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Resilienza e sostenibilità, le 10 città europee dove la vita è ecologica e felice

La scelta di 10 città europee come capitali più green con gli ‘European green city awards’. Le città finaliste sono: Helsingborg (Svezia), Cracovia (Polonia), Sofia (Bulgaria), Tallinn (Estonia); mentre Bistrița (Romania), Elsinore (Danimarca), Gavà (Spagna), Treviso (Italia), Valongo (Portogallo) e Winterswijk (Paesi Bassi) sono stati selezionate per il titolo di ‘European green leaf 2022’



Resilienza e sostenibilità per affrontare le sfide ambientali urbane in modo da rendere ecologica e felice la vita delle persone. Questa la motivazione che ...

CoscienzaVerde: Verde Pubblico Bene Comune - 11 giugno 2021 - dalle ore 17.30

 
















Coscienza Verde


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Anche in condominio si può

Chissà se ora che la pandemia ha contribuito a far precipitare il prezzo del petrolio le alternative al fossile e il risparmio energetico saranno promossi sul serio. Pochi sanno che i pannelli fotovoltaici sono stati scoperti decine di anni prima del petrolio e che oggi qualsiasi condomino che vuole installare un impianto per il proprio appartamento – secondo quanto previsto da una legge e da una sentenza del Tribunale di Milano – ha sempre la possibilità di farlo. Un paragrafo tratto dal capitolo dedicato alla casa del libro di Linda Maggiori Questione di futuro. Guida per famiglie eco-logiche!




















Se si hanno vicini diffidenti, terrorizzati da ogni novità, che minacciano maledizioni e veti, che temono che i pannelli fotovoltaici si spostino con il vento, portandosi il palazzo con sé, e altre piaghe d’Egitto… niente paura, nervi saldi, la legge è dalla vostra. Secondo la Legge n. 220 dell’11 dicembre 2012, infatti, se il progetto non arreca problemi estetici o funzionali, se non modifica la destinazione d’uso di parti comuni e non consuma tutto o buona parte del tetto disponibile, allora il condomino che vuole installare un impianto (per il proprio appartamento) ha possibilità di farlo. Quindi, occorrerà dare «comunicazione all’amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi». La sentenza n.11707/2014 è esplicativa: il Tribunale di Milano ha annullato una delibera assembleare che vietava a un condomino l’utilizzo del tetto comune per l’installazione di un impianto fotovoltaico per la produzione di energia elettrica a uso personale. Secondo il giudice, il veto dell’assemblea era in netto contrasto con quanto disposto dalla Legge suddetta, la quale dà diritto al condomino di installare l’impianto anche senza il consenso dell’assemblea condominiale. Quest’ultima può soltanto prescrivere, a maggioranza, «modalità alternative di esecuzione, imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell’edificio, oppure provvedere a richiesta a ripartire l’uso del lastrico solare o delle altre superfici comuni salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio…».

Se proprio non fosse possibile, perché si vive in affitto, o perché (ahimè) ci sono vincoli architettonici sugli edifici, si può comunque utilizzare energia 100% rinnovabile da un fornitore etico (noi abbiamo scelto Ènostra25). Nel nostro caso, abbiamo scelto un appartamento appena fuori le mura, senza vincoli architettonici, in una posizione favorevole (secondo e ultimo piano, sotto al tetto) che ha semplificato molto i problemi di collegamento tra i pannelli sul tetto e il nostro appartamento. Un altro vantaggio è stato avere un tetto non troppo spiovente e quindi poter usufruire anche del lato nordovest. Meglio ancora sarebbe un tetto piatto. In Germania, sono molto più avanti di noi nello sfruttare l’energia solare, i tetti dei condomini sono piatti, erbosi e ricoperti da pannelli fotovoltaici. I pannelli fotovoltaici inoltre possono essere ondulati, seguendo la forma delle tegole, da qualche anno hanno persino inventato i coppi fotovoltaici “Invisible Solar”, togliendo ogni scusa ai “vincoli architettonici”. In conclusione, senza usare più spazio di quello destinatoci, siamo comunque riusciti a installare pannelli fotovoltaici che ci servono per illuminazione, riscaldamento, acqua calda, cucina. Quando d’inverno o di notte, il sole non basta, compriamo energia pulita dalla rete, come soci della cooperativa Ènostra (25 www.enostra.it).

