisiti per la progettazione ecocompatibile su motori e azionamenti e sulla vostra attività, e scoprire come ABB può aiutarvi a garantire la conformità. Ecco a quali tipi di motori e azionamenti si applica il nuovo regolamento: Efficienza energetica & Ecodesign

fonte: www.rinnovabili.it


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La Commissione europea presenta il regolamento sulle batterie sostenibili

L’esecutivo Ue ha proposto di aggiornare la normativa comunitaria in materia di pile e batterie affinché promuova la sostenibilità in tutto il ciclo di vita. Sinkevičius”Con questa proposta innovativa stiamo dando il primo grande impulso all’economia circolare”





Pile e batterie costituiscono una tecnologia chiave per la transizione energetica europea. Sono fondamentali per la mobilità sostenibile e per l’accumulo delle fonti rinnovabili, oltre ad essere un elemento integrante della vita quotidiana. Ma affinché la transizione possa realmente essere definita “verde ed ecologica”, l’UE deve assicurasi che lo sia anche il ciclo di vita di questi prodotti. Nasce da questa esigenza, il nuovo regolamento sulle batterie sostenibili, provvedimento con cui la Commissione europea aggiorna la normativa in materia. L’annuncio arriva stamane da Frans Timmermans, Vicepresidente dell’esecutivo UE, Virginijus Sinkevičius, Commissario all’Ambiente, e Thierry Breton, Commissario per il Mercato Interno.

“L’energia pulita è la chiave di volta del Green Deal europeo, ma la nostra crescente dipendenza dalle batterie[…] non deve andare a scapito dell’ambiente. Il nuovo regolamento contribuirà a ridurre l’impatto ambientale e sociale di tutti i tipi di pile e batterie nel loro intero ciclo di vita”, ha commentato Timmermans.

L’attuale direttiva UE sulle pile risale al 2006 e da allora non è mai stata aggiornata. Oggi, alla luce dell’evolversi delle condizioni socioeconomiche, degli sviluppi tecnologici, dei nuovi mercati e dei nuovi impieghi, la legislazione europea necessita un ammodernamento. Soprattutto se si considera che l’uso mondiale di pile e batterie aumenterà di 14 volte entro il 2030; il 17% di questa domanda verrà dall’UE. Una crescita così esponenziale comporterà anche l’aumento in proporzione dell’impiego di materie prime (soprattutto cobalto, litio, nichel e manganese) e della produzioni di rifiuti.

Cosa cambia con il nuovo regolamento sulle batterie sostenibili?

Lo scopo del nuovo regolamento sulle batterie sostenibili è far sì che tutti i prodotti immessi sul mercato comunitario siano green, circolari, ad alte prestazioni e sicuri durante l’intero ciclo di vita. In altre parole dovranno essere prodotti con il minor impatto ambientale possibile, utilizzando materiali ottenuti nel pieno rispetto dei diritti umani e delle norme sociali ed ecologiche; ma dovranno anche durare a lungo, offrire sicurezza e, quando non più utilizzabili, essere destinati a una seconda vita, rigenerati o riciclati. A tal fine la proposta normativa di Bruxelles stabilisce requisiti specifici per ogni tappa della catena del valore e per ogni segmento del mercato (portatili, industriali, per autoveicoli e veicoli elettrici).

Si inizierà a fare sul serio dal 1º luglio 2024, quando potranno essere immesse sul mercato industriale ed automobilistico solo pile e batterie ricaricabili accompagnate da una dichiarazione dell’impronta di carbonio. Dal 1º gennaio 2026 dovranno inoltre recare un’etichetta che ne indichi la classe di prestazioni in termini di intensità di carbonio e dal 1º luglio 2027 dovranno rispettare soglie massime per carbon footprint.

La Commissione propone di mantenere le restrizioni esistenti all’uso di sostanze pericolose – mercurio e cadmio – in tutti i dispositivi di accumulo. Dal 2027, inoltre sarà obbligatorio per le unità usate da industria e automotive dichiarare il tenore di cobalto, piombo, litio e nichel riciclati. Dal 2030 le percentuali aumenteranno: 12% cobalto, 85% piombo, 4% litio e 4% nichel. Un terzo rialzo è previsto dal 2035: 20% cobalto, 10% litio e 12% nichel.

