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L’e-commerce moltiplica i rifiuti. Ma le alternative agli imballaggi usa e getta ci sono

La pandemia ha causato la crescita esponenziale della quantità di imballaggi in plastica finiti nei nostri fiumi, laghi e mari. Un trend negativo da cambiare (e in fretta). Per ripensare e ridisegnare il futuro, a partire dagli imballaggi, è fondamentale perciò che tutti si impegnino nell’adozione di un'economia circolare



La plastica è una minaccia crescente per l’ambiente. Ogni anno ne finiscono nei nostri mari tra gli 8 e i 13 milioni di tonnellate. Come scaricare in acqua, ogni minuto, un camion della spazzatura pieno di plastica. Le conseguenze sono ovviamente disastrose. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, il più grande ente benefico per la promozione e sviluppo dell’economica circolare, se non invertiamo presto questa tendenza, nel 2050 nei mari di tutto il mondo potrebbe esserci più plastica che pesci.

Purtroppo però, negli ultimi anni, ci si è messo un “nemico” in più. Parliamo dei rifiuti plastici generati dall’e-commerce, che stanno diventando un problema molto serio a livello globale. Durante la pandemia, a causa del massivo ricorso all’e-commerce, la quantità di imballaggi – di plastica e non solo – che finiscono nelle discariche o negli oceani è aumentata a dismisura.

L’impatto dell’e-commerce sull’ambiente

Uno studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha calcolato l’impatto dell’e-commerce sull’ambiente. I nostri acquisti online generano un packaging il cui impatto ambientale è dieci volte superiore a quello di un classico sacchetto di plastica: l’equivalente di 182 kg di CO2 contro 11 kg di CO2. Solo nel 2019 l’impronta ambientale generata è stata di 44,4 milioni di tonnellate di CO2, quasi quanto quella dell’intera Svezia.

Cifre impressionanti che sono inevitabilmente peggiorate negli ultimi mesi. La pandemia, infatti, ha cambiato radicalmente il modo in cui le persone fanno acquisti. E con la crescita della vendita online è aumentato in maniera esponenziale anche l’inquinamento da plastica.

Secondo Salesforce, gigante del cloud computing con base negli Usa, le vendite digitali sono aumentate del 71% nel secondo trimestre del 2020 e del 55% nel terzo. Un mare di confezioni e imballaggi destinati alla discarica, all’inceneritore o ad essere dispersi nell’ambiente.

Imballaggi riciclabili ma difficili da riciclare

Il grosso problema della plastica utilizzata negli imballaggi di Amazon e di altri colossi di logistica ed e-commerce infatti è che, nonostante sia riciclabile, farlo non è semplice come sembra. Attualmente, meno del 14% dei quasi 86 milioni di tonnellate di imballaggi in plastica prodotti a livello globale ogni anno viene riciclato. La stragrande maggioranza viene interrata, incenerita o lasciata a inquinare i corsi d’acqua e avvelenare la fauna selvatica.

La plastica è infatti un materiale complesso e, se a questo si aggiungono cattive abitudini e problemi nella differenziata, la questione a livello di impatto ambientale diventa spinosa.

Cattive abitudini

Molti di coloro che ricevono i pacchi non si curano neppure di separare la plastica dal cartone dell’imballaggio primario, mentre in molti Paesi e città le sottili pellicole che costituiscono questi elementi non rientrano neppure nei programmi di raccolta differenziata e vanno portate di persona a un centro di smaltimento.

In California Greenpeace ha citato in giudizio Walmart, la catena multinazionale di vendita al dettaglio, per aver violato le leggi sulla protezione dei consumatori con etichette “false e fuorvianti” sulla riciclabilità dei prodotti e degli imballaggi in plastica usa e getta del negozio Big Box. La maggior parte dei consumatori in California, affermano gli ambientalisti, non ha accesso a strutture in grado di separare questi prodotti dal flusso di rifiuti generali per essere riciclati e finiscono nelle discariche o nell’ambiente.

Il caso Amazon

Secondo un sondaggio fatto ai clienti Amazon Prime, ad esempio, negli Stati Uniti solo il 2% degli intervistati dichiara di smaltire correttamente la plastica degli imballaggi. E Amazon è chiaramente uno dei grandi protagonisti di questa vicenda. Stando a quanto rileva eMarketer, Amazon detiene la quota maggiore delle vendite online al dettaglio negli Stati Uniti con quasi il 39%, con Walmart al secondo posto con il 5,3%.