Illuminarci… senza inquinare!

Il sole colpisce la terra con un’energia che è 10mila volte superiore al suo uso totale nel mondo. Uno spreco immane. Per avere energia elettrica ecologica, a zero CO2, e risolvere buona parte del riscaldamento globale, basterebbe installare pannelli fotovoltaici sul tetto di ogni casa e, per risparmiare energia, sostituire le illuminazioni casalinghe (e pubbliche) con quelle a Led.

Sembra una tecnologia recente e ancora poco diffusa ma in realtà i pannelli fotovoltaici furono scoperti decine di anni prima del petrolio e poco dopo il carbone: nel 1884, infatti, apparve il primo impianto fotovoltaico sul tetto di Charles Fritts a New York. Come in altri casi, il mondo non ha saputo sviluppare appieno questa tecnologia (attualmente produce solo il 2% dell’energia globale), perché i monopoli economici puntavano sul fossile.

Ora che il Covid-19 ha fatto precipitare il prezzo del petrolio, la speranza è che nessuno vorrà più investire in questa risorsa perché il costo di estrazione sarà troppo alto per un prezzo così basso. Nei prossimi anni, speriamo quindi di vedere più tetti solari e importanti investimenti in questo senso da parte degli Stati.

Gli impianti fotovoltaici possono essere:

• senza batterie di accumulo e connesso alla rete: nei momenti di eccesso di energia (estate, ore centrali), questa viene venduta alla rete GSE, mentre nei momenti di scarsità (notte) viene riacquistata dalla rete;

• con accumulo e connesso alla rete: le batterie di accumulo, come già ricordato, hanno un’energia grigia elevata, poiché fatte con litio e cobalto che deriva da miniere nei paesi poveri. Possono essere utili se condivisi da un condominio;

• con accumulo e stand alone: adatte a quelle situazioni abitative particolarmente isolate, per democratizzare l’accesso all’energia nelle zone rurali o sperdute, che non hanno accesso alla rete, e nei paesi poveri. Ad esempio, nel villaggio del lago Titicaca, a 4.000 metri di altezza, i pannelli solari hanno sostituito il kerosene e sono stati salutati con grande entusiasmo dalla popolazione indigena. Dal 2020 è possibile produrre e scambiare localmente l’energia in eccesso, tra i condomini, imprese, edifici pubblici e attività commerciali, per impianti fino a 200 kW di potenza.

Il dossier A Just(ice) Transition is a Post-Extractive Transition (una transizione di giustizia è una transizione post-estrattiva) ci mette in guardia però sui rischi dell’estrattivismo.

Secondo il rapporto, i metalli sono scarsi e non possiamo estrarne quanti ne vogliamo. Bisogna che l’umanità si dia una scala di priorità: cosa ci serve davvero? Energie rinnovabili per riscaldarci e illuminarci sono la priorità. L’industria degli armamenti, dell’elettronica, delle auto elettriche e dell’aviazione sono e saranno altri comparti con una domanda ingente di materie prime minerarie. Ma qui il rapporto solleva una domanda strutturale: «È giusta e necessaria l’ambizione di avere su strada entro il 2050 un miliardo di veicoli elettrici in gran parte privati e destinati al Nord globale?».

Tratto da Questione di futuro. Guida per famiglie eco-logiche (Edizioni San Paolo): pubblicato in accordo con l’editore. Questa la pagina facebook Questione di Futuro.

fonte: comune-info.net


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Non è necessario produrre di più

L’ossessione della crescita economica orienta da decenni le politiche istituzionali. Eppure oggi è evidente che la maggioranza della popolazione mondiale è destinata a restare esclusa dalla ricchezza e ora anche a pagare le conseguenze della crisi climatica. Intanto, l’invenzione dello sviluppo sostenibile e della green economy mostrano la capacità del capitalismo di assorbire tutte le anomalie per renderle conformi ai principi dell’accumulazione. In realtà non esiste alcun Green New Deal da inseguire e non c’è nessuna produzione da aumentare, si tratta di distribuire diversamente le ricchezze e di privilegiare la partecipazione popolare



1. L’orizzonte dell’inclusione è scomparso

Nella storia del capitalismo post-Rivoluzione d’Ottobre ha chiaramente vinto la tesi secondo cui esiste una sorta di proporzionalità inversa tra diseguaglianza sociale e degrado ecologico: ciò significa che per migliorare le condizioni di vita della maggioranza della popolazione l’unica strada percorribile è aumentare a dismisura la pressione sulla biosfera.