Per quanto riguarda le prestazioni e la durabilità, la proposta prevede lo sviluppo di requisiti minimi per le pile portatili di uso generale (ricaricabili e non) entro il 1º gennaio 2026, così come per le pile e le batterie industriali ricaricabili.

Bruxelles propone di rafforzare ulteriormente le prescrizioni vigenti in materia di rimovibilità, che impongono ai produttori di progettare gli apparecchi in modo da rimuovere facilmente i sistemi d’accumulo. La bozza istituisce anche un nuovo obbligo di sostituibilità, in forza del quale gli apparecchi devono continuare a funzionare anche sostituendo le batterie. Infine prevede di incrementare gli obiettivi di efficienza dei processi di riciclaggio e di definire un obiettivo specifico la tecnologia al litio.

“Con questa proposta innovativa – spiega Sinkevičius – stiamo dando il primo grande impulso all’economia circolare nell’ambito del nostro nuovo piano d’azione dedicato. Questi prodotti sono pieni di materiali preziosi e vogliamo garantire che nulla vada sprecato: la sostenibilità delle pile e batterie deve crescere di pari passo con il loro numero sul mercato dell’UE”.

Inoltre, il nuovo regolamento sulle batterie sostenibili colma la lacuna normativa sul fronte delle misure di sicurezza per i sistemi fissi di stoccaggio: sul mercato dell’UE saranno immessi solo i modelli ritenuti sicuri dopo aver superato prove certe e sono. Queste norme si applicheranno a tutti i prodotti sul mercato dell’UE, a prescindere dalla provenienza.

fonte: www.rinnovabili.it


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Borracce, come scegliere quelle in regola con la legge? I consigli dell’esperto

















Volevo chiedere un’indicazione: la mia associazione intende acquistare delle borracce in acciaio per farne omaggio, nel quadro di una campagna di informazione sul tema della plastica, ai bambini degli ultimi anni delle scuole elementari e primi delle scuole medie della mia città. Nelle ricerche fatte non sono riuscito finora a trovare una chiara indicazione su come accertare, o come farmi dimostrare dal fornitore, che le borracce siano in regola rispetto alla normativa italiana/europea per i prodotti che devono essere a contatto con alimenti (penso a cose tipo: dichiarazione di corrispondenza del prodotto al modello omologato dal ministero, o attestazione con stampigliatura sul prodotto della corrispondenza con i requisiti delle norme pertinenti, ecc.)
Quanto reperito o sottopostomi finora consiste in poco convincenti attestati di “Istituti”, “Enti”, “Laboratori”, dei più disparati paesi del mondo, che comunque non mostrano nessun legame certo con i prodotti offerti. Poiché gli “utenti finali” saranno bambini, alunni di scuole pubbliche, la dimostrabile sicurezza alimentare e la rigorosa corrispondenza alla normativa sono per noi requisiti essenziali. Spero che possiate indirizzarci per la migliore riuscita della nostra iniziativa, e nel ringraziarvi già sin d’ora, vi saluto cordialmente
Lettera firmata
Risponde il nostro esperto di imballaggi e materiali a contatto con gli alimenti, Luca Foltran.
Secondo quanto previsto dalle legislazioni per gli articoli destinati al contatto con alimenti (Regolamento (CE) n. 1935/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 ottobre 2004 riguardante i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari e che abroga le direttive 80/590/CEE e 89/109/CEE), tali oggetti devono essere corredati di una dichiarazione scritta che attesti la loro conformità alle norme vigenti. Pertanto il fornitore di borracce deve essere in grado di sottoporre questo tipo di dichiarazione. Documento che, sempre entro i termini di legge, deve essere corredato da una documentazione appropriata atta a sostenere tale conformità (dichiarazioni inerenti le materie prime utilizzate per produrre l’articolo, rapporti di prova di laboratorio, ecc.)
Le borracce devono avere un’indicazione specifica sull’impiego o il simbolo della forchetta e del bicchiere che attesta l’uso per alimenti
Detta documentazione (definita tecnicamente “Documentazione di supporto”) deve essere resa disponibile alle autorità competenti che la richiedano e durante una fase di compravendita può essere richiesta anche dall’acquirente (l’associazione, in questo caso) trattandosi di una commercializzazione diversa dalla vendita al dettaglio. In questo modo potrà stabilirne la genuinità e la correttezza, sia formale che analitica; la richiesta rientrerebbe in questa situazione tra accordi commerciali che intercorrono durante la fase di acquisto.
Qualora ci fossero dubbi in merito, ci si può rivolgere a un consulente esterno o a un’azienda in grado di verificare il dossier documentale/analitico sottoposto, che controllerà la corrispondenza rispetto ai parametri legali attualmente in forza. Ovviamente la documentazione dovrà avere una corrispondenza univoca e diretta con il prodotto che si sta acquistando (identificazione articolo, eventuali codici attribuiti all’oggetto o lotti di produzione).
Da ultimo, un campione del prodotto che si sta acquistando potrebbe essere inviato a un laboratorio per verificare, attraverso alcuni test, se effettivamente non sussistono criticità e se quanto vi dichiara il fornitore è da ritenersi attendibile.
A livello di marcature si dovrà controllare la presenza di un’indicazione che attribuisca la possibilità di usare la borraccia a contatto con alimenti (la dicitura «per contatto con i prodotti alimentari» o un’indicazione specifica circa l’impiego o il simbolo della forchetta e del bicchiere che attesta l’uso per alimenti). Queste informazioni possono essere presenti sulla borraccia stessa oppure sull’imballaggio o ancora su etichette che accompagnano l’articolo. Sebbene la procedura preveda diversi passaggi, in una situazione come questa sono indispensabili, visto che gli “utenti finali” saranno bambini e la sicurezza alimentare è essenziale.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Inceneritori e rifiuti pericolosi. Le nuove norme sfidano i bilanci