Uno studio dell’associazione ambientalista Oceana ha calcolato quante tonnellate di imballaggi in plastica di Amazon è finito nei nostri fiumi, laghi e mari. La cifra, relativa al 2019, non tiene conto del boom delle vendite online dovuto alla pandemia, ma è comunque spaventosa. Secondo il report di Oceana, la multinazionale americana lo scorso anno ha prodotto oltre 210 mila tonnellate di rifiuti plastici difficili da smaltire. Se consideriamo che nel 2020 la società è cresciuta a dismisura, arrivando a valere la cifra record di 200 miliardi di dollari di share capital, possiamo immaginare quanto queste cifre debbano essere ritoccate necessariamente verso l’alto.

L’azienda di Jeff Bezos ha registrato un fatturato netto di 96,2 miliardi di dollari nel terzo trimestre del 2020, con un aumento del 37% rispetto al 2019. Durante le festività natalizie ha consegnato 1,5 miliardi di giocattoli, prodotti per la casa, prodotti di bellezza e per la cura personale ed elettronica in tutto il mondo. Il gigante online ha comunque subito smentito i dati di Oceana, sostenendo che “la cifra è esagerata di almeno il 350%”. Amazon afferma di utilizzare meno di un quarto del quantitativo di plastica indicato degli ambientalisti, più o meno 52 mila tonnellate l’anno. Una quantità pur sempre gigantesca.

Oceana ha ribattuto confermando le cifre del suo rapporto, indicando poca trasparenza sul reale uso della plastica da parte del colosso online e sostenendo che “anche se il numero esiguo rivendicato dalla società per l’impronta degli imballaggi in plastica fosse vero, sarebbe comunque un’enorme quantità di rifiuti di plastica, abbastanza da girare un film di millebolle intorno alla Terra più di cento volte, fatto che potrebbe causare problemi molto grandi per la salute degli oceani”. Insomma, nessuna buona notizia.

Cosa sta facendo la società di Jeff Bezos

Amazon sostiene che attraverso il programma Frustration-Free Packaging (FFP) con il quale stimola i produttori a confezionare i propri prodotti in imballaggi riciclabili al 100%, dal 2015 ad oggi è stato possibile ridurre il peso degli imballaggi in uscita del 33%, eliminando oltre 900 mila tonnellate di materiale da imballaggio, l’equivalente di 1,6 miliardi di scatole per le spedizioni.

Secondo Oceana però, tuttora “la quantità di rifiuti di plastica generata dall’azienda è sbalorditiva e cresce a un ritmo spaventoso”. Del resto, è improbabile che la traiettoria ascendente dello shopping online possa invertire presto la propria rotta. Gli esperti prevedono che questo comportamento rimarrà persistente anche dopo la fine della pandemia. Un sondaggio su 2.000 adulti americani condotto da McKinsey & Company a novembre, ad esempio, ha rilevato un aumento netto del 40% dell’intenzione tra gli intervistati di spendere online dopo il Covid-19.

Come ha affermato Matt Littlejohn, vicepresidente senior di Oceana: “Il nostro studio ha scoperto che gli imballaggi in plastica e i rifiuti generati dagli imballaggi di Amazon sono per lo più destinati, non al riciclaggio, ma alla discarica, all’inceneritore o all’ambiente, inclusi, purtroppo, i nostri corsi d’acqua e il mare, dove la plastica può danneggiare la vita marina. È tempo che Amazon ascolti i suoi clienti che, secondo recenti sondaggi, vogliono alternative prive di plastica e si impegnano concretamente per ridurre la sua impronta plastica”. Più di 660mila persone hanno già firmato una petizione su Change.org, chiedendo ad Amazon di offrire opzioni di imballaggio senza plastica e, secondo un sondaggio condotto da Oceana su migliaia di clienti Amazon, l’87% vorrebbero poter usufruire di un servizio del genere.