Ciò che il New Deal negli Stati Uniti e le politiche dei Trenta Gloriosi in Europa Occidentale, ma anche la pianificazione economica Sovietica, avevano in comune era infatti l’idea che l’inclusione sociale delle classi subalterne potesse avvenire solo attraverso la crescita economica (misurata attraverso il PIL, la cui nascita è datata 1934, non casualmente), intesa come aumento della produzione, e che questa prevedesse necessariamente un’intensificazione dell’impatto ambientale. L’obiettivo teorico dell’inclusione ha guidato le forme dell’agire politico oltre che la rappresentazione pubblica del potere. La grande crisi iniziata negli anni Settanta ha ormai ridotto drasticamente la capacità di funzionare di questo ideale regolativo e sta rendendo evidente il funzionamento reale del sistema. Si tratta di un mutamento radicale che è destinato a segnare la fine della prospettiva di inclusione: l’orizzonte di miglioramento sociale non esiste più, ma persistono lo sfruttamento delle risorse e il degrado ambientale. È diventato evidente che l’assoluta maggioranza della popolazione mondiale è destinata a restare stabilmente esclusa dalla ricchezza e adesso anche a pagare le conseguenze della crisi ecologica e di quella climatica.

2. Le minoranze rumorose hanno determinato il problema politico

Il discorso cambia però se si presta attenzione alle minoranze “rumorose”. Prendendo per esempio in considerazione la grande stagione delle lotte contro le nocività industriali (in particolare 1968-1973) o considerando l’esplosione recente dei conflitti per la giustizia ambientale in diverse aree del pianeta, non è esagerato sostenere che la crisi ecologica sia divenuta un problema specificamente politico grazie e non malgrado la conflittualità operaia e sociale. L’idea che per costruire società più egualitarie fosse necessario produrre di più e quindi aumentare l’impatto negativo sull’ambiente ha sempre guidato l’azione delle socialdemocrazie ed è invece stata sempre avversata dagli ambientalisti (che hanno spesso accettato il corollario di questo ragionamento: a un ambiente più sano avrebbe fatto da contraltare una società più diseguale). Mentre soprattutto nella storia europea si è prodotta un’evidente frattura anche tra l’ortodossia marxista dei grandi partiti e la reinterpretazione operaista del problema, che ha portato diverse esperienze di movimento a partecipare alle battaglie ambientaliste con posizioni molto radicali. È stata una stagione in cui la conflittualità aperta riguardava proprio l’idea dello sviluppo attraverso l’industrializzazione, la questione che solo l’aumento numerico della classe operaia avrebbe potuto garantire il cambiamento sociale. Quella stagione e quella rappresentata dai movimenti attuali hanno mutato l’oggetto del contendere.

3. Il negazionismo reazionario è una delle soluzioni neoliberali

In questo quadro, quasi tutte le forze politiche tradizionali, ormai interne al quadro neoliberale, hanno assunto un atteggiamento che oscillava fra l’aperto negazionismo e l’indifferenza: prima bisognava concentrarsi sulle questioni relative alla Guerra Fredda, poi bisognava sostenere la costruzione del mondo globalizzato. È chiaro che da questo punto di vista non esiste alcuna prospettiva di estinzione della specie umana né sono interessanti i richiami alla sesta estinzione di massa, l’idea del limite si pone infine solo per i gruppi sociali più deboli, non per il sistema nel suo complesso. La scelta del negazionismo in campo climatico o ecologico è perfettamente coerente con il grande progetto reazionario neoliberale, in cui non esiste nulla al di fuori dello spazio di mercato. In assenza di una strategia di sviluppo capace di trasformare il problema ecologico da fattore di crisi a opportunità di profitto, la risposta delle élite al protagonismo dei movimenti sociali è rimasta l’inversione di tendenza rispetto alla forbice sociale: aumentare la polarizzazione sociale ad ogni passaggio della crisi. La contraddizione tra capitalismo e democrazia è stata risolta all’interno di questo disegno: si è operata la riduzione dell’autonomia e la capacità di azione dei sistemi politici e degli Stati anche allo scopo di estrarre liberamente tutte le risorse necessarie.

4. La conversione verde è un’altra soluzione neoliberale

Il progetto neoliberale implica anche il rafforzamento di una particolarità del sistema, cioè la tendenza del capitalismo ad assorbire tutte le anomalie per renderle conformi ai principi dell’accumulazione. La categoria di sviluppo sostenibile (1987) non si è sottratta a questo schema, indica ormai chiaramente una possibile compatibilità tra accumulazione del capitale e cura dell’ambiente. Verso la metà degli anni Novanta, l’idea di green economy ha permesso di fare un passo in più, riuscendo a presentare la crisi ecologica non più come un ostacolo allo sviluppo, bensì come una sua fondamentale condizione di possibilità (si pensi per esempio a come viene normalmente presentata l’economia circolare nel dibattito pubblico). C’è un ragionamento sottile che accompagna tale svolta, perché a causare il degrado ambientale non è il capitalismo, è la povertà o, meglio, sono i poveri. Essi devono essere messi in condizione di non nuocere, ed è per questo che le politiche di green economy si incrociano con quelle di deportazione delle comunità di nativi nel Sud globale, di espulsione di contadini dalle loro terre e di gentrificazione delle città. L’idea di fondo, dal sapore tardo ottocentesco è, in fin dei conti, che la diseguaglianza sociale sia necessaria alla salubrità dell’ambiente. Ciò perché se bisogna liberarsi dal welfare state e dalle preoccupazioni sociali, lasciando libere le élite di investire per salvaguardare gli equilibri ambientali, si torna di fatto all’idea che solo i ricchi possono salvare il pianeta. È una posizione ideologica che serve a preparare una nuova grande ondata di accumulazione che segue esattamente il modello di espropriazione delle precedenti e si realizza sul corpo di donne, migranti, lavoratori e lavoratrici. Questa idea fondamentalmente neoliberale possiede anche un risvolto politico, perché a farsi carico della stabilità ambientale – e in particolare climatica – saranno esperti illuminati e non le comunità: la partecipazione democratica diviene dunque un fattore di limitazione rispetto a politiche pubbliche definite come ecologiste.

5. Il mercato ha fallito, viva il mercato
Si tratta di pratiche di governo che sono state implementate a partire dal 1997, anno della firma del Protocollo di Kyoto. Il riscaldamento globale è stato rappresentato come un fallimento del mercato (che non ha saputo contabilizzare le cosiddette “esternalità negative”) e quindi l’unica originale soluzione presentata è stata ricorrere di nuovo al mercato. Bisogna ribadire che l’invenzione dei nuovi mercati delle emissioni è al momento l’unica soluzione proposta e l’unica prospettiva di politica economica entro cui si muove la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’ONU. Il vero dato interessante ci sembra però che l’ampio consenso sociale e geo-politico rispetto a questa opzione di governo del clima sia scomparso. Non solo dal punto di vista degli apparati statali, che hanno chiaramente dimostrato la loro assoluta impotenza in questo contesto. Lo si è visto chiaramente all’ultima conferenza delle parti a Katowice, dove il fronte negazionista (Stati Uniti, Brasile, Arabia Saudita, Kuwait), che si muove secondo schemi politici classici, ha di fatto sconfessato l’IPCC, cioè l’istituzione scientifica incaricata di fornire i dati a partire dai quali la negoziazione propriamente politica si sarebbe poi dovuta sviluppare. Bisognava rinegoziare, ma in un mercato libero, assumendo che le emissioni sono una merce da gestire secondo un metodo consolidato, ossia nessuna regola, ma soprattutto non devono esserci istituzioni nella contrattazione, ma le grandi aziende. In quella occasione è emersa anche la crisi di buona parte delle ONG, che ha finalmente deciso di cambiare il campo di confronto politico, soprattutto di fronte a risultati empirici sconsolanti: a più di vent’anni da Kyoto le emissioni sono aumentate, non diminuite e sono andate di gran lunga oltre ogni limite oggetto di contrattazione (è il punto fondamentale dei vari interventi di Greta Thunberg).