Dal 5 luglio di quest’anno si applica il nuovo regolamento europeo che potrebbe costringere i gestori degli impianti a spendere molto di più per smaltire correttamente scorie e ceneri. Con conseguenze economiche tutte da valutare





Sul calendario degli inceneritori italiani c’è una data cerchiata in rosso: 5 luglio 2018. Da quel giorno, infatti, scatta in tutta l’Unione europea l’applicazione del nuovo regolamento comunitario che riguarda la classificazione della pericolosità dei rifiuti per l’ambiente (il 2017/997). E in quanto regolamento, le sue pagine vanno prese alla lettera da tutti gli Stati membri. Italia compresa. Per le scorie e le ceneri pesanti prodotte dagli impianti di incenerimento potrebbe essere una rivoluzione: applicando i criteri del regolamento, infatti, da rifiuto “non pericoloso” potrebbero risultare rifiuto “pericoloso”. Il condizionale è d’obbligo, perché nonostante sia stato dato oltre un anno di tempo alle imprese e alle autorità competenti “per adattarsi ai nuovi requisiti” -come si legge nel testo adottato dal Consiglio dell’Ue l’8 giugno 2017-, il nostro Paese rischia di trovarsi impreparato.

“Questo regolamento era molto atteso”, spiega il dottor Giovanni Cherubini, dell’ufficio Analisi chimiche dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) del Friuli-Venezia Giulia. “Fino ad oggi -continua Cherubini- i Paesi europei potevano adottare discipline autonome rispetto all’attribuzione della caratteristica di pericolo HP 14 ‘Ecotossico’”. L’Italia -che si riferiva alla cosiddetta normativa ADR (legge 125/2015)- era tra questi. Con le nuove regole europee, invece, i ben più restrittivi limiti di concentrazione delle sostanze pericolose vengono abbassati anche di dieci volte. E la definizione di “Ecotossico” contenuta nel regolamento (con criteri annessi) varrà per tutti: “Rifiuto che presenta o può presentare rischi immediati o differiti per uno o più comparti ambientali”.