Un trend da invertire al più presto

Ricordiamo che, secondo le nuove regole europee sulla gestione dei rifiuti entrate in vigore dal primo gennaio, è previsto il divieto di esportazione dei rifiuti di plastica verso i Paesi più poveri del Pianeta. Fino a oggi, i Paesi dell’Unione Europea hanno esportato oltre 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica all’anno, principalmente in Turchia e in Paesi asiatici come Indonesia e Malesia. Ogni Paese dovrà assumersi la responsabilità dei rifiuti prodotti all’interno dei propri confini e adottare in tempi rapidi una riduzione drastica di imballaggi e plastica monouso e a una gestione dei rifiuti più efficiente.

Per David Pinsky, senior plastics campaigner per Greenpeace, il mito secondo cui la plastica può essere riciclata o addirittura gestita in modo efficace è esattamente questo: un mito. “Dobbiamo cercare altre opzioni”, sostiene Pinsky. È dunque necessario abbandonare l’attuale modello lineare di raccolta differenziata e ripensare il modo in cui progettiamo, utilizziamo e riutilizziamo la plastica, puntando su materiali alternativi ed ecosostenibili. Le prime soluzioni di imballaggi plastic-free, sostenibili e riciclabili rimangono però ancora realtà di nicchia. Poco più che soluzioni sperimentali, estremamente limitate nella loro diffusione.

Le alternative in campo

Pensiamo ad Happy Returns, che per ridurre i materiali monouso impiega contenitori riutilizzabili per consentire ai clienti di spedire i resi senza scatola presso i suoi hub di restituzione in California e Pennsylvania. Startup come RePack e LimeLoop offrono buste di spedizione riutilizzabili per la consegna dei loro ordini di abbigliamento online. Asos, una delle 400 aziende e governi che si sono impegnati a ridurre i rifiuti di plastica come parte dell’impegno globale per la New Plastic Economy della Fondazione Ellen MacArthur, sperimenterà i sacchetti riutilizzabili nei primi mesi del 2021.

Per ripensare e ridisegnare il futuro della plastica, a partire dagli imballaggi, è fondamentale perciò che tutti, a partire dai responsabili politici, passando per le aziende – che devono ridisegnare i propri modelli di business – fino ad arrivare alle università, le ONG e i cittadini, si impegnino nell’adozione di un’economia circolare per la plastica.

Facendo leva sulle esperienze di successo e incentivando i comportamenti virtuosi. È la stessa Oceana a sottolineare come Amazon stia agendo bene in India, dietro la spinta di un governo che ha deciso di vietare l’utilizzo delle plastiche monouso entro il 2022. Già a giugno di quest’anno infatti il gruppo ha annunciato di aver eliminato la plastica monouso in tutti i suoi centri di smistamento nel Paese e che il 40% degli ordini viene consegnato nelle sue confezioni originali e senza gli imballaggi Amazon.

Il laboratorio di imballaggi e materiali di Amazon ha anche sviluppato una busta di carta leggera che potrebbe ridurre significativamente l’impronta di plastica dell’azienda se utilizzata al posto delle buste di plastica. Tutte misure che può e dovrebbe cominciare ad adottare anche a livello globale.

fonte: economiacircolare.com

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Acquisti online post pandemia: cresce il quantitativo di packaging e crescono i rifiuti

Confezionare i beni che consumiamo per il trasporto via corriere comporta un utilizzo di materiali decisamente maggiore rispetto agli acquisti fatti direttamente in negozio e, senza regole e buon senso, aumentano i rifiuti. Al netto dell'impero di Amazon, dagli Stati Uniti arrivano tanti esempi virtuosi




L’anno della pandemia ha segnato un’accelerazione degli acquisti online a sfavore delle compere in negozio. Un trend che, con la stagione dei regali, ha visto un’ulteriore crescita. Tra i tanti problemi che questa tendenza porta con sé da un punto di vista ambientale, non ultimo è l’aumento della produzione di rifiuti: confezionare i beni che consumiamo per il trasporto via corriere, infatti, comporta un utilizzo di materiali decisamente maggiore rispetto agli acquisti fatti direttamente in negozio.

Così, nel Natale appena passato, sotto l’albero ci siamo trovati milioni di scatole e scatoloni entrati nel ciclo dei rifiuti. Negli Stati Uniti, dove gli acquisti online erano molto diffusi già prima della pandemia, il fenomeno assume dimensioni preoccupanti e c’è chi sta provando a trovare soluzioni.