In questo scenario, sono stati i movimenti socio-ecologici a scompaginare tutto il quadro politico, occupando lo stesso spazio che avevano avuto in passato, cioè determinando il problema politico e ponendo le basi per la nascita di uno spazio politico globale del tutto nuovo. Il numero incredibile di conflitti per la giustizia ambientale evidenzia un percorso in cui il quadro è totalmente sovvertito, le questioni poste sono totalmente differenti da quelle discusse nei summit sul clima e gli attori in campo sono nuovi. Sta scomparendo l’orizzonte statale delle rivendicazioni e soprattutto non c’è alcuno spazio di mediazione sul fatto che il problema è il capitalismo, non gli esseri umani.

6. La transizione la paghino i ricchi
Dopo la presentazione della proposta da parte del partito democratico statunitense, un’area della sinistra mondiale si sta ricompattando intorno alla proposta di un Green New Deal, senza però avere realmente presentato un progetto concreto né fattivamente risolto il problema rappresentato dalla proposta di investimento pubblico in settori che vengono rigorosamente mantenuti privati. Governi come quello italiano e spagnolo, per esempio, hanno inserito la proposta tra i propri obiettivi, senza ovviamente chiarire cosa intendano fare. Le opposizioni di Stati Uniti e Gran Bretagna presentano progetti un po’ meno vaghi, ma sempre molto generici. Il problema di fondo rimane lo stesso, non è dato investimento di tipo keynesiano all’interno di un progetto neoliberale, altrimenti l’intera faccenda si risolve nell’ennesimo trasferimento di denaro pubblico ai privati. Finché la discussione rimarrà finalizzata a sostenere l’uscita dalla crisi nel campo capitalista i risultati potranno essere compatibili solo con la proposta di una nuova grande ondata di accumulazione verde. Esistono in realtà già proposte alternative, molto concrete, costruite sull’idea che il “Green New Deal” sia un percorso da realizzare dal basso, soprattutto finalizzato all’eguaglianza sociale e non alla riproduzione del sistema. L’inversione dello schema neoliberale si risolve infatti proprio in questo, nell’idea che la riduzione delle diseguaglianze è la condizione necessaria per la transizione ecologica, dall’una dipende l’altra. Un sistema costruito sulla sopraffazione non può realizzare alcuna transizione ecologica se non in termini di sottrazione di libertà. Ciò significa che non è necessario produrre di più, bensì distribuire diversamente e privilegiare la partecipazione popolare e democratica. In fin dei conti è anche quello che dicono in questi mesi i gilets jaunes, la cui lotta possiede evidenti connotazioni ambientali: la transizione ecologica la vogliamo, ma non a spese di chi è già impoverito: la paghino i ricchi.

fonte: https://comune-info.net

Hannah Rousey, la ragazza che ha rifiutato la borsa di studio di Nestlé in nome della sostenibilità















Poland Spring, filiale di Nestlé negli Stati Uniti, ha messo a disposizione cinque borse di studio agli studenti di una scuola superiore del Maine che vorrebbero frequentare il college. Una di loro, Hannah Rousey, ha rifiutato il premio da 1000 dollari in nome della sostenibilità ambientale e per schierarsi contro l’operato delle multinazionali.
Secondo Hannah, che ha solo 17 anni, infatti Nestlé e Poland Spring portano avanti delle politiche e delle pratiche distruttive per l’ambiente. In più sono coinvolte nella produzione dell’acqua in bottiglia, a cui la studentessa non vuole in alcun modo dare il proprio supporto.
“Sono grata del riconoscimento che mi è stato attribuito ma, in buona fede, non posso accettare dei soldi da un’azienda che non mostra sostenibilità e principi etici nel proprio modo di operare”ha scritto Hannah in una lettera rivolta a Poland Spring lo scorso 2 giugno.
La studentessa è stata ammessa allo Sterling College in Vermont, dove studierà per ottenere una laurea in agricoltura sostenibile e approfondirà le leggi per la tutela ambientale. Dopo aver frequentato la Fryeburg Academy alle superiori, ora Hannah ha le idee molto chiare. Vuole andare al college ma non vuole l’aiuto economico di aziende non sostenibili.
Lo Sterling College è un’università privata dal costo elevato, ma Hannah non si è lasciata incantare dalla borsa di studio e ha rifiutato il denaro, perché accettarlo sarebbe stato ipocrita da parte sua.

“Sarebbe ipocrita per me accettare la vostra borsa di studio. Ora spero che molte persone della mia generazione diventino consapevoli della necessità di salvaguardare l’acqua, la terra e altre preziose risorse ambientali” – ha specificato nella lettera rivolta all’azienda.
Hannah sa che Poland Spring ha il permesso di estrarre fino a 603 mila galloni d’acqua al giorno dalla falda acquifera di Fryeburg, la città dove ha frequentato la scuola superiore. Quest’acqua poi viene trasportata al più grande stablimento di imbottigliamento del mondo, che si trova a Hollis, nel Maine. Hannah sa bene che le multinazionali offrono soldi e premi alle scuole e alle organizzazioni per distrarre i cittadini dal proprio operato discutibile dal punto di vista ambientale. Così, a suo parere, la popolazione non si rende conto di essere deprivata delle proprie risorse idriche.
Poland Spring ha risposto alla lettera di questa studentessa coraggiosa sottolineando che l’azienda potrebbe estrarre fino a 800 mila galloni d’acqua al giorno dalla falda acquifera di Fryeburg, ma che si mantiene ad un livello più basso in nome della sostenibilità.
Ovviamente non si tratta di una giustificazione accettabile. Il quantitativo d’acqua estratto ogni giorno da Poland Spring rimane comunque elevato e per questo Hannah ha deciso di declinare l’offerta dell’azienda.

Per la studentessa l’estrazione eccessiva di acqua da imbottigliare non è l’unico problema. Infatti non bisogna dimenticare che una bottiglia di plastica per degradarsi completamente impiega almeno 450 anni ma potrebbero essere necessari, secondo le stime, anche 1000 anni.



















Hannah ha imparato fin da piccola a portare con sé una borraccia o una bottiglietta da riutilizzare per non dover comprare acqua confezionata. Da adolescente ha sviluppato una coscienza ambientale sempre più forte che l’ha portata a prendere questa decisione coraggiosa.
La studentessa ha rinunciato alla borsa di studio ma grazie alla generosità dei suoi concittadini e degli amici riceverà comunque un aiuto economico che premierà la sua coerenza. Infatti ha avuto inizio una campagna di crowdfunding per permetterle di proseguire gli studi al college. Sono stati raccolti ben 3000 dollari in soli tre giorni su GoFundMe. La storia di Hannah ci fa davvero sperare in un mondo migliore grazie all’impegno delle nuove generazioni.


fonte: www.greenme.it

La carta d'intenti di Parigi

Il 22 aprile 2016, a New York, le Nazioni Unite iniziano a raccogliere le firme dei Paesi in calce all'Accordo sul clima, frutto della Cop21 di Parigi. La conferenza ha aperto un piccolo spiraglio, anche se nel testo restano numerose ambiguità, che riguardano, ad esempio, la tutela dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico e della sicurezza alimentare. Scrive Roberto Mancini: "La coscienza ecologica transnazionale si è diffusa e rafforzata, rendendo impossibile ai governi l’opzione che porta semplicemente a ignorarla"

 
Un piccolo spiraglio e tanta ambiguità. Così mi pare che si possa leggere l’esito della conferenza di Parigi convocata per stabilire coralmente un limite alle pratiche che provocano il surriscaldamento climatico del pianeta. Partiamo dalle ambiguità, dalle reticenze e dalle resistenze a una svolta vera. I limiti maggiori, anzitutto, stanno nel fatto che non ci sono sanzioni per le nazioni che non rispetteranno l’accordo, né si spiega quali provvedimenti concreti saranno presi per attuarlo.
Tutto questo rischia di fare del testo varato a Parigi una carta d’intenti che ogni nazione tenderà a ritenere vincolante per le altre ma non per sé. Ognuno crede sempre di avere buone ragioni per stabilire un’eccezione a proprio vantaggio. Inoltre, è un brutto segno, rispetto ai reali rapporti di forza che si nascondo dietro le enunciazioni di principio, che l’uso delle energie fossili non sia stato apertamente criticato e che non si dica nulla di concreto sulla scelta del ricorso alle energie rinnovabili.

Per giunta, dalla conferenza di Parigi non viene alcuna indicazione chiara per tutelare i Paesi più colpiti dal cambiamento climatico. Analogamente, mancano i riferimenti sia al processo necessario a tutelare la sicurezza alimentare di tutti, riscattando quanti oggi sono alla fame dalla loro situazione di oppressione e di sfruttamento, sia più in generale al rispetto concreto dei diritti umani, Paese per Paese. Non sono temi laterali o fuori luogo: non ci vuole molto a capire che la tutela ecologica del pianeta è intrecciata essenzialmente con il rispetto delle persone e dei popoli. Le due cose procedono, o regrediscono, insieme. Tale mancanza di riferimenti è l’indizio di un difetto di fondo: molti tra i rappresentanti politici riuniti a Parigi o non hanno la minima consapevolezza critica dell’urgenza di costruire un modello economico inedito, molto più equo e affidabile di quello della globalizzazione capitalista e della sua devastante finanziarizzazione, oppure sono direttamente in malafede e invece di superarlo lo vogliono rafforzare ulteriormente.
Dal complesso di questi segnali si delinea un quadro poco rassicurante, che lascia trasparire una logica non molto diversa da quella tipica dei nazionalismi e del caos sistemico oggi predominante nello scenario delle relazioni internazionali.

Dov’è allora lo spiraglio? Mi sembra che vada cercato soprattutto in due fattori. Il primo è quello per cui la coscienza ecologica transnazionale si è diffusa e rafforzata, rendendo impossibile ai governi l’opzione che porta semplicemente a ignorarla. Il secondo è dato dall’aver istituito un canale e un luogo di confronto internazionale, dopo anni nei quali la prassi del dialogo e delle decisioni comuni è stata semplicemente cancellata. Come si vede sono due fattori importanti ma aggirabili (soprattutto il secondo) non solo dai governi, ma soprattutto da quelle oligarchie globali (finanziarie, industriali, politiche, mediatiche) che non hanno alcun interesse a mettersi sulla via della salvaguardia del pianeta e della democratizzazione della società mondiale.

La fragilità dei passi avanti registrati a Parigi evidenzia una volta di più la necessità vitale dell’attivazione dei cittadini organizzati tanto in movimenti di respiro internazionale, quanto nelle istituzioni locali e nazionali. Infatti se ogni singolo Paese della terra sviluppa la propria fisionomia autenticamente democratica, nonviolenta ed ecologica, allora diventa un concreto co-soggetto per il processo che porterà a un sistema alternativo, l’unico che possa garantire la sorte dei popoli e della natura. Da questo punto di vista guardare al profilo dei governi e dei partiti, in particolare in Europa, è sconsolante per la mediocrità dei soggetti emergenti, per la povertà etica e culturale di queste organizzazioni, per l’accecamento ideologico che fa del neoliberismo il dogma indiscusso che avvolge, come una nebbia mortale, le istituzioni e la mentalità prevalente. Siamo nella condizione di considerare già un grande successo se si riesce ad arrestare l’avanzata delle forze neofasciste. In una situazione così i cittadini più consapevoli devono organizzarsi meglio, allestendo le basi culturali, le buone abitudini, le idee, le forme di rappresentanza necessarie a riparare, anzi a rigenerare, lo strumento della politica istituzionale, che oggi è fuori uso e si presta soltanto ad assecondare la prepotenza delle oligarchie


fonte: www.altraeconomia.it