Risultato? Molti rifiuti verranno riclassificati da non pericolosi a pericolosi, e potrebbe trattarsi ad esempio di ceneri pesanti o scorie, dove sono presenti ossidi di rame o di zinco e il cui limite di concentrazione passa da 25mila mg/kg a 2,5mila mg/kg. Non è questione di poco conto. Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), i 41 inceneritori che nel nostro Paese hanno trattato rifiuti urbani (26 al Nord, 8 al Centro e 7 al Sud), hanno prodotto 1,4 milioni di tonnellate di rifiuti, il 23% del “totale incenerito” (dati 2016). La maggioranza schiacciante di questi, e cioè 1 milione di tonnellate, faceva riferimento proprio alla voce “ceneri pesanti e scorie”, classificate prima del 5 luglio 2018 come “non pericolose”. Quelle già “pericolose”, invece, sono al di sotto delle 153mila tonnellate.

L’applicazione del regolamento europeo, in teoria, imporrebbe quindi agli impianti una profonda trasformazione ambientale ma soprattutto economica. L’ha riconosciuto anche il direttore generale di una società pubblica che gestisce uno degli undici forni inceneritori di rifiuti urbani attivi in Lombardia. “L’applicazione del nuovo regolamento europeo -si legge in un verbale del consiglio di amministrazione di inizio 2018- potrebbe portare ad una nuova classificazione delle scorie come pericolose; la mancanza di impianti sul territorio nazionale per il recupero di scorie pericolose e la scarsezza di discariche autorizzate per i rifiuti pericolosi sul territorio nazionale ha destabilizzato il mercato alzandone in maniera significativa i prezzi”. Trattare un rifiuto “pericoloso” costa di più e le gare a prezzi antecedenti al 5 luglio -come accaduto per quel forno- vanno deserte.



L’eventualità -che non è automatica- preoccupa non poco i gestori degli impianti, che in qualità di produttori dei rifiuti hanno la responsabilità della corretta classificazione sulla base di analisi approfondite. In Lombardia, prima in Italia per numero di impianti, è stato aperto un “tavolo” regionale di confronto sul punto. “Per il momento -spiegano dall’assessorato all’Ambiente retto da Raffaele Cattaneo- ha coinvolto gli operatori che producono e trattano scorie perché direttamente connessi al servizio pubblico di smaltimento dei rifiuti urbani, soprattutto per quanto concerne la fase preparativa e criteri di valutazione”. La Regione teme un “blocco della filiera del recupero”. “Le scorie di incenerimento ‘pesanti’ che sono state finora classificate come non pericolose -recita una nota inviata ad Altreconomia- potrebbero acquisire, sulla base di alcune analisi chimiche la qualifica di rifiuto pericoloso. L’eventuale passaggio da non pericoloso (EER 190112) a pericoloso (EER 190111*) porterà immotivatamente al rischio di blocco della filiera del recupero stante che gli impianti a valle, pur essendo idonei al recupero, non hanno autorizzazione a ricevere e soprattutto a trattare scorie classificate come pericolose. Analoghi problemi potrebbero sorgere nella commercializzazione dei prodotti derivati (simil argille di vario tipo) e nella classificazione di altri rifiuti. È il caso di ricordare che si tratta di filiera ben consolidata […] e che il fatto che le scorie cambino di classificazione nulla incide sulla qualità del prodotto (le scorie cambiano classificazione non composizione)”.


“Analoghi problemi potrebbero sorgere nella commercializzazione dei prodotti derivati (simil argille di vario tipo) e nella classificazione di altri rifiuti” – Regione Lombardia