Più Internet vuol dire più imballaggio

Secondo dati del Department of Commerce, nel secondo quadrimestre del 2020 i consumatori americani hanno speso 211 miliardi di dollari online, il 16 per cento del totale degli acquisti, segnando un aumento del 44,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Nonostante una lieve flessione nel terzo quadrimestre dovuta alla riapertura dei negozi, l’e-commerce sembra il grande vincitore dell’anno che sta per finire. A conferma, basta citare un dato: nel secondo quadrimestre dell’anno, Amazon ha registrato un aumento del 40 per cento delle vendite per una cifra record pari a 88.9 miliardi di dollari.

Tutti questi acquisti arrivano nelle case dei consumatori imballati in confezioni spesso sovradimensionate. Secondo il rapporto mensile sui contenitori in cartone pubblicato lo scorso luglio dall’American Forest & Paper Association, nel primo semestre del 2020, la produzione di questi contenitori negli Usa è stata del 5 per cento maggiore rispetto allo stesso periodo del 2019.

La spinta è arrivata dal settore residenziale, proprio per via dell’aumento delle consegne a domicilio e del ricorso all’e-commerce. E non c’è solo cartone nei pacchi consegnati nelle nostre case: spesso le confezioni contengono plastica e polistirolo per proteggere i prodotti in esse contenuti. Secondo il rapporto E-Commerce Plastic Packaging – Global Market Outlook, il mercato globale degli imballaggi in plastica per l’e-commerce raggiungerà i 28,60 miliardi di dollari nel 2027, quando nel 2019 ammontava a 9,62 miliardi. Il rapporto cita la crescente penetrazione di Internet e degli acquisti online tra i fattori principali di questa crescita.

Se a restituire all’azienda ci pensa lo stesso corriere

Il problema è reale e tante sono le aziende che stanno esplorando soluzioni. Da una parte, c’è la necessità di confezionare meglio ed evitando lo spreco di materiali: diverse sono le associazioni di categoria che stanno portando l’attenzione verso la spesso frustrante esperienza del consumatore che si ritrova ad aprire grossi pacchi multistrato per scartare prodotti dalle dimensioni ridotte. Dall’altra c’è una spinta a riciclare di più e meglio gli imballaggi. L’Environmental Protection Agency la scorsa primavera ha pubblicato una serie di video informativi per diffondere buone pratiche legate al riciclo, con una particolare enfasi sui cartoni per gli imballaggi, e alcune aziende stanno iniziando a prediligere materiali facilmente differenziabili e riciclabili.

Ma soprattutto si sta diffondendo sempre di più l’idea che le confezioni possano essere utilizzate più volte. In questo filone si inseriscono diverse esperienze che cercando di eliminare gli imballaggi usa e getta dalla catena dell’e-commerce. Tra queste c’è The Lime Loop che offre alle aziende la possibilità di utilizzare i propri servizi e imballaggi per garantire ai propri consumatori un’esperienza di acquisto online a rifiuti zero. Lime Loop fornisce ai propri clienti delle confezioni riutilizzabili all’interno delle quali il consumatore finale riceve i prodotti ordinati online, per poi restituire il contenitore semplicemente dandolo in consegna al corriere. Le confezioni prodotte da Lime Loop sono realizzate in vinile riciclato da vecchi cartelloni pubblicitari. Le aziende le affittano e sono riutilizzabili fino a 2000 volte. Quando il pacco arriva a destinazione, il cliente tira fuori i suoi prodotti, appone sulla confezione un’etichetta di spedizione inclusa nel pacco e lascia o spedisce il contenitore vuoto al corriere che lo restituisce al mittente.

Imballaggi su misura

La startup ha creato anche una app attraverso la quale le aziende possono tracciare le consegne, valutare la soddisfazione dei propri clienti e l’impatto ambientale della scelta di confezioni riutilizzabili. Molto simile è il modello di RePack, nata in Europa nel 2011 e arrivata anche negli Stati Uniti nel 2019. Repack offre ai commercianti che aderiscono le proprie buste riutilizzabili, le loro confezioni sono meno durevoli, ma i vantaggi sono comunque assicurati, non solo per l’ambiente ma anche per i budget delle aziende che, sul lungo periodo, spendono meno in imballaggi. Tante altre sono le aziende che progettano e vendono ai negozi online confezioni riutilizzabili.

Un esempio è quello di Returnity che offre imballaggi su misura e personalizzati sulla base degli specifici bisogni dei diversi venditori che possono ordinarne le quantità di volta in volta desiderate. Concetto simile ma design decisamente meno accattivante per Reusepac e Livingpackets. Il tema interessante, e che approfondiremo molto presto su EconomiaCircolare.com, è per chi invece chi si spinge ancora più in là proponendo alle aziende, non solo gli imballaggi per la consegna, ma contenitori riciclabili per i loro stessi prodotti, come fa Terracycle con il suo sistema Loop.

Intanto, nel nostro Paese sono ancora pochi i negozi online che si servono di imballaggi riutilizzabili. E allora buoni propositi per il nuovo anno: gli acquisti della Befana, meglio farli in negozio.

fonte: economiacircolare.com/


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Amazon, stop alla vendita di oggetti in plastica monouso

Messa al bando dal 21 dicembre in Italia e altri Paesi europei



Amazon interromperà la vendita di oggetti in plastica monouso e di quelli realizzati con plastica oxo-degradabile in Italia e negli altri Paesi Ue in cui opera - Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Olanda - oltre che in Turchia. La rimozione dei prodotti dal sito di e-commerce, spiega la società di Seattle, avverrà il 21 dicembre.

Riguarderà sia i venditori che i fornitori, e si applicherà a tutte le vendite. Nel dettaglio la messa al bando interesserà prodotti come cotton fioc, posate, piatti, cannucce, bastoncini per palloncini, contenitori per alimenti e bevande in polistirolo espanso. La novità si inserisce tra le misure ambientali intraprese da Amazon. Il colosso di Jeff Bezos si è impegnato a raggiungere la carbon neutrality entro il 2040 e il 100% di energia rinnovabile entro il 2025, oltre a portare tutte le spedizioni a zero emissioni di CO2, con l'obiettivo di arrivare a emissioni zero sul 50% delle spedizioni entro il 2030.

fonte: www.ansa.it


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Amazon Distrugge














Il Premio Mani Tese per il Giornalismo Investigativo e Sociale, lanciato nel 2019 e promosso da Mani Tese con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), aveva come obiettivo quello di portare alla luce storie e inchieste relative all’impatto dell’attività d’impresa sui diritti e sull’ambiente.
A vincerlo era stato il team composto da Roberto Pisano, Elisabetta Muratori e Rosario Daniele Guzzo con il progetto d’inchiesta “Amazon: indagine su uno smaltimento al di sopra di ogni sospetto”, che si proponeva di identificare i meccanismi di smaltimento della merce invenduta da parte di Amazon, uno degli attori protagonisti dell’e-commerce a livello globale.

I tre autori erano stati scelti durante la cerimonia di premiazione, tenutasi il 2 maggio 2019 presso la Fondazione Feltrinelli, fra una rosa di sei finalisti da una giuria composta dai giornalisti Gad Lerner, Tiziana Ferrario, Gianluigi Nuzzi, Francesco Loiacono e dal Direttore Comunicazione di AICS Emilio Ciarlo.
Alla selezione dei finalisti del premio avevano contribuito, inoltre, le giornaliste Eva Giovannini e Stefania Prandi e il direttore di Fanpage.it Francesco Piccinini.

AMAZON, UNO SMALTIMENTO
AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
Dalla distruzione di massa dei beni invenduti a una nuova economia circolare.

di ROSARIO DANIELE GUZZO, ELISABETTA MURATORI, ROBERTO PISANO

  1. LIBERI DI DISTRUGGERE
La sequenza di camion disposti sul retro del magazzino si allunga a perdita d’occhio. I gaylord, enormi contenitori riempiti da migliaia di oggetti, sono pronti per essere stivati sugli autotreni in attesa. Sulle scatole la destinazione: destroy.
Secondo le testimonianze raccolte, in Italia il gigante del commercio on-line Amazon distrugge mensilmente fino a 100 mila prodotti nuovi nei poli logistici del territorio. Si tratta di resi danneggiati e beni invenduti: solo una minima parte di questi trova una seconda vita sugli scaffali o diventa un dono. Per il resto delle merci, il capolinea è la pressa di un’azienda incaricata da Amazon allo smaltimento dei beni che non trovano più spazio nelle corsie dei suoi immensi magazzini.
I prodotti condannati alla distruzione hanno gestazione lunga ma vita breve: dalle materie prime per costruirli estratte nell’altro emisfero all’assemblaggio, che avviene spesso molto lontano, fino ai mezzi di trasporto più vari, per arrivare su gomma, rotaia o via mare nei magazzini italiani. E infine, invenduti, ancora avvolti nei loro involucri di plastica, dritti verso il macero.
È nelle pieghe di un regolamento forgiato dalla rapida conquista dei mercati esteri che si gioca la partita della responsabilità. Il prodotto che ordiniamo può avere tre diverse tipologie di provenienza: può essere di proprietà di Amazon oppure di un venditore che si serve solamente di questa vetrina digitale (oggi il 58% delle unità vendute sulla piattaforma). O ancora, la merce di un fornitore esterno che acquista solo i servizi di logistica.
Nell’ultimo caso a decidere delle sorti di resi e prodotti alla fine della scadenza non sarebbe infatti la multinazionale di Seattle, e neanche la sua controllata con sede in Lussemburgo, il piccolo paradiso che accoglie i giganti che vogliono stare con un piede nell’Unione Europea. A disporre la distruzione degli oggetti oltre la giacenza concordata è il fornitore stessopadrone di fare ciò che desidera con la sua merce in virtù di una normativa sulla distruzione volontaria che si sviluppa alla fine degli anni novanta. A eseguire l’eliminazione è invece una piccola azienda dell’indotto locale alla quale viene appaltato lo smaltimento.
Per qualche centesimo in meno. Secondo il tariffario in vigore tra il 2017 e il 2018 le tariffe dello smaltimento rendevano immensamente più conveniente distruggere invece che restituire25 centesimi per unità il costo del reso al fornitore per un articolo di dimensioni standard (fino a 12 chili e dimensioni di 45x34x26cm) contro i 10 centesimi dello smaltimento…



Plastica riciclata e zero emissioni: la rivoluzione green dei device Google

L’azienda informatica ha annunciato che inserirà elementi in plastica riciclata in tutti i suoi device entro il 2022 e che taglierà le emissioni causate dalle spedizioni dei propri prodotti hardware.





















La holding statunitense Alphabet Inc ha annunciato che inserirà plastica riciclata in tutti i device Google e che proverà ad annullare le emissioni causate da spedizioni e trasporti legati al commercio di computer portatili, tablet, assistenti domestici e tutti gli altri prodotti hardware a marchio Google entro il 2022.

Il programma è stato presentato da Anna Meegan, direttrice del reparto sostenibilità per i device Google: già lo scorso anno, l’azienda informatica avrebbe tagliato il 40% delle emissioni legate alle spedizioni di prodotti hardware, in buona parte sostituendo gli invii aerei con quelli meno inquinanti via mare.Secondo quanto spiegato dalla Meegan alla stampa, la neutralità di carbonio nelle spedizioni Google dovrebbe essere raggiunta ricorrendo all’acquisto di carbon credit.

Attualamente 3 dei 9 prodotti hardware a marchio Google disponibili all’acquisto online contengono percentuali variabili di plastica riciclata (tra il 20% e il 42%). L’obiettivo dichiarato in un post sul blog di Google è quello di inserire componenti in plastica riciclata in ogni prodotto dell’azienda informatica.
L’impegno della società americana segue quello più consolidato della rivale Apple: nel 2017, l’azienda di Cupertino aveva fissato l’obiettivo di utilizzare solo materiali riciclati senza però indicare una data specifica. Ad oggi diversi device marchiati con la celebre mela sono costituiti almeno al 50% da plastica riciclata, 11 prodotti contengono elementi realizzati con lattine riciclate e 2 con allumino recuperato.

La stessa Anna Meegan ha riconosciuto il ritardo di Google sul fronte sostenibilità, ma ha ribadito la necessità di un impegno globale per le grandi aziende informatiche e dell’e-commerce.

Negli scorsi mesi Apple, Facebook e la stessa Google hanno avviato piani per il raggiungimento del 100% di alimentazione da fonte rinnovabile nei loro centri di produzione, mentre l’azienda fondata da Mark Zuckerberg ha investito direttamente nella realizzazione di un grande parco fotovoltaico da 379 MW in Texas.

Un impegno considerato da molti ancora marginale, ma che viene sempre più spinto dall’opinione pubblica su cui, paradossalmente, agisce con forza proprio la diffusione delle tematiche ambientaliste tramite la Rete

fonte: www.rinnovabili.it