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Il Bisfenolo A come microinquinante nelle acque

Gli approfondimenti di Arpa FVG










Il Laboratorio di Arpa FVG ha messo a punto il metodo analitico per la ricerca del Bisfenolo A.

L’Agenzia si è adeguata alla nuova direttiva europea sulle acque potabili, entrata in vigore a gennaio 2021, prima ancora che essa sia stata recepita dalla legislazione italiana. Il metodo è pronto per essere accreditato alla prossima visita dell’Ente di accreditamento, prevista per ottobre 2021.

Il Bisfenolo A è una sostanza chimica molto utilizzata, trovando impiego principalmente nella produzione delle plastiche in policarbonato, utilizzate anche nei recipienti per uso alimentare, e nelle resine epossidiche, componenti il rivestimento interno nelle lattine per alimenti e bevande.
Questa molecola è considerata un interferente endocrino, capace cioè di mettere in pericolo la salute alterando l’equilibrio del sistema endocrino, specie nella fase dello sviluppo del feto e nella prima infanzia.

Visti i crescenti limiti all’utilizzo di questa molecola introdotti dalla legislazione europea, alcuni produttori potrebbero utilizzare dei suoi sostituti, sostanze aventi cioè caratteristiche chimiche analoghe, ma non ancora normate, come gli isomeri del Bisfenolo A.
Si tratta di un problema classico nel settore del monitoraggio degli inquinanti emergenti, che richiede un approccio proattivo da parte degli Enti di controllo, capace quindi di prevenire i problemi futuri pianificando anticipatamente le opportune azioni preventive.

A tal fine, il Laboratorio di Arpa FVG è già operativo nella ricerca e quantificazione nelle acque potabili anche di altri Bisfenoli (come per esempio il Bisfenolo S), il cui utilizzo non è ancora attualmente normato ma la cui tossicità sembra essere analoga a quella del Bisfenolo A, secondo quanto suggerito dalla letteratura scientifica.

La nuova direttiva europea ha aggiornato gli standard qualitativi delle acque potabili, imponendo per il Bisfonolo A un limite di concentrazione di 2,5 µg/l (due milionesimi di grammo e mezzo per ogni litro di acqua), concedendo due anni di tempo agli Stati membri per recepire le modifiche nelle loro norme nazionali.

Il metodo analitico messo a punto dal Laboratorio di Arpa FVG utilizza la cromatografia liquida associata a spettrometria di massa ad alta risoluzione, tecnologia all’avanguardia che permette di quantificare il Bisfenolo A ad una concentrazione di 0,1 µg/l (un decimo di milionesimo di grammo per ogni litro di acqua), valore molto al di sotto di quanto richiesto dalla legislazione.

fonte: www.snpambiente.it


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I rifiuti che il Tevere porta in mare: l’80% plastica, l’8% carta e cartone

I risultati di uno studio europeo sul monitoraggio dei rifiuti fluviali realizzato nel canale di Fiumicino 



