Stando alla Regione Lombardia, quindi, “nulla incide” nella sostanza ma si tratterebbe semmai di una “immotivata” grana formale. Ma non è così. Tutto ruota intorno a “come” si conduce l’analisi di eco-tossicità sul rifiuto. I metodi sono due. Il primo è quello della cosiddetta “sommatoria”: “Prevede l’applicazione di apposite equazioni (sommatorie con specifici fattori correttivi in funzione della pericolosità della sostanza), ed è evidentemente necessario conoscere le tipologie di sostanze classificate ecotossiche presenti nel rifiuto e le relative concentrazioni”, spiega Rosanna Laraia, responsabile del Centro nazionale per il ciclo dei rifiuti dell’Ispra. Accanto a questo, prosegue Laraia, “il regolamento prevede che si possano anche applicare test di ecotossicità”. Di che cosa si tratta lo sintetizza bene Cherubini dell’Arpa friulana: “Il biotest consiste nel mettere a contatto la tipologia di rifiuto con l’ecosistema acquatico. La normativa europea ne prevede l’esecuzione su crostacei, alghe o altre piante acquatiche e pesci, specie considerate rappresentative di tutti gli organismi acquatici”. Le prove devono essere eseguite su tutte e tre, seppure la Commissione europea abbia definito i test sui vertebrati “non appropriati”. Se i viventi sopravvivono significa che il “campione” non rilascia sostanze pericolose, nonostante abbia concentrazioni elevate di sostanze chimiche. E se impiegando i due metodi (sommatoria o biotest) vi fossero risultati contrastanti, “pericoloso” secondo la sommatoria ma “non pericoloso” secondo il “biotest”, per l’Unione europea prevalgono “i risultati della prova”, e cioè del biotest. Il punto è che queste “prove” sono nate per testare sostanze pure (solide e liquide) generalmente abbastanza solubili in acqua, in procinto di essere messe in vendita sul mercato. Che è cosa ben diversa da un campione estratto da un flusso di rifiuti: il “punto debole” sta proprio nella riproducibilità del test.


Il neo ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, 
Sergio Costa © Roberto Dia

Ed è su questo che si sta giocando una partita che potrebbe determinare la sopravvivenza o meno dei bilanci delle società che gestiscono i forni inceneritori. A un anno dall’adozione del regolamento, infatti, l’Ispra non ha ancora emanato delle linee guida sul punto che possano uniformare gli standard e agevolare alle diverse Arpa i controlli delle classificazioni fatte dai produttori. È stata una scelta. “L’Istituto non ha emanato specifiche linee guida in materia di attribuzione della caratteristica di pericolo HP14, trattandosi di un regolamento che automaticamente entrerà in vigore il 5 luglio non si è ravvisata la necessità di fornire ulteriori chiarimenti”, spiega Laraia. Che però aggiunge: “Su richiesta del ministero dell’Ambiente si provvederà tuttavia a elaborare una nota tecnica per fornire agli operatori economici interessati indicazioni sulle modalità di applicazione dei due differenti metodi (metodo delle sommatorie e test di ecotossicità)”. Potrebbe essere tardi e dal 5 luglio il rischio è di una fase di “transizione”. A metà giugno 2018, infatti, ognuno si sta muovendo in autonomia. “Non siamo a conoscenza delle modalità che adotteranno i gestori degli impianti per classificare i propri rifiuti una volta entrato in vigore il nuovo regolamento -chiarisce Laraia-. Ci sono state, comunque, riunioni, anche presso il competente ministero, in cui gli operatori economici hanno sollevato alcune problematiche legate, in particolare, alle metodologie di preparazione del campione di rifiuto da sottoporre ai test di ecotossicità ma, anche, indicato modalità analitiche volte a superare dette problematiche”.



“Non siamo a conoscenza delle modalità che adotteranno i gestori per classificare i propri rifiuti una volta entrato in vigore il nuovo regolamento” – Ispra

I gestori, quindi, starebbero “valutando l’applicazione dei metodi di prova in luogo del metodo delle sommatorie”, conferma Laraia, appoggiandosi a laboratori certificati. È il caso ancora una volta della Lombardia, dove il leader indiscusso della gestione degli impianti di incenerimento è il colosso A2a Spa (i soci pubblici di riferimento sono i Comuni di Milano e Brescia). Soltanto i forni dei due capoluoghi gestiti da A2a producono ben 200mila tonnellate di ceneri pesanti e scorie attualmente classificate come “non pericolose”. La società siede a quel tavolo regionale: “Il gruppo di lavoro sta completando la redazione dei rapporti di valutazione conclusivi -spiegano dall’ufficio stampa-, e pertanto non sono ancora disponibili dati pubblici”. A quell’assise ha preso parte anche il laboratorio “LabAnalysis” di Casanova Lonati (Pavia). L’invito è giunto dai “clienti” che gestiscono gli impianti di incenerimento. A2a è uno di questi. Secondo le prove e le analisi condotte con bio test dal laboratorio pavese, le scorie non diventerebbero pericolose, anche dopo “stress” precauzionali effettuati per 28 giorni. L’Ispra, che precisa di non aver “effettuato attività di classificazione delle scorie”, è al corrente che in base ad analisi “non effettuate però dall’Istituto”, risulterebbe che in alcuni casi i “rifiuti risultanti pericolosi secondo il metodo delle sommatorie non sarebbero tali applicando i test”.

Ma c’è un confronto serrato in corso sul “documento” con il quale la Lombardia si appresta a “validare una metodica analitica che tenga presente i test sperimentali”. Creerà parecchie discussioni perché non è condiviso da molti altri tecnici. Il tutto è riconducibile alla mancanza di chiarezza sulle metodiche ecotossicologiche e, in particolare, sulla parte di preparazione del “campione” da sottoporre ai test. Inoltre, le esistenti norme Ocse non sarebbero però adeguate ai rifiuti, in particolare a quelli fisicamente caratterizzati da matrici grossolane eterogenee. Senza contare l’assenza di indicazioni europee e la mancanza di una linea guida nazionale.


fonte: https://altreconomia.it

Tariffa puntuale: dopo vent’anni, il decreto è in Gazzetta Ufficiale
















È stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero dell’Ambiente recante “Criteri per la realizzazione da parte dei Comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati”. Il regolamento, formalmente emanato in attuazione dell’art.1, comma 668, della legge 147 del 2013 (legge di stabilità), ha in realtà origini ben più “antiche”, visto che la sua adozione era prevista già dal dlgs 22 del 1997, il cosiddetto “decreto Ronchi”. Di fatto, insomma, l’adozione del regolamento è in ritardo di poco più di vent’anni.
Obiettivo del decreto pubblicato oggi è quello di fornire ai Comuni una serie di criteri omogenei funzionali sia alla misurazione puntuale dei rifiuti prodotti da utenze singole o aggregate, consentendo alle amministrazioni di quantificarli in termini di peso o anche solo di volume, che alla messa a punto di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio in funzione del servizio reso. Lo scopo, insomma, è quello di attuare una vera e propria tariffa corrispettiva, il cui importo sia commisurato al servizio reso. Anche se, chiarisce il decreto, la misurazione dei rifiuti concorrerà a determinare la sola parte variabile della tariffa, mentre la quota fissa continuerà a rispondere ai criteri fissati nel dpr 158 del 1999. Presupposto fondamentale è naturalmente l’adozione di sistemi tecnologici, dal transponder RFID al codice a barre, che permettano di associare il contenitore, il sacco o il conferimento a un singolo utente o a un utente aggregato, registrare il numero dei conferimenti e misurare attraverso sistemi di pesatura diretta o indiretta le quantità conferite.
Già, ma come si misureranno i rifiuti prodotti da ogni utente? Stando all’articolo 6 la misurazione potrà essere “diretta”, se verrà quantificato il peso del conferimento, “indiretta”, se invece ne verrà misurato il volume sulla base dei contenitori utilizzati per la raccolta, e potrà avvenire alternativamente: a bordo dell’automezzo, tramite un dispositivo in dotazione all’operatore della raccolta,  potrà essere integrata nel contenitore stesso o avvenire in un centro di raccolta comunale. Nei casi di registrazione indiretta, cioè basata sul volume, «la quantità di rifiuto per le frazioni di riferimento, prodotta dall’utenza (RIFut), può essere calcolata anche come sommatoria del prodotto del volume espresso in litri del contenitore conferito per lo svuotamento, o del sacco ritirato o del volume accessibile nel caso di contenitore con limitatore volumetrico, moltiplicato per il coefficiente di peso specifico (Kpeso)» che dovrà essere stabilito dal Comune «per ciascun periodo di riferimento e per ciascuna frazione di rifiuto» in base «alla densità media dello specifico flusso di rifiuto, determinata come rapporto tra la quantità totale di rifiuti raccolti e la volumetria totale contabilizzata».

fonte: http://www.riciclanews.it