Gran parte dei rifiuti marini  che danneggiano l’ecosistema marino vengono portati dai fiumi e tra le ormai molte iniziative che si occupano di marine litter  e della necessità di avere degli indicatori e dei valori base sul  numero dei rifiuti che dai fiumi finiscono nel mare  c’è anche il Riverine Litter Observation Network (Rimmel) al quale partecipano  36 istituti di ricerca europei, coordinati dal Joint research centre (Jrc) della Commissione europea,  che utilizza un protocollo di monitoraggio sperimentale  per censire i rifiuti più grandi di 2,5 cm che galleggiano alle foci dei fiumi.  Di Rimmel fanno parte anche diversi istituti e Ong  italiani che  monitorano  fiumi come  il Tevere e l’Arno e tra questi c’è l’Accademia del Leviatano che dal 2016 monitora dal pedonale di Fiumicino, tutti i rifiuti che dal ramo più piccolo del Tevere entrano in mare. All’Accademia del Leviatano spiegano che «La ricerca è stata portata avanti dai ricercatori volontari dell’associazione esperti nelle tecniche di monitoraggio rifiuti e da studenti che hanno usufruito delle borse di studio della Regione Lazio “Torno Subito”». Alla raccolta di dati, che  saranno utilizzati dal Jrc  per analizzare i valori base ed i trend del quantitativo di rifiuti che dai fiumi giungono al mare, ha partecipato anche l’Associazione Discesa Internazionale del Tevere. I risultati serviranno anche per valutare l’effetto delle politiche ambientali legati ad importati Direttive Europee come la Direttiva Rifiuti e la Strategia Marina. Lo studio, sarà presentato a dicembre ad un convegno sui rifiuti marini organizzato dall’Accademia dei Lincei a Roma
Una delle ricercatrici responsabili del monitoraggio, Miriam Paraboschi, sottolinea che «I rifiuti che finiscono nel mare si frammentano in particelle più piccole che rischiamo di entrare nella catena alimentare del mare; altri, invece, sono riportati dalle mareggiate sulle spiagge diventando così rifiuti urbani la cui gestione è a carico del Comune di Fiumicino nonostante siano stati prodotti altrove», La Paraboschi ricorda anche «Il potenziale rischio di ingestione della plastica da parte di cetacei e tartarughe che frequentano le acque circostanti».
Per un anno, circa ogni 10 giorni, sono stati raccolti dati e dai risultati è emerso che «ogni ora dal canale di Fiumicino entrano in mare 85 oggetti di rifiuti galleggianti più grandi di 2,5 cm. L’80% di questi rifiuti sono di plastica mentre l’8% sono di carta/cartone. Gli oggetti più comuni censiti sono pezzi di plastica più piccoli di 50 cm (e tra questi cicche di sigaretta ed i “bastoncini di plastica” sia dei cotton fioc sia dei “leccalecca”), pezzi di polistirolo, bottiglie, buste, coperchi e confezioni. Presenti tra i rifiuti anche oggetti di gomma e di metallo …numerose anche le scarpe! Frequente anche la presenza di boe, pezzi di rete da pesca, e scatole di polistirolo, presumibilmente legate alla flotta peschereccia locale».
Secondo la responsabile scientifica dell’Accademia del Leviatano, Ilaria Campana,  «I risultati sono in linea con quanto ottenuto dai monitoraggi effettuati in mare aperto da traghetti, in aree prospicienti, a conferma che i fiumi sono le principali vie di immissione di rifiuti in mare». Un dato confermato anche da un recente studio coordinato dall’Ispra.

fonte: www.greenreport.it

Più particelle di micro-plastiche in mare che stelle nella galassia. Contaminati oltre ai pesci, anche birra, miele e sale da cucina



















Una quantità sempre maggiore di plastica sta finendo nei nostri piatti. Non ce ne accorgiamo perché si tratta di particelle piccolissime, di dimensione comprese tra 1 nanometro e 5 millimetri, denominate “micro o nano-plastiche” e i cui effetti sulla salute umana adesso non sono quantificabili. Derivano da rifiuti e , attraverso diversi percorsi entrano nella catena alimentare arrivando fino al cibo. L’habitat privilegiato di questi minuscoli frammenti sono gli oceani, dove isole di detriti di plastica, alcuni grandi come la Francia, galleggiano in sospensione (leggi approfondimento sugli uccelli marini).
Queste particelle si trovano lì per svariate cause: gettati in mare come spazzatura o trasportati attraverso fogne o corsi d’acqua dove convergono scarichi privati e industriali inquinati. Una volta nel mare, i detriti degradano lentamente, soprattutto se esposti alla luce solare, creando miliardi di pezzi microscopici che i pesci e altri abitanti dell’ecosistema scambiano per cibo.


















Recenti studi hanno dimostrato l’ampia portata del fenomeno. Su 504 pesci prelevati dal Canale della Manica, 184 contenevano piccoli granelli di microplastiche. Altre ricerche su pesci pescati al largo della costa portoghese hanno rilevato che 17 su 26 specie avevano residui nel corpo. Fortunatamente non tutti i pezzettini ingoiati dai pesci arrivano sulle nostre tavole. In alcuni casi ristagnano nel tratto gastrointestinale , per cui sono eliminati quando il pesce viene eviscerato  prima di essere consumato (vedi articolo). Nel caso di piccoli pesci e dei molluschi, i tratti intestinali non vengono rimossi e le particelle alla fine finiscono così nello stomaco. Un  esempio di inquinamento da microplastiche  trattato in recenti studi, riguarda le “micro-perle” di dimensione inferiore ai 5 millimetri, utilizzate in prodotti cosmetici (gel doccia e trattamenti viso) che veicolate dagli scarichi domestici possono contaminare la fauna. Un’inchiesta condotta dal governo britannico stima che un piatto di ostriche può contenere fino a 50 unità.
È sbagliato pensare che il pesce sia l’unico alimento contaminato. In 19 campioni di miele, prelevati in Germania, Francia, Italia, Spagna e Messico sono state trovate micro-plastiche (200 granelli circa per ogni chilo)  e le fonti sono tuttora sconosciute. Più recentemente, la rivista francese 60 Millions de consommateurs edito dall’Institut national de la consommation (INC), ha riscontrato risultati simili. Analisi condotte su 12 campioni di miele confezionato hanno rilevato che tutti i prodotti contenevano i contaminanti (nello studio si fa riferimento a residui in forma di “fibre” di origine tessile, “frammenti” presumibilmente derivanti dalla degradazione di rifiuti, e “granuli” provenienti da rifiuti cosmetici ed industriali. In questo caso il dato peggiore arriva a 265 microparticelle per chilo di alimento, in linea con i risultati dello studio tedesco.
























Ma mentre i ricercatori tedeschi ritengono che la contaminazione del miele sia dovuta alle micro-plastiche  presenti anche nell’acqua piovana e nei fiori, dalla Francia  non si escludono contaminazioni derivanti dal processo produttivo successivo al prelievo del miele dalle arnie.
Sempre in Germania, un’analisi condotta dall’Università di Oldenburg su 24 diverse marche di birra tedesca, ha evidenziato che tutti i campioni contenevano fibre, frammenti e materiale granulare. Come le birre siano state contaminate resta una questione aperta: malfunzionamento dei macchinari, bottiglie sporche, orzo e luppolo contaminati sono solo alcune delle ipotesi.
















In Cina, i ricercatori di due università di Shanghai hanno analizzato 15 marche di sali da tavola venduti nei supermercati e hanno contato  fino a 600 particelle per chilogrammo nel sale marino. Piccoli granelli sono stati trovati anche nei cristalli provenienti da laghi, ma in quantità decisamente inferiori (circa la metà) rispetto a quelli marini.
Sebbene non siano stati condotti studi specifici, c’è anche la possibilità che i frammenti arrivino sulle nostre tavole attraverso la carne. Pollame e suini vengono infatti nutriti anche con farina ricavati da piccoli pesci che possono essere  contaminati. L’Istituto tedesco per la valutazione del rischio alimentare (BfR) ha invitato l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) a indagare per capire quali  gli effetti sulla salute umana. La valutazione dell’EFSA  è stata sino ad ora inconcludente e ha evidenziato significative “lacune conoscitive”. In buona sostanza, è troppo presto per dire se questi corpuscoli siano o meno dannosi per i consumatori. Tuttavia c’è la potenziale preoccupazione  che queste particelle portino con sé inquinanti molto pericolosi: PCB, bifenili policlorurati, e bisfenolo A sono solo alcuni esempi.

















Per le eventuali soluzioni, molto dipenderà dai progressi scientifici per  stabilire i reali rischi per la salute. Il dato certo è che stiamo parlando di ben 51.000 miliardi di particelle sparse in mare e negli oceani  (500 volte il numero di stelle che si stima siano presenti nella nostra galassia). Certamente dovranno essere implementati sistemi in grado di consentire la cattura delle micro-plastiche nei mari e negli oceani e dovranno essere messi a punto sistemi per ridurre l’ingresso nei corsi d’acqua. Dovrà essere vietato l’impiego di “micro-perle”  introdotte nei cosmetici e nei prodotti destinati alla pulizia industriale. Il ruolo dei  governi sarà di agire a livello legislativo come si è fatto in Francia dove  è vietata la commercializzazione di piatti, bicchieri e posate monouso in questo materiale. Ma potrebbe non essere abbastanza. Secondo le Nazioni Unite, se anche si dovesse sospendere lo sversamento di rifiuti nell’ambiente, la quantità di micro-plastiche presenti in mare continuerebbe comunque ad aumentare a causa della frammentazione di quelle già presenti. Ci vorranno anni, se non secoli per completare il processo di degradazione. La sfida più grande per l’industria alimentare sarà riuscire  a ripulire l’intero sistema dalle microplastiche, per evitare che arrivino sulle nostre tavole.

fonte: www.ilfattoalimentare.it

Greenpeace: troppa plastica nel piatto, dai pesci ai frutti di mare

Il nuovo rapporto dell'associazione "offre indicazioni allarmanti sugli impatti delle microplastiche su vari organismi marini, tra cui diverse specie di pesci e molluschi comunemente presenti nei nostri piatti, anche se gli effetti sulla salute umana sono ancora troppo poco studiati" Immagine: Greenpeace: troppa plastica nel piatto, dai pesci ai frutti di mare
Sempre più plastica viene ingerita dagli organismi marini e può risalire la catena alimentare fino ad arrivare nei nostri piatti. Lo denuncia un nuovo rapporto "La plastica nel piatto, dal pesce ai frutti di mare" realizzato dai laboratori di ricerca di Greenpeace, che raccoglie i più recenti studi scientifici sugli impatti delle microplastiche, incluse le microsfere, sul mare e quindi su pesci, molluschi e crostacei. L'associazione ambientalista afferma che "si stima che ogni anno arrivino in mare otto milioni di tonnellate di plastica: che siano microsfere o frammenti dovuti alla degradazione di altri rifiuti (imballaggi, fibre o altro)".

"La presenza di frammenti di plastica negli oceani è un problema noto da tempo ma in crescita esponenziale - rileva Greenpeace - Una volta in mare, gli oggetti di plastica possono frammentarsi in pezzi molto più piccoli, e diventare microplastica. Un caso a parte sono le microsfere: minuscole sfere di plastica prodotte apposta per essere usate in numerosi prodotti domestici (cosmetici e altri prodotti per l'igiene personale)". Greenpeace Italia chiede al Parlamento "di adottare al più presto il bando alla produzione e uso di microsfere di plastica nel nostro Paese: su iniziativa dell'associazione Marevivo è stata già presentata una proposta di legge. Si tratta di una misura precauzionale, al vaglio in numerosi Paesi, necessaria per fermare al più presto il consumo umano di questi materiali".

L’ingestione di microplastiche da parte di organismi marini è ampiamente documentata: sono almeno 170 gli organismi marini (vertebrati e invertebrati) che certamente ingeriscono tali frammenti. Un recente studio condotto su 121 esemplari di pesci del Mediterraneo centrale, tra cui specie commerciali come il pesce spada, il tonno rosso e tonno alalunga, ha identificato la presenza di frammenti di plastica nel 18,2 per cento dei campioni analizzati. Analogamente, studi condotti su 26 specie di pesci delle coste atlantiche portoghesi hanno evidenziato la presenza di microplastiche nel 19,8 per cento dei campioni di pesci analizzati: i quantitativi più elevati sono stati ritrovati nel lanzardo (Scomber japonicus) una specie simile allo sgombro e presente sul mercato italiano. Un altro studio sugli scampi (Nephropos norvegicus) ha dimostrato la presenza di frammenti di plastica nello stomaco dell’83 per cento degli esemplari raccolti lungo le coste britanniche.
Come evidenziato da numerosi studi in laboratorio, l’ingestione di microplastiche può generare sugli organismi marini due tipi di impatti differenti: di natura fisica (ad esempio lesioni agli organi dove avviene l’accumulo) e chimica (trasferimento e accumulo di sostanze inquinanti). In esperimenti condotti su spigole (Dicentrarchus labrax) nutrite con frammenti di PVC per 90 giorni, sono stati evidenziati danni di natura fisica, come lesioni al tratto intestinale, sia in individui nutriti con frammenti di plastica contaminata sia in animali nutriti con plastica non contaminata. I risultati di questo studio suggeriscono che la sola ingestione di microplastica, indipendentemente dal contenuto di sostanze tossiche, può generare gravi impatti negativi sulla specie presa in esame.

Considerando che le microplastiche sono presenti in diverse specie ittiche consumate normalmente dall'uomo, è verosimile che con l’alimentazione se ne possano ingerire, anche se gli studi sul possibile effetto tossicologico negli esseri umani sono ancora agli albori. Tuttavia ad oggi sono stati identificati una serie di problemi (ancora oggetto d’indagine) che potrebbero derivare dall’ingestione di microplastiche tramite prodotti ittici contaminati: dalla diretta interazione tra le microplastiche e i nostri tessuti e cellule, fino a un ruolo come fonte aggiuntiva di esposizione a sostanze tossiche. Considerando che molti degli additivi e contaminanti associati alle microplastiche sono pericolosi per la salute umana e per l’ambiente , questo aspetto rimane una delle principali aree su cui concentrare le ricerche in futuro.
fonte: www.ecodallecitta.it

Nelle nostre acque microinquinati che non temono la depurazione

Scoperto dal CNR, nei reflui urbani, la presenza di geni di resistenza agli antibiotici che gli attuali impianti di trattamento non riescono ad abbattere


Nelle nostre acque microinquinati che non temono la depurazione


Sono invisibili a occhio nudo, possono mettere seriamente a rischio l’ambiente e la salute umane, ma soprattutto sono completamente insensibili all’attività di depurazione degli attuali impianti di trattamento idrico. Sono i microinquinanti scoperti nei reflui urbani da un team di scienziati del CNR, materiale genetico che porta con sé la resistenza agli antibiotici. Questi piccolissimi contaminanti sono rilasciati in grandi quantità nelle acque reflue urbane, ma fino a ieri poco si conosceva della loro diffusione. Ecco perché gli impianti moderni, privi di qualsiasi trattamento specifico, non sono in gradi di rimuoverli. Lo studio – condotto dal Gruppo di ecologia microbica (Meg) dell’Ise-Cnr in collaborazione con Università di Mons (Belgio) e Acqua Novara – ha indagato il destino di diversi geni di resistenza antibiotica, geni di resistenza ai metalli (HMRGs) e di sequenze di DNA trasponibile in grado di intrappolare dei geni mobili inattivi, (integroni di I classe) in tre impianti di depurazione.

“Abbiamo dimostrato  – spiega Gianluca Corno, coordinatore della ricerca e ricercatore Ise-Cnr – come all’interno di impianti di depurazione anche molto diversi ci sia una presenza concomitante di geni di resistenza ai metalli pesanti e ad antibiotici di uso comune in medicina umana e veterinaria”.

L’abbondanza di questi elementi e la pressione selettiva esercitata dai metalli stessi nei sistemi di depurazione, potrebbe comportare seri rischi, diffondendo la resistenza agli antibiotici attraverso i reflui trattati. Ciò può portare a sua volta allo sviluppo di comunità batteriche resistenti in natura, e quindi alla permanenza della resistenza per tempi lunghissimi, “con il rischio, in aree antropizzate, di trasmissione della stessa a patogeni umani”.

Questo risultato – continua Andrea Di Cesare ricercatore Ise-Cnr – è il punto di partenza per la progettazione di sistemi validi per il trattamento dei diversi microinquinanti al fine di aumentare l’efficienza della loro rimozione”.
L’immissione in ambiente di questi geni e batteri resistenti agli antibiotici attraverso i reflui urbani, industriali e di produzioni zootecniche non viene ancora considerata dalla legislazione.

“Molte nazioni e l’Ue stanno però lavorando alla definizione di limiti, che imporranno un diverso design dei sistemi di trattamento, che dovrà anche tener conto dei potenziali rischi di co-selezione dei geni stessi in impianto. La nostra ricerca ha coinvolto i tre impianti di depurazione di Novara, Verbania e Cannobio, un esempio di cooperazione con il territorio che può consentire lo svolgimento e la pubblicazione di ricerche a livello internazionale”, conclude Corno.
fonte: www.rinnovabili